Diario Siriano: storie di rifugiati in Turchia 3

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20 Marzo 2020

La guerra al nord della Siria e la recente espulsione (in alcuni casi, ricollocazione, come vedremo più avanti) di migliaia di profughi siriani irregolari da Istanbul, ha riproposto all’opinione pubblica internazionale la questione dei rifugiati. Ogni volta che sentiamo questa parola, pensiamo subito a qualcuno che sta scappando da una guerra, spesso su un gommone o su una barca. È sempre difficile, però, conciliare questa immagine stereotipata a quella di una persona che da quel gommone o da quella barca riesce a scendere, iniziando così a ricostruirsi una quotidianità. Diario siriano nasce dalla voglia di dare un volto concreto ai rifugiati siriani in Turchia, raccontandone le storie attraverso le loro stesse parole.

La terra promessa

Quando nel 2016 l’Unione Europea decise di versare sei miliardi di euro alla Turchia in cambio dell’accoglienza dei rifugiati siriani (e, così, impedendo loro di raggiungere le città europee), pensai subito che questi soldi sarebbero diventati motivo di nuove discussioni, che avrebbero impazzato su giornali e canali televisivi per gli anni a venire. E così è stato. Perché nell’accordo tra Turchia ed Europa esiste una clausola: i sei miliardi saranno versati in maniera dilazionata fino al 2025. Ad oggi, nel 2020, la Turchia ha ricevuto 2,7 miliardi di euro, con non poche lamentele da parte di coloro i quali ritengono che questi soldi non siano stati sufficienti ad accogliere circa tre milioni e mezzo di persone.

L’apertura del confine turco sull’Europa è stata una delle minacce annunciate di questi anni: “se non arrivano più soldi, vi mandiamo i rifugiati”, “apriremo i confini”, “se ostacolerete il nostro intervento militare al nord della Siria, apriremo le porte dell’Europa ai rifugiati”.

Non ho mai creduto che potesse succedere, avevo sempre pensato a tutto ciò come a una parte delle eterne diatribe tra Turchia ed Unione Europea. Non avevo mai pensato che questo sarebbe potuto succedere nemmeno nel momento in cui- schiacciati dalla crisi economica degli ultimi anni- i turchi, di pancia, hanno cominciato a stufarsi sempre di più dei rifugiati siriani.

Il malcontento era ed è evidente: “paghiamo tutto noi!”, “per loro è tutto gratis”, “se l’Europa non ci aiuta, la Turchia non può sostenere le spese per tre milioni e mezzo di persone!”. Nessuna di queste cose era vera, perché la Turchia in questi anni ha sempre ricevuto aiuti dall’Onu, non è mai stata lasciata realmente da sola, ma la propaganda di giornali e tv ha fatto sì che in molti si convincessero che la Turchia stava spendendo tutti i suoi soldi per i siriani.

Così, quando due settimane fa, dopo l’inizio degli attacchi a Idlib, la Turchia ha deciso di aprire i confini europei ai rifugiati ho pensato subito a una notizia falsa, che poi si è rivelata vera. Alcuni pescatori si sono offerti di trasportare i profughi gratuitamente verso le coste greche: “Abbiamo fatto tutto il possibile per loro, ora che se la spicci l’Europa!” hanno dichiarato alla stampa. Qualcun’altro ha detto: “li porto io personalmente con il mio taxi, basta che non tornino più indietro”.

Istanbul, nei punti della zona europea che vanno verso Edirne (la città turca al confine con la Grecia) si è subito riempita di persone con i loro borsoni, zainetti, buste della spesa piene di vestiti appallottolati. Insieme ai siriani ci sono anche iracheni, pachistani, indiani, afghani. Erano tutti nelle zone di Esenler, Sultangazi, Aksaray, sul Viale di Vatan (dove, curiosamente,

si trova anche l’ufficio immigrazione di Istanbul). Aspettavano qualsiasi mezzo potesse portarli verso quel confine: autobus, taxi, minibus, che per l’occasione sono diventati più cari del solito. La disperazione, infatti, non è un sentimento di valore per gli speculatori.

Si sente parlare di viaggi che arrivano a costare almeno 215 euro, quando normalmente il prezzo è di circa 10. Camminando, dalle parti Aksaray (dove ai tempi dell’Impero Romano si trovava il foro boario) incontro una famiglia di sette persone che si ferma davanti a un taxi per contrattare il prezzo della corsa. Il tassista dice che quel viaggio costerà loro in totale 113 euro, una cifra che quasi sicuramente non potranno permettersi, quasi un furto, ma è il prezzo imposto da tutti i tassisti lì in giro.

Non si fanno sconti a nessuno. In queste occasioni, poi, non manca mai chi ci mette del genio e così salta fuori un tipo che ha deciso di caricare più gente possibile, al prezzo concorrenziale di 9 euro.

Non importa quanti posti a sedere ci siano, o se abbia regolare licenza per fare il conducente di autobus: lui ha deciso caricherà quante più persone possibili e mi chiede di non fotografarlo (chissà perché…).

Mi sposto sul Viale di Vatan, all’inizio non noto nulla di strano, sono circa le nove del mattino e la folla della megalopoli non è ancora per strada, il traffico è calmo, vado avanti e vedo quindi i primi gruppi di persone.

Qualche poliziotto in borghese controlla che non ci siano problemi, incontro anche un dipendente del comune di Istanbul che è lì a monitorare la situazione. Si tiene a distanza, ai lati di un piccolo prato dove sono seduti alcuni ragazzi con i loro borsoni. Riconosco che sono rifugiati dalla bandiera europea e turca stampate sulle loro borse: sono quelle del progetto per i rifugiati.

Il dipendente comunale tiene in mano un tesbih (il rosario islamico) e lo fa girare tra le dita mentre si guarda intorno. Faccio finta di non aver capito bene cosa stia succedendo e perché ci sia quell’assembramento di persone, così gli chiedo: “Dove va tutta questa gente?” e lui mi risponde: “Vogliono andare in Europa, tre giorni fa la Turchia ha aperto i confini, adesso sono liberi di andare via. Molto probabilmente vogliono andare in Germania, non credo che la loro destinazione finale sia la Grecia, lì la situazione economica non è delle migliori, non avrebbero futuro”. A mia volta incalzo chiedendogli: “Come mai la Turchia ha deciso di aprire i confini?”, la risposta che ottengo è quella che mi aspettavo: “La Turchia è stata costretta ad aprire i confini, ormai non possiamo più tenere tre milioni e mezzo di persone. Chi vuole andare, vada.

L’Europa non ci ha aiutato abbastanza, in ospedale è tutto gratis per queste persone, paga tutto lo stato turco. Anche per la scuola vale lo stesso discorso. Non ce la facciamo più. Adesso, con l’attacco a Idlib, busseranno alle porte della Turchia almeno altri due milioni di profughi. Così arriveremmo ad averne cinque milioni. Non è sostenibile per l’economia turca” mi dice, tra una conversazione telefonica in arabo e l’altra. Ha studiato in Egitto, mi racconta, è stato anche lui un migrante anche se per scelta. Parliamo di cosa aspetta queste persone durante il loro lungo viaggio verso la Grecia e poi nel resto d’Europa.

Mi dice: “Almeno qui in Turchia possono sentire la chiamata alla preghiera a tutte le ore, andare in moschea quando vogliono. Credi che in Europa sarà semplice per loro? Lì non ci sono così tante moschee, dovranno camminare chilometri per trovarne una, per sentire la chiamata alla preghiera”. Io gli faccio notare che non sarà facile per loro nemmeno costruirsi una vita, un lavoro, integrarsi. La realtà europea è molto diversa da quella turca e da quella siriana, che almeno si somigliano in colori, sapori, suoni. Io e il dipendente comunale salutiamo, lui è impegnato con le telefonate. Allah’a ısmarladık [1] mi dice. Io riprendo il mio giro.

Ai lati della strada, file di autobus bianchi e vuoti, senza nemmeno il conducente. C’è chi aspetta che si mettano in moto, seduto sull’erba, chi sulle scale della metro, chi in fila alle pensiline dei bus. Si confondono con gli altri abitanti di Istanbul, solo la lingua e qualche dettaglio nell’abbigliamento fanno sì che li si possa distinguere.

Alcuni di loro hanno deciso di partire senza portare nulla, andando a piedi verso il confine, dove a nuoto attraverseranno un lago, nella speranza che poi ad attenderli non vi siano lacrimogeni e idranti, come invece è stato per i loro compagni in queste ore. Sono ragazzi, famiglie con bambini piccoli, altri con neonati in braccio, alcuni nei passeggini. C’è una madre, in mano tiene alcune buste piene di oggetti, con l’altra tiene in braccio la bambina, che penzola, quasi fosse parte dei bagagli. Mi chiedo cosa spinga una madre a mettere a rischio i figli così piccoli per una traversata così pericolosa. Qualcuno, soprattutto tra i più giovani, dice: “Me ne vado perché qui non c’è lavoro. Siamo diventati troppi negli ultimi anni, vado in Europa per cercare un futuro migliore”.

Ali dice: “Sono qui da tanti anni, non sono riuscito a costruire nulla. Non ho finito l’università, non sono riuscito a trovare un lavoro. Voglio provare a fare qualcosa in Europa, magari in Germania”. Muhammad è invece stufo di sentirsi dire dai turchi “i nostri soldati stanno combattendo e perdendo la vita in Siria. Perché tu non vai a salvare il tuo Paese?”. È stufo perché “noi non gli abbiamo detto di salvare la Siria, loro sono lì per badare ai propri interessi ai confini!”. Come lui, ci sono altri che stanno partendo alla ricerca di qualcos’altro in Europa. “Sto andando in Grecia inshallah”, “Vivo da quattro anni in Turchia, sono di Idlib. La Turchia ha quattro milioni di siriani, perché un milione non lo prende l’Europa? Qui in Turchia ho lavorato in un alimentari siriano, in una fabbrica, come muratore. Ho fatto di tutto, ma adesso qui non ci sono più possibilità. Siamo troppi. Bisogna andare via” dice Abdullah. Sono circa 75.000 a tentare la fortuna, non solo siriani, “non so se riusciremo a farcela” dice Enis, “qualsiasi cosa succeda, qualsiasi cosa decida Allah, io voglio andare in Europa, non importa dove ma voglio andare in Europa” risponde Yazaan che gli è vicino”.

Ad oggi, 15 marzo 2020, sono circa 150mila i rifugiati che hanno tentato di varcare il confine europeo. È impossibile dire quanti di questi sono siriani. Tutti loro hanno affrontato lacrimogeni, idranti, poliziotti che hanno buttato nel fiume le loro cose, ma hanno anche incontrato chi ha cercato di aiutarli, ambulanze che li hanno soccorsi

[1] Un’espressione turca che può essere tradotta come “ti offriamo a Dio perché si prenda cura di te”.