27 Marzo 2020
Dai primi casi di Coronavirus al lockdown. Tra nuove forme di sorveglianza e resilienza, alcuni palestinesi sono costretti a casa, altri lavorano in Israele
In tempi di coronavirus, è interessante osservare la risposta dei Governi di tutto il mondo all’emergenza sanitaria, anche in termini di comunicazione politica, gestione dell’ordine pubblico e delle frontiere, scelte economiche. Interessante, in questo senso, rivolgere il nostro sguardo al Medio Oriente e in particolare alla Palestina.
Un contesto anomalo anche in condizioni di normalità, in Palestina oggi si cerca di contenere la diffusione di un virus, che potrebbe mettere seriamente in crisi un sistema sanitario già precario. Questo significa sanificare strade e moschee, distribuire mascherine e disinfettanti, sensibilizzare i cittadini, ma anche introdurre misure estreme, limitare ulteriormente la libertà di movimento e le libertà individuali dei palestinesi.
L’arrivo del virus e della paura
A segnare l’inizio dell’emergenza, il 5 marzo 2020, i primi casi registrati nella città di Betlemme, dove un gruppo di turisti greci (risultati poi positivi al test al loro rientro) avevano alloggiato in un hotel della zona contagiando il personale. Immediatamente, le autorità palestinesi avevano dichiarato lo Stato d’emergenza, con la conseguente chiusura di scuole, università, moschee e chiese per un mese. Il primo ministro palestinese, Mohammad Shtayyeh, aveva subito chiesto
anche la totale chiusura della città, la quarantena per i turisti, la cancellazione di tutte le prenotazioni in alberghi e ostelli nel resto della Cisgiordania.
Il 6 marzo, con 16 casi confermati e alcune decine di persone in quarantena, Betlemme, per la verità già circondata da tre diversi checkpoint israeliani e da un muro di separazione alto otto metri, veniva sottoposta a lockdown.
Una chiusura totale che sarebbe stata poi estesa alle località di Beit Sahour e Beit Jala e il 22 marzo a tutta la Cisgiordania (un territorio di poco più di 6.000 km²). Ad oggi (dato aggiornato al 26 marzo), sono 86 i casi confermati, di cui 77 in West Bank e 9 nella Striscia di Gaza. Registrato anche il primo decesso vicino Ramallah, capitale de facto della Palestina. Ma i numeri, come sta accadendo nel resto del mondo, sono purtroppo destinati a crescere.
Nei primi giorni dell’emergenza, turisti americani ed europei si erano ritrovati chiusi nelle loro stanze d’albergo a Betlemme. Mentre qualcuno, con l’aiuto di ONG e consolati, era riuscito a raggiungere l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, nonostante il cordone militare e i controlli. Nel frattempo, ancora prima del blocco totale di tutte le attività commerciali, nel resto del Paese il virus aveva già portato con sé la paura della malattia e dello straniero.
La fuga degli stranieri
Da subito, la polizia palestinese aveva avviato una serie di controlli in ostelli e alberghi in tutto il Paese e diversi episodi di razzismo e discriminazione si erano verificati nei confronti di studenti, turisti e volontari stranieri. Alcuni di loro avevano dovuto mostrare i documenti e il visto di ingresso per dimostrare di essere arrivati molto prima dell’arrivo del virus.
Per via della situazione sanitaria e del deteriorarsi delle condizioni di sicurezza, nell’arco di pochi giorni, molti internazionali hanno lasciato la Palestina, affollando il checkpoint di Qalandia che collega Ramallah con Gerusalemme est.
Anche perché, mentre la Cisgiordania chiudeva progressivamente luoghi turistici e di culto, Israele iniziava a bloccare i passeggeri europei in entrata e le compagnie europee cancellavano i voli per e da Tel Aviv. Per molti, quindi, c’era il rischio concreto di rimanere sul territorio con un visto israeliano scaduto. E la Palestina, si sa, non ha un suo aeroporto.
Frontiere e checkpoint
Per alcuni giorni, si sono susseguite notizie confuse: informazioni in inglese ed ebraico per gli israeliani, poche informazioni per la popolazione palestinese in arabo. Confuse anche le comunicazioni per gli stranieri, relative alla reale chiusura dei checkpoint (non solo di quelli tra Israele e Palestina, ma anche di quelli tra Israele e Giordania), come sempre presidiati dai militari israeliani.
Di fatto, per molti giorni i checkpoint hanno permesso il passaggio a singhiozzo degli internazionali che dovevano raggiungere l’aeroporto, anche durante la festività ebraica Purim. Nonostante le notizie discordanti delle diverse ambasciate, ad esempio riguardo all’apertura del checkpoint Rantis, il 10 marzo il passaggio è stato possibile in pochi minuti a bordo di un taxi israeliano, senza alcun controllo né del passaporto, né tantomeno della temperatura corporea (così come per l’ingresso in aeroporto, in quei giorni non era applicato nessun protocollo sanitario particolare).
Quarantena, non per la manodopera palestinese
Da qualche giorno, anche in Palestina è stato imposto un lockdown, che a molti ricorda i tempi bui della seconda Intifada. I negozi e le attività sono chiuse, ad eccezione di supermercati e farmacie. I mercati si sono svuotati. Gli spostamenti sono possibili solo in caso di reale necessità. I checkpoint sono chiusi se non per gravi motivi di salute e per consentire le partenze degli ultimi stranieri rimasti.
Eppure, le autorità israeliane non hanno limitato da subito l’ingresso in Israele ai tanti lavoratori palestinesi, impegnati ogni giorno nei cantieri e in agricoltura ed esposti al contagio senza protezioni. A questi lavoratori, costretti a scegliere tra salute e lavoro, il Governo palestinese ha chiesto di rimanere a casa o in alternativa di trovare una sistemazione in Israele anziché tornare in Cisgiordania alla fine della giornata (come accade di solito), così da limitare gli spostamenti e ulteriori contagi.
Una politica israeliana, non solo al tempo del coronavirus, fatta di muri e frontiere, che considera i cittadini palestinesi un pericolo e una minaccia per la sicurezza nazionale, ma allo stesso tempo utile manodopera a basso costo. Almeno finché non si ammalano. È infatti del 24 marzo la notizia che due manovali palestinesi, sospettati di avere il coronavirus, sono stati espulsi da Israele e abbandonati ai posti di blocco con la Cisgiordania.
Un giovane è stato lasciato dalla polizia al check point di Beit Sira (per poi risultare negativo al test), mentre un altro caso ha riguardato la località di Haris. Episodi che il portavoce del Governo palestinese, Ibrahim Milhem, ha definito “razzisti e disumani”.
Sorveglianza elettronica
Una realtà fatta di tante contraddizioni, dove l’emergenza sanitaria diventa per Israele un’opportunità per mettere a punto anche nuovi sistemi di controllo. Nel tentativo di contenere la diffusione del virus, da una parte, in queste settimane le autorità palestinesi e israeliane sembrano collaborare.
Basti pensare alla distribuzione di kit per i tamponi e di dispositivi di protezione individuale per medici e infermieri e alla formazione del personale palestinese sotto il coordinamento del COGAT (Coordination of Government Activities in the Territories).
Dall’altra, i servizi di sicurezza israeliani stanno utilizzando un nuovo strumento di sorveglianza elettronica di massa, per monitorare i movimenti di tutte le persone risultate positive al COVID- 19, israeliani e palestinesi, e la loro rete di contatti. Un sistema, il cui uso è stato introdotto per decreto senza passare per la Knesset (Parlamento israeliano), che oggi in Israele fa discutere perché violerebbe la privacy dei cittadini. Ma in realtà sistemi simili vengono utilizzati già da alcuni anni in Cisgiordania per tracciare gli spostamenti dei palestinesi, indipendentemente dal coronavirus.
Resilienza ai tempi del coronavirus
Tra le altre anomalie, nonostante il divieto di lasciare le proprie abitazioni e anzi approfittando del lockdown, in questi giorni prosegue l’annessione indisturbata di terre palestinesi da parte dei coloni nel governatorato di Betlemme, come riportano diverse agenzie di stampa.
E il virus non ferma neanche gli scontri tra palestinesi e forze israeliane nella località di Tulkarem, nel nord della Cisgiordania vicino al muro di separazione. Ai palestinesi, da qualche giorno in quarantena e da anni sotto occupazione, non rimane che mostrare ancora una volta la loro resilienza.
Ne è un esempio Amjad Zaghir, proprietario di una fabbrica di scarpe nella città di Hebron, in Area C sotto il controllo militare israeliano. Amjad, che come molti aveva dovuto chiudere la sua azienda, nell’emergenza si è reinventato produttore di mascherine, utilizzando materiali importati dalla Turchia e una macchina per piegare e stirare il tessuto. Ora la sua preoccupazione è che possa finire la materia prima e che non ci sia modo di importarne altra, dato che la maggior parte delle frontiere sono state chiuse. Come del resto in Palestina accade spesso, non solo in tempi di coronavirus.