Fuga (d)a Bologna – 32

di

13 Aprile 2020

Il contagio delle storie – 32

Convinti, quando le cose vanno bene e quando le cose vanno male, che ciascuno deve fare il suo lavoro, ci troviamo come redazione di fronte a un evento globale, che concorre a mettere a nudo quelle paure che saranno l’argomento del terzo numero del nostro semestrale cartaceo.

Partendo dal testo di Angelo Miotto, abbiamo deciso – nostra vecchia passione – di lanciare un Decameron online, nella vecchia tradizione, di fronte alle paure, di riunirsi attorno al fuoco (della passione narrativa) e di raccontarsi storie.

Mandateci il vostro racconto di questi giorni di Corona virus, tra allarmismi, improvvisati esperti, legittime paure e doverose cautele. Va bene, al solito, qualsiasi linguaggio: audio, testo, video, foto. Inedito o citando altri. Scrivete a redazione@qcodemag.it e noi vi pubblicheremo.

Il contagio delle storie – 32

Fuga (d)a Bologna – Alice Facchini

Per vedere Bologna così, ci voleva una pandemia. Il progresso, così come viene chiamato, si poteva fermare solo in questo modo. Non sarebbe bastato un crash economico, una crisi climatica, e neanche una guerra, perché tanto le guerre oggi sono lontane.

Per tre settimane sono stata chiusa in casa e non mi è mai passata di mente l’idea di andare a vedere, con i miei occhi. È vietato. E questo divieto mi è entrato dentro.

Ma due giorni fa un collega mi ha detto che noi per lavoro possiamo uscire, basta mostrare il tesserino e spiegare che è per esigenze di cronaca. Bum. Ecco che Bologna, che fino a pochi secondi prima mi sembrava lontanissima, improvvisamente mi è parsa a portata di mano.

Vicinissima, bastava allungare la mano e toccarla. La volevo a tutti i costi: questa vicinanza rendeva il nostro distacco insopportabile.

Così ho indossato la mascherina, ho slegato la bicicletta e sono partita. La prima meta era il ponte di Galliera, il ponte sopra la stazione: il posto che mi manca di più. I binari. I treni. L’idea di quelle infinite possibilità, di andarsene lontano, di libertà assoluta. Ci sono arrivata. Tutto fermo, stazione deserta. Solo un piccolo regionale a colorare il grigio dei binari.

Eppure la ferrovia ancora esiste, quell’insieme di ferraglia ancora corre fino a Roma, Napoli, Milano, Torino, e poi più lontano, Berlino, Parigi, Madrid, e chissà dove. Posti che fino a un mese fa mi sembravano dietro l’angolo, e che ora sembrano lontanissimi. Di nuovo, lontananza, vicinanza.

Il coronavirus ha amplificato le distanze. Il mondo sembra molto più grande adesso.

Dal ponte, guardo oltre: lì, superati i viali, una volta c’era Bologna. C’è ancora? Una città che conosco da 30 anni, da quando sono nata. La mia città. Come sarà adesso Bologna? La domanda si ripete nella testa, diventa pressante. Salgo di nuovo sulla bici e attraverso il ponte.

Via Indipendenza. La via dello shopping. È sabato pomeriggio e tutto è deserto: irriconoscibile.
I negozi chiusi, nessuno per strada, pochissimi autobus, due taxi, qualche macchina. “Allora è vero”, penso. È vero quello che ci hanno raccontato, è vera la pandemia, è vera la crisi. È tutto vero.

Prima ci credevo, certo, ma non l’avevo sperimentato. Non l’avevo sentito sulla mia pelle.
A vedere le immagini alla televisione o su internet, quei luoghi così tanto conosciuti avevano perso la loro dose di realtà. E invece è tutto vero, reale. E improvvisamente, quell’aura lucente e sfavillante che da qualche anno ricopriva il centro di Bologna era sparita. Sparite le catene di
abbigliamento, spariti i costosissimi food markets, sparito il tourist bus. Tutto era sparito, lasciando spazio alla realtà. Bologna oggi è vera più che mai, vera e vicina.

Chi abita le sue strade sono coloro che vivono nel “fuori”, perché non possono permettersi di
rimanere al riparo nel “dentro”, ognuno per i suoi motivi. Ho visto tanti fattorini in bicicletta.
Qualcuno che chiede l’elemosina.

Qualche gruppetto di migranti. Qualche passante con le buste della spesa. E poi i vigili, i poliziotti e i militari. Tanti. Bologna, oggi, sembra più pericolosa di sempre.

Mi fermo in piazza Maggiore. Uno scenario devastante: nessuno. La contemplo in quella stasi fotografica: chissà se la rivedrò mai così. E improvvisamente mi sento una donna degli anni ‘40, con il fazzoletto in testa e la miseria tra i denti, una donna che osserva la sua città colpita dalla guerra e si chiede: “Chissà se la rivedrò mai così”. Eppure non lo so, come si sentivano le donne negli anni ’40, mentre guardavano la loro Bologna.

Improvvisamente inizio a sentirmi spossata: voglio tornare a casa. Voglio riattraversare il ponte e tornare nel mio luogo sicuro, e voglio farlo più in fretta possibile. Ho già avuto troppi input, anche in una città che gli input li ha persi, e la stanchezza mi ha appesantito le ossa. Bici, riportami a casa.

E, mentre pedalo nelle strade deserte, penso a mia nonna. Mia nonna, che è sempre chiusa in casa, malata, sola. Una condizione che accomuna quasi tutti gli anziani: stanno in casa, hanno qualche malattia e sono incredibilmente soli. Rifletto: con questa pandemia, improvvisamente, siamo diventati tutti anziani. Sì, perché siamo tutti chiusi in casa, tutti spaventati dal mondo esterno, minacciati dalla malattia, e tutti irrimediabilmente isolati, a contatto con la nostra solitudine.

Come un’anziana, guardo la mia città e le dico “arrivederci”, chiedendomi quando la rivedrò di nuovo. Come un’anziana, mi sento eccitata, piena di carica e di felicità, per aver fatto una passeggiata di un’oretta. E come un’anziana mi stanco velocemente, e ho bisogno di tornare a casa. Grazie a questa pandemia sto sperimentando la vecchiaia. A 30 anni.