Smart working – 10

di

18 Marzo 2020

Il contagio delle storie – 10

Convinti, quando le cose vanno bene e quando le cose vanno male, che ciascuno deve fare il suo lavoro, ci troviamo come redazione di fronte a un evento globale, che concorre a mettere a nudo quelle paure che saranno l’argomento del terzo numero del nostro semestrale cartaceo.

Partendo dal testo di Angelo Miotto, abbiamo deciso – nostra vecchia passione – di lanciare un Decameron online, nella vecchia tradizione, di fronte alle paure, di riunirsi attorno al fuoco (della passione narrativa) e di raccontarsi storie.

Mandateci il vostro racconto di questi giorni di Corona virus, tra allarmismi, improvvisati esperti, legittime paure e doverose cautele. Va bene, al solito, qualsiasi linguaggio: audio, testo, video, foto. Inedito o citando altri. Scrivete a redazione@qcodemag.it e noi vi pubblicheremo.

 

Il contagio delle storie – 10

Smart working – Ilaria Romano

Immaginate una persona che vive con il computer a meno di un metro di distanza, che spesso se lo porta anche in bagno o in camera da letto, che lo usa per scrivere, post-produrre immagini, montare un video, lungo o breve che sia, fare ricerca, pagare le bollette.

Anzi immaginate quel computer, che viene spento al massimo una volta a settimana, pure meno, ed è più facile che quando il sonno prende il sopravvento sia semplicemente chiuso con una manata maldestra, magari anche a fare da sandwich a un paio di occhiali. Perché la suddetta non possiede un apparecchio televisivo, una delle poche azioni sovversive che si è concessa, e quindi il malcapitato funge pure da supporto per l’audiovisivo passivo. Ecco, avete una vaga idea del suo – e del mio – lavoro. O di una parte, meno della metà, di esso.

Smart working: cosa vuol dire esattamente? Lavoro intelligente? Lavoro brillante?

Una volta mi diedero della persona smart. Un giovane imprenditore curdo di Erbil, che aveva costruito un piccolo impero nel campo delle nuove tecnologie e che si congratulava con me per aver trovato il suo ufficio introvabile, nella periferia della città, fra capannoni disabitati e ville finto-hollywoodiane. Ma l’unico smart credo fosse lui, io gli avevo solo scattato una foto con la mamma, fuori dal seggio dove avevano votato al referendum per l’indipendenza del Kurdistan iracheno, il 25 settembre 2017. Ma questa è un’altra storia.

Amo concedermi delle finestre di tempo a casa mia, anche e volentieri in totale solitudine, che è una cosa che ho imparato ad apprezzare col tempo; amo tornare fra le mie cose e le mie piccole comodità. Appunto, amo tornare. E questa è l’altra faccia del mio personale smart working.

Perché quando lavoro da casa significa che prima ho prodotto qualcosa fuori di casa. Ho rinunciato a quella che comunemente è definita stabilità, spesso confusa con staticità, per la libertà di movimento. Un ideale punto fermo, seppure in moto perenne, che mi permette di incontrare mondi lontani dal mio, e che mi ha messo tante volte di fronte alle mie paure, mi ha insegnato il valore delle piccole cose, del dono, della condivisione, dell’accoglienza che ho sempre trovato in tutti i luoghi che ho raccontato finora, e che sempre con più fatica ho ritrovato a casa mia. Nel viaggio ho imparato che la vita non è infinita, e che nella continua corsa ogni tanto bisogna fermarsi e dare importanza al tempo e ai sentimenti.

Spero di aver ricambiato questi doni con il rispetto che si deve a ogni essere umano, e con l’umiltà di chi raccoglie un testimone, ogni volta diverso, e mai si sente arrivato. Mi sono concessa il lusso di non volere un tutto già scritto, di sparigliare le carte in ogni momento, di scegliere sempre dove e con chi essere, di farmi contaminare dalle storie delle persone.

Oggi che siamo tutti immersi in una sorta di bolla di sapone a tempo indeterminato, il mio privilegio si rivela, appunto, tale. E capisco di aver sbagliato a darlo finora per scontato.

Sono ferma. Lo ripeto fra me e me come uno che si prende a schiaffi per capire se è sveglio o sta sognando. Sono a casa e penso a tutte le cose che si possono fare, ma nel frattempo mi ritrovo a tergiversare, a perderlo questo tempo, per non guardarlo in faccia.

Eppure lentamente dovrò abbracciarlo questo tempo, non c’è altra scelta. Ora la salute di tutti viene prima dei lavori che stanno saltando, dell’economia in picchiata, delle ripercussioni che avremo e che non saranno di poco conto, della voglia di riabbracciare una persona amata. Prima ci teniamo compatti, sempre a distanza, prima potremmo riassaporare quello che ora ci manca, e apprezzarlo come mai abbiamo fatto. Questa storiaccia ci costringe a guardare quello che siamo diventati, e ci invita a raddrizzare il tiro. Siamo in tempo, non siamo in guerra, ma anche a quella dovremmo pensare, e lì si, senza più lavarcene le mani.