Convinti, quando le cose vanno bene e quando le cose vanno male, che ciascuno deve fare il suo lavoro, ci troviamo come redazione di fronte a un evento globale, che concorre a mettere a nudo quelle paure che saranno l’argomento del terzo numero del nostro semestrale cartaceo.
Partendo dal testo di Angelo Miotto, abbiamo deciso – nostra vecchia passione – di lanciare un Decameron online, nella vecchia tradizione, di fronte alle paure, di riunirsi attorno al fuoco (della passione narrativa) e di raccontarsi storie.
Mandateci il vostro racconto di questi giorni di Corona virus, tra allarmismi, improvvisati esperti, legittime paure e doverose cautele. Va bene, al solito, qualsiasi linguaggio: audio, testo, video, foto. Inedito o citando altri. Scrivete a redazione@qcodemag.it e noi vi pubblicheremo.
Il contagio delle storie – 30
Traiettorie (di)Sperate – Tommaso Santagostino
In queste settimane mi colpiscono le traiettorie. Passi corpi sguardi. Mi affaccio dalla finestra della veranda, chiusa abusivamente dalla notte dei tempi e che ora si è trasformata nella mia stanza principale. Pc, libri (in questi giorni molto Ivan Illich), fogli, pennarelli, gatti, sono tutti presenti sopra il lungo tavolo che ho spostato dalla sala. Da qui posso prendere il sole e così seguirne le traiettorie. Qui il sole illumina l’intera mattina e poi se ne va dall’altra parte dove c’è la stanza da letto, solo che a quel punto del sole non mi interessa più, perchè la stanza da letto è frequentazione quasi esclusivamente notturna.
La veranda dà sul cortile interno. Tocca dirlo? Case popolari, Milano, San Siro. Ma sì diciamolo, che la geolocalizzazione pare sia un toccasana. Poco fa mi sono affacciato sollecitato dall’araldo dell’apriporta automatico, messaggero di segnali di vita che sgattaiolano fuori.
È il signore argentino che abita al piano terra. So da pochissimo che è argentino, l’ho incontrato un paio di mesi fa alla fermata della Novanta e abbiamo chiacchierato. Di solito incrociandoci ci salutiamo amichevolmente e nulla più, invece in quell’occasione ci siamo soffermati, aspettava la Novanta per andare ad un appuntamento con una donna. Speriamo mi aveva detto.
Eccolo irrompere sul cortile, in queste ultime settimane non lo avevo ancora visto, quali saranno le sue traiettorie? Lo scruto dall’alto mentre avanza sul passerella di cemento. Si potrebbe affermare a buon diritto che cammina al rallentatore, che sia il passo trascinato della quarantena? Non è così, da quando lo conosco avanza in modo lento ma senza indugi. Mentre il suo campo visivo si apre nel mezzo del cortile qualcosa di lui attira il mio sguardo. Fa esattamente quello che faccio io tutte le volte che esco in queste settimane e il mio campo visivo si apre a ciò che mi circonda: rallento, alzo la testa e cerco segnali di vita dalle finestre e dalle verande abusive. So che le persone sono a casa e questo crea in me aspettative clamorose. Insomma, alzando la testa ci sarà qualcosa da sbirciare o qualcuno da incontrare, compiacere o sfidare, perché no?
La traiettoria dello sguardo, il mio, si proietta sulla sua senza incrociarlo, a distanza, da quassù. Chissà. Del resto anche le movenze dei passi e dei corpi sono curiose di questi tempi. Volto la testa e ci sono due signore anziane che percorrono il cortile come se fosse un chiostro, percorsi simmetrici e circolari, movenze degne di pratiche monastiche.
Sono attratto dalle linee immaginarie che tracciano e anche dalla loro presenza. Del resto anche io esco, spesso, mica passo la vita in veranda e quindi posso immedesimarmi in loro, ne ho facoltà.
E poi vivo con un cane, quindi sono ben tutelato a uscire e quando lo faccio percepisco che le mie traiettorie sono in sintonia con quelle delle altre persone. C’è chi non ha interrotto la propria attività lavorativa e chi ha comunque un obiettivo specifico, ma il sottaciuto filo che ci unisce è che nessuno possiede una chiara e netta destinazione. Almeno, non come prima. Come prima. Il nostro muoverci non è più finalisticamente direzionato, non è importante dove andiamo, lo è molto di più perché e soprattutto come ci spostiamo.
Personalmente mi piace camminare in mezzo alla strada tracciando linee a zigzag, ammetto che si tratta di un piccolo sogno che si realizza in questi strani giorni. A tarda sera, in un siffatto divagare ho incontrato nel giro di mezz’ora la stessa persona in tre punti diversi. Una giovane che parlava inglese al telefono, con gli auricolari. Al primo incontro ho pensato che stesse tornando dal lavoro. Al secondo ho intuito stesse allungando il percorso per guadagnare un poco di tempo all’aria aperta. Al terzo, passo deciso come una marcetta, ho compreso che stava percorrendo un circuito ben calibrato. L’ho immaginata, munita di compasso infilzato sulla proiezione del suo palazzo sulla mappa, tracciare una circonferenza con raggio di 200 metri e costruire il suo progetto di ferrovia pedonale da fare e rifare.
Le mie traiettorie invece sono condizionate dall’ipotesi di incontrare sul mio cammino le luci blu delle forze dell’ordine e quindi il mio sguardo scruta molto attento verso la linea dell’orizzonte, ‘uno sguardo vigile per evitare il vigile’ si direbbe.
Ammetto di non aver preso la briga di tirare il cerchio con il compasso. Non ne ho voglia, ho solo voglia di incrociare lucidamente passi corpi sguardi, e magari di sorprendermi. Allo stesso tempo mi rendo conto di limitarmi a osservare e incontrare quei passi corpi sguardi, nulla di più. Certo potrei parlare con loro, anche solo un cenno, ma preferisco di no.
Preferisco di gran lunga aspettare, una cosa alla volta. Non è il tempo, ora stiamo lentamente conoscendo le arti del camminare e del direzionare lo sguardo. Poi si vedrà, dipenderà dalle traiettorie. Dove queste ci condurranno è speranza, proprio come diceva Illich, fiduciosa disposizione ad essere sorpresi dall’altro. La speranza di una sorpresa, appunto.