Convinti, quando le cose vanno bene e quando le cose vanno male, che ciascuno deve fare il suo lavoro, ci troviamo come redazione di fronte a un evento globale, che concorre a mettere a nudo quelle paure che saranno l’argomento del terzo numero del nostro semestrale cartaceo.
Partendo dal testo di Angelo Miotto, abbiamo deciso – nostra vecchia passione – di lanciare un Decameron online, nella vecchia tradizione, di fronte alle paure, di riunirsi attorno al fuoco (della passione narrativa) e di raccontarsi storie.
Mandateci il vostro racconto di questi giorni di Corona virus, tra allarmismi, improvvisati esperti, legittime paure e doverose cautele. Va bene, al solito, qualsiasi linguaggio: audio, testo, video, foto. Inedito o citando altri. Scrivete a redazione@qcodemag.it e noi vi pubblicheremo.
Il contagio delle storie – 13
Diario del mese della peste – Marcello Sacco
21 febbraio. Approfittando di qualche giorno di ferie (nel Paese che portò il Carnevale in Brasile le vacanze del Martedì Grasso offrono sempre un simpatico ponte festivo) faccio con mia figlia un viaggetto a Roma proprio nei giorni in cui, tra Lombardia e Veneto, scoppia l’epidemia di Covid-19.
25 febbraio. Vacanza significa svuotarsi. Le notizie dell’epidemia ci toccano solo di sera, davanti alla tv, ma di giorno si va a spasso per la grande bellezza. Strade e musei sono ancora pieni, nelle stanze del Raffaello si sta gli uni addosso agli altri come i fuggiaschi dell’Incendio di Borgo, nella Cappella Sistina ci si sente già degli stracci, come la pelle raggrinzita di san Bartolomeo nel Giudizio Universale. Mia figlia riparte oggi per Lisbona, io mi fermo un altro paio di giorni.
27 febbraio. Appena atterrato a Lisbona, città in cui vivo da 25 anni, non so se tornare a casa o consegnarmi alle autorità. Sebbene Roma disti dalla regione colpita dal virus come la capitale portoghese dista da Madrid, l’essere italiano ora potrebbe costituire reato come l’essere cinese quando il morbo infuriava in una sola regione della Cina. È uno di quei casi in cui l’esistenza di un confine politico fa la differenza: lisbonesi e madrileni sono due entità diverse; romani e milanesi (con buona pace dei leghisti della prima ora) sono lo stesso corpo infetto.
1 marzo. Il Portogallo, paese che non ha ancora nemmeno un caso positivo, è già additato come reo di aver fatto ammalare una fra le più famose vittime del Coronavirus, Luis Sepúlveda. Lo scrittore cileno, ora ricoverato in un ospedale spagnolo in condizioni piuttosto serie, aveva partecipato a un festival letterario in Portogallo. Un collega dell’assostampa estera, che aveva cenato con lui in quei giorni, quando ha letto la notizia è balzato sulla sedia. Ha chiamato il numero verde e gli hanno detto: non si preoccupi, aspetti che le venga la febbre e ne riparliamo. Non contento, ha chiamato un amico medico, in Germania, che gli ha ordinato di autoisolarsi immediatamente.
2 marzo. Dei portoghesi mi è sempre piaciuto, fra l’altro, il modo di salutare: due bacetti alle donne, una vigorosa stretta di mano agli uomini. In Italia ci si bacia meno, ma se c’è un rapporto di lunga data ci si bacia anche fra uomini. Quando ho cominciato ad avere anch’io rapporti di lunga data nel mio nuovo Paese, ingenuamente ho provato a baciare qualche uomo, ma venivo respinto con educata ripulsa. Da oggi c’è un primo caso positivo anche qui, ed è un portoghese che tornava dall’Italia. Giornali e tv lo sottolineano: ‘Dall’Italia’. O forse solo a me pare una sottolineatura quella che è una notizia asciutta e oggettiva, come quando si ricordava che Sepúlveda, prima di ammalarsi, era stato in Portogallo. Però ci siamo capiti: il virus viene sempre da fuori, è importato di nascosto come il baco da seta in altri tempi. E non sai se la gente, che prima ti baciava o ti
stringeva la mano, ora non lo fa più perché ha colto l’entità del rischio globale o perché teme l’ennesimo italiano con il baco nascosto. Mettiamoci una pietra sopra. Saluti e bachi.
4 marzo. Oggi un autorevole giornale portoghese pubblica un’intervista a un autorevole infettivologo, il quale autorevolmente dice: gli italiani sono bravi nella pittura, ma non nell’organizzare efficaci politiche di sanità pubblica. Al di là della fondatezza reale o presunta di tale critica, che sta comunque scatenando una circoscritta maretta diplomatica, mi chiedo quale autorevole giornale avrebbe mai pubblicato, in piena tragedia in un lontano paese dell’Africa, un autorevole parere secondo cui gli africani sarebbero più bravi a suonare i tamburi. Anni e anni di dibattiti sulla correttezza politica nei confronti delle minoranze: si dice nero o negro? Afro- discendente o afro-qualcosa?… Ma poi che vita è se ci togliete pure il piacere dell’insulto fra maggioranze europee? Il fatto è che in Europa si fa presto a diventare minoranza, basta mettere il naso fuori di casa.
6 marzo. Qui i casi positivi aumentano e il dramma italiano è sotto gli occhi di tutti, però il governo non ha ancora preso alcuna misura. Mi viene in mente che a Ciampino, all’inizio della nostra breve vacanza romana, io e mia figlia siamo passati dallo screening termico. All’aeroporto di Lisbona, rientrando dall’Italia, zero controlli. Si fa forte il sospetto che almeno una parte delle cifre attuali dipenda dall’accuratezza di certe analisi e da come viene rubricato un decesso in ospedale. In compenso, a fronte dell’assoluta mancanza di linee guida nazionali, qualche istituzione fa da sé e fa per tre, ossia strafà. Ci sono scuole che chiudono per un raffreddore, altre liquidano un febbrone come indigestione o tonsillite. Intanto mi giunge notizia che nelle università, oltre a qualche inevitabile e spiacevole manifestazione dal basso, si starebbe proibendo, dall’alto, agli erasmus italiani di frequentare le lezioni. Se la notizia fosse confermata sarebbe gravissima: nel Paese che perfino quando era fascista respinse le leggi razziali avremmo una misura di profilassi ispirata non alla tracciabilità del contagio ma su base etnica.
8 marzo. È il compleanno di mia figlia e qui per ora si pranza ancora nei ristoranti in gruppi numerosi. Né, d’altronde, si può fare a meno di invitarci, me e lei.
9 marzo. Seguendo la pista degli ipotetici studenti italiani esclusi dalle lezioni universitarie, ho richiesto di iscrivermi in un gruppo Facebook di erasmus a Lisbona. Ho postato qualche giorno fa un messaggio, ma nessun diretto interessato si è finora fatto vivo. Hanno però risposto dei miei amici (che cosa ci facevano in quel gruppo di ventenni?!) e tutti mi hanno ripetuto, con varianti minime, la stessa solfa che già altri mi dicono e ridicono al telefono. Lascia perdere, cosa vuoi? In fondo anche noi italiani siamo stati cattivi coi cinesi e con gli immigrati in genere. È la versione laica e di sinistra della teoria secondo cui i virus ce li manda la Madonna per punire i nostri peccati.
Ora so che se, in un futuro distopico, dovessi essere sbattuto in un campo di concentramento per italiani, secondo i migliori fra i miei compatrioti (la parte più sensibile e politicamente cosciente della nazione) sarò il giusto capro espiatorio per la chiusura dei porti ai rifugiati voluta tanti anni prima da un paio di ministri popolari e populisti.
11 marzo. Oggi ci si aspettava, in conferenza stampa, che la ministra della Salute abbassasse le serrande al Paese, come in Italia. Ma gli esperti del ministero hanno detto no, si va avanti. Intanto i casi positivi aumentano e la psicosi si diffonde. Da giorni è iniziato l’assalto ai supermercati e il primo bene di consumo a essere scomparso dalle navate è la carta igienica. Sarà solo un dettaglio (che ha già generato una quantità di buffi memi digitali) ma per me ormai si inserisce in questa catena virale di riflessioni sui baci fra uomini e sul politicamente corretto a fasi alterne. Insomma, anni e anni di dibattiti sulla libertà sessuale e le nuove identità di genere, la sinistra movimentista al governo e tutte le recenti estensioni dei diritti civili a nuovi soggetti desideranti, ma poi, al primo segnale di crisi vera, la prima cosa che salta in mente al cittadino medio è di pararsi (o pulirsi) il culo?
12 marzo. Il primo ministro, António Costa, ha appena chiuso le scuole e invitato i portoghesi a rimanere in casa. Lo ha fatto a prescindere dalle dichiarazioni di ieri dei tecnici del ministero, pochi minuti dopo lo stesso annuncio fatto da Macron. Chiederò al mio amico Gianluca, lusitanista di razza, dove si trova esattamente quella frase di Eça de Queirós che dice: “Il Portogallo è un Paese tradotto dal francese”. Stavolta è stata una traduzione simultanea.
14 marzo. Ancor prima del decreto era iniziata, per molti di noi, una sorta di clausura moderata e volontaria. La polizia per strada non ti ferma, ma diversi locali hanno preso l’iniziativa di chiudere e per noi che lavoriamo a scuola il ministro ha detto, con l’indice puntato: non crediate di potervene andare a spasso. Il ministro dell’Istruzione è il professor dei professori e gli esami, si sa, non finiscono mai. Intanto, mentre alcuni bar chiudono, altri restano aperti e scommettono sulla chiusura dei concorrenti. Riproducono in scala le differenze fra stati. Gli inglesi infatti hanno già avvisato che loro si ammaleranno, ma tireranno diritto. Si profilano due Europe e una quantità di possibili ‘terze vie’ da una parte i mammoni italiani, che si stringono a coorte per difendere i loro vecchi a costo di paralizzare un continente. Dall’altra i malthusiani cinici, per i quali il virus farà un po’ di doloroso riassetto demografico, sorry.
15 marzo. A proposito di inglesi, ora che hanno lasciato l’UE ci aiutano a tenere in vita il trattato di Schengen, minacciato dal morbo. Diversi miei amici sono rientrati dall’Italia negli ultimi giorni, passando da Londra e Parigi, in barba al cancellamento dei voli diretti. Portavano il plico delle autocertificazioni da mostrare alle autorità locali, ma nessuno ha chiesto nulla. Anche un servizio del telegiornale ha mostrato un portoghese che tornava da Torino via Monaco di Baviera. L’hanno fatto passare e lui era indignato. Garantiva che i suoi colleghi rumeni sono stati messi in quarantena appena sbarcati. Ah, il senso dei popoli dell’est per le frontiere…
16 marzo. Gli intellettuali che ritengono questa pandemia un trucco del Potere per guardarci e papparci meglio sono i nuovi Don Ferrante, uno che attribuiva le cause della peste all’influsso degli astri e ”andò a letto, a morire, – dice Manzoni – come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle”. Avrebbero dovuto capirlo da tempo che il Potere (qualunque cosa esso sia) vuole che andiamo a bere lo spritz in piazza. E alla fine di tutto ciò (chissà quando), una delle cose che ci sarà sfuggita di mano sarà il discorso sulla salute del pianeta. In questo mese non si sono eclissati solo Salvini e i no-vax, ma anche Greta. I chiari segni di disintossicazione dell’aria in Cina e delle acque a Venezia dimostrano che il pianeta si salva solo se, come a Chernobyl, moriamo noi. Potremmo imparare a fare, come in quelle religioni del digiuno o del pane azzimo, un periodo di quarantena rituale ogni anno. Una Quaresima vera, come questa, con le piazze deserte e spettrali, non col sushi al posto della carne. Ma intanto lo spettro del consumismo, pur ammaccato, si aggira per l’Europa, in business e in economy. Uno degli amici appena rientrati dall’Italia racconta di aver viaggiato in aerei semivuoti, mentre altri vanno su e giù letteralmente e obbligatoriamente vuoti. Pare che le compagnie aeree, per non perdere il diritto agli slot nei vari aeroporti, facciano voli di andata e ritorno senza nessuno, come me quando ogni tanto prendevo la macchina e me ne andavo a guardare il mare al tramonto. Bei tempi.
17 marzo. Ieri c’è stato il primo decesso portoghese, ma forse era già morto. Due giorni prima, il popolarissimo allenatore Jorge Jesus, che ora allena il Flamengo, dal Brasile aveva annunciato la scomparsa per Covid-19 di un suo caro amico, un vecchio massaggiatore della Estrela da Amadora.
Poi ha smentito. 48 ore dopo, la ministra ha annunciato la morte del massaggiatore già dato per morto. Un’oretta più tardi risultava positivo al Covid-19 pure Jorge Jesus. Non per alimentare teorie del complotto, ma solo per ammazzare il tempo durante la quarantena, mi è tornata alla mente quell’intervista in cui Benazir Bhutto, nel 2007, diceva: a me mi vuole uccidere lo stesso tizio che ha già ucciso Bin Laden. Una spiegazione per quella frase misteriosa fu che la Bhutto non dominava perfettamente l’inglese. Anche Jesus, i portoghesi lo sanno, domina la lingua di Camões come Sebastião Lazzaroni dominava la lingua di Dante. Licenze poetiche di uccidere e risuscitare.
18 marzo. Hanno dichiarato lo stato d’emergenza, non avveniva dai tempi della Rivoluzione dei garofani. Nel suo discorso alla nazione il Presidente della Repubblica ha chiuso su una frase che va a ripescare la consueta retorica della nazione più antica d’Europa, ma con una stoccata inqualificabile alle altre presumibilmente più giovani: «Siamo nati prima di molti altri, esisteremo ancora quando loro non saranno più ciò che erano e come erano». Nella giornata che in Italia ha registrato 475 morti, il minimo che si possa dire è che sia una cazzata con venature d’involontario sadismo. Ieri qualche giornale, dando la notizia del rinvio al 2021 dell’Europeo di calcio, ha titolato: «Il Portogallo resta campione un anno in più». Ecco, qualcuno sta prendendo troppo sul serio l’idea che questa pandemia sia un girone eliminatorio di coppa.
19 marzo. Si è diffuso anche qui il contagio degli italiani che cantano l’inno nazionale dai balconi. Molti italiani della mia bolla digitale ovviamente storcono il naso. Anch’io, confesso, per cantare l’inno di Mameli al balcone dovrei essere sotto tortura o in coma etilico. Il vaccino contro la retorica l’abbiamo fatto, e meno male. Ma se lo cantassimo noi, ‘siam pronti alla morte’, ci sarebbe da ridere. Il povero Goffredo, però, lo era e l’ha dimostrato. Quella retorica è stata uno stile di vita (e morte) di gente che si lanciava sulla baionetta nemica senza poi poter contare manco sulla penicillina. Mi dispiace che la sua canzone sia considerata repertorio parafascista o, nella migliore delle ipotesi, per vecchi parrucconi da prima Repubblica. Fu un canto della Repubblica Romana, laica, mazziniana, garibaldina e radicale. Nella famosa partita doppia di Flavio Bucci, in Maledetti vi amerò, dovrebbe stare nella colonnina delle cose di sinistra con Di Vittorio, il Portogallo e la cucina macrobiotica. Tempi duri per figli e padri della patria. E oggi è pure la festa del papà. Sicuramente la passerò in famiglia.
20 marzo. In queste settimane gli italiani, con una buona dose dell’autoironia di sempre, sono stati profeti di sventura. Ora pare che tutti si stiano allineando sulle nostre misure di contenimento. Qui, in questi giorni, sono aumentati i contatti a distanza, i messaggi d’incoraggiamento reciproco, la semplice richiesta di notizie sulle condizioni di salute di familiari e amici. L’avevo sentito dire anche in un’intervista alla tv italiana: arriva un momento in cui il virus smette di essere cinese o asiatico, portato da questo o da quello, e diventa uno di casa.