Nel 2012, lo stato dell’Ecuador diede il via al processo che prevedeva la messa all’asta di 16 lotti di terra per l’estrazione delle risorse naturali. Uno di questi è il bloque 22, appellativo datogli dal governo e considerato avvilente dagli Waorani, che rifiutano di vedere l’area da loro abitata sminuita a un lotto di terra da spolpare.
Il bloque 22, corrisponde a 200mila dei 3 milioni di ettari messi all’asta in totale (più dell’estensione della Sicilia). Gli Waorani hanno unito le loro forze e hanno portato in tribunale il governo ecuadoregno.
L’accusa è quella di non aver condotto il processo di consultazione secondo le norme che la costituzione e i trattati internazionali prevedono prima di poter procedere all’attuazione di progetti sui territori abitati da popoli indigeni.
Gli Waorani hanno giocato sul campo di battaglia dello stato, usando le sue istituzioni e le sue leggi per riaffermare i loro diritti sulla terra, diritti ben più antichi delle stesse istituzioni e leggi di cui si sono serviti per reimporli.
E hanno vinto. Infatti, l’11 luglio 2019 il tribunale di Pastaza ha confermato in appello che le consultazioni della popolazione indigena non sono state svolte in maniera trasparente da parte delle autorità competenti.
La corte ha sentenziato che non sono stati rispettati né il diritto a una consultazione preliminare, libera e informata né il diritto all’autodeterminazione dei popoli, come invece Costituzione e trattati internazionali impongono. Un evento accolto con grandissimo entusiasmo dagli Waorani e da tutte le popolazioni indigene dell’Ecuador. La vittoria ha smascherato platealmente le violazioni che lo stato ha intenzionalmente commesso per perseguire i propri interessi speculativi e ha impedito così che questi interessi potessero mettere a rischio l’integrità della terra e dei popoli che la abitano.
La sentenza è stata possibile perché si inserisce in un contesto locale e internazionale in mutamento. Come per molte altre questioni, la fine della Seconda guerra mondiale e la concomitante nascita di una comunità internazionale ha portato a una consapevolezza diversa e più profonda dell’esistenza umana.
Nei decenni a seguire, si sono moltiplicati i documenti volti a tutelare i popoli della Terra e i suoi individui. Di ciò ne hanno beneficiato anche le società indigene, la cui identità è costantemente minacciata dall’avanzata dell’egemonica cultura occidentale.
Un primo passo avvenne nel 1957 con la Convenzione ILO 107, poi sostituita nel 1989 dalla convenzione ILO 169. Ad oggi rappresenta il documento più importante nella difesa delle popolazioni indigene e sancisce, fra gli altri, il loro diritto all’autonomia e il diritto alla consultazione e partecipazione sulle questioni che li riguardano.
Per gli stati firmatari la convenzione ha valore di legge ed è perciò vincolante. A seguire, sono degne di nota anche la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui popoli indigeni del 2007 e la Dichiarazione americana sui diritti dei popoli indigeni del 2016. Una catena di documenti che, sospingendo un progressivo cambio di mentalità e creando un contesto normativo a difesa dei popoli indigeni, ha permesso oggi di arrivare alla vittoria degli Waorani.
Se poi rivolgiamo lo sguardo entro i confini dell’Ecuador, scopriamo che un altro importante anello di questa catena è la nuova costituzione del paese. Adottata nel 2008, segna la vera e propria svolta perché, oltre a sancire i diritti dei popoli indigeni, introduce importanti disposizioni volte a tutelare la natura e perciò, indirettamente, l’esistenza degli indios.
La costituzione ecuadoriana è infatti la prima costituzione al mondo a istituire i Diritti della natura e ad introdurre il principio del buen vivir. Il concetto del buen vivir, dal forte valore filosofico, rimanda alla cultura indigena, secondo cui l’esistenza debba essere organizzata in profonda armonia con la collettività e la natura.
Con il capitolo VII “Diritti della natura”, la costituzione fa sì che da mero oggetto la natura diventi soggetto titolare di diritti, acquisisce una sua cittadinanza, obbligando l’uomo a beneficiarne in accordo al buen vivir.
Si passa perciò da una visione antropocentrica, che vede la natura come proprietà dell’uomo, a una visione ecocentrica, in cui la natura non riceve la dignità ma la detiene di per sé.
Con questi due elementi lo stato dell’Ecuador ha incluso nella sua colonna vertebrale, la costituzione, valori che affondano le radici nella cultura indigena e pongono in essere le fondamenta per il potenziale sviluppo della società secondo criteri contrari a quelli tradizionalmente peculiari dei paesi industrializzati.
Nonostante tutto questo, la catena che imprigiona i popoli indigeni rimane, ad oggi, più forte di quella che li protegge. Come mi spiega Alberto Acosta, ex Presidente dell’Assemblea costituente ed ex Ministro dell’Energia e delle Miniere, è certamente vero che “i diritti della Natura, la tesi del Buon Vivere, il rispetto del bene comune sono tra gli aspetti degni di nota nella costituzione ecuadoriana” tuttavia “non sono stati rispettati né dal governo di Correa né da quello di Moreno [entrambi governi di stampo progressista ndr].”
Contrariamente a quanto si possa credere “nell’ambito dell’estrattivismo e delle loro terribili conseguenze, i governi neoliberisti e i governi “progressisti” non mostrano differenze sostanziali. Sono pressoché la stessa cosa”. Sebbene quindi le fondamenta giuridiche per un cambio di direzione nella difesa dei popoli indigeni e della loro terra si siano fatte ben salde, manca nella quotidianità politica una decisa volontà di attuazione di tale cambio di direzione, creando un ipocrita controsenso tra la teoria e la pratica. Basti considerare che quanto è accaduto per il processo di consultazione degli Waorani non è un’eccezione, ma è una “illegalità presente in quasi tutte le consultazioni fatte per progetti minerari e petroliferi”, spiega Acosta.
il vero problema è quindi il “DNA-estrattivista” della società ecuadoriana, cioè una mentalità permeata sull’erronea convinzione che solo attraverso attività estrattive sia possibile garantire il benessere economico.
Acosta si dice consapevole che non è possibile procedere a una chiusura istantanea delle attività estrattive, la soluzione sta nello sviluppare gradualmente un’economia alternativa basata sull’esportazioni di beni finiti, così da poter nel lungo termine non appoggiarsi su estrazioni di risorse naturali che causano devastazione ambientale. A questo aggiunge la necessità di smettere di vedere la crescita economica come un fine. La crescita economica deve essere uno strumento e può esserlo finché non è causa di danno per interessi più grandi, quali il rispetto dei diritti civili e dei diritti della natura.
Sebbene quindi gli strumenti giuridici esistano e una coscienza ambientalista si stia facendo largo, il futuro degli indios e della foresta rimane impregnato di incertezza, per via di una mentalità predominante difficile da sostituire. Ma è proprio per questo che la vittoria degli Waorani è rilevante. Non è una vittoria definitiva, non segna la fine delle lotte dei popoli indigeni in Ecuador, ma è una sberla allo stato. Una sberla che si fa sentire, perché rimarca i traguardi raggiunti e ricorda alle istituzioni qual è il trattamento che spetta di diritto alla loro gente e alla loro terra.
Inoltre, la sentenza costituisce un importante precedente che potrebbe aiutare altri popoli che versano in situazioni simili.
A questo si aggiunge che la decisione della corte, stabilendo che le consultazioni hanno violato il principio di autodeterminazione, accresce il potere decisionale delle popolazioni indigene, o almeno offre loro una base legale più sostanziosa.
Infatti, legare assieme le consultazioni con il principio di autodeterminazione, significa riconoscere il loro diritto a decidere sulla propria terra, superando potenzialmente i limiti costituzionali che garantiscono loro solo il diritto ad essere consultati.
Perciò, nonostante tutto, la loro vittoria dà speranza. Una speranza che sorvola il continente e li unisce in slancio comune a molti altri popoli che lottano quotidianamente per la sopravvivenza della propria identità e della foresta.
Perché, come è ovvio, la battaglia non si limita ai confini ecuadoriani. Ciascuno dei successi ottenuti in Ecuador, per quanto desiderabile, è labile se, a livello continentale, non è sostenuto da un progetto comune a difesa dei popoli e della foresta amazzonica. Sollevo la questione ad Acosta che si dice d’accordo.
Anche a suo avviso questa sarebbe certamente la via più auspicale e, oltretutto, non sarebbe impossibile da percorrere. Però il cammino si presenta tortuoso, infatti Acosta rimarca che “quando si sarebbe potuto andare avanti dando impulso a grandi trasformazioni negli anni dei molti governi “progressisti”, tranne in Colombia e in Perù, non è stata intrapresa nessuna azione comune per una grande trasformazione.”
Persino in una situazione dai presupposti favorevoli non si sono ottenuti i risultati sperati e, anzi, anche “con i governi “progressisti” – come succede con i governi neoliberali ovviamente – si è fatto un passo verso la modernizzazione del capitalismo, l’ampliamento delle estrazioni con, conseguentemente, una maggiore distruzione della natura.”
E oggi la possibilità di assistere a un piano collettivo nella regione si fa ancora più tortuoso, se si considera che il paese che contiene la porzione maggiore di foresta amazzonica, circa il 60%, è il Brasile di Bolsonaro.
Da quando è entrato in carica a gennaio 2019 ha iniziato a minare le istituzioni che hanno il compito di tutelare i popoli indigeni. Il FUNAI, l’organizzazione governativa per la tutela degli indigeni e delle loro terre, ha visto ridursi le competenze nonché i fondi, così come ha visto un taglio ai propri fondi l’IBAMA (Istituto brasiliano dell’ambiente e delle risorse naturali rinnovabili).
Di conseguenza è diminuita la capacità di far rispettare le leggi e di combattere gli incendi, molti dei quali dolosi, appiccati per deforestare le terre e utilizzarle per l’agricoltura. Da molte parti sono arrivate accuse a Bolsonaro per la sua retorica antiambientalista e anti-ONG, che avrebbe contribuito a conferire una sensazione di impunità ai taglialegna illegali che fra incendi e attacchi alle comunità indigene ne minacciano la sopravvivenza. Sono state proprio le sue affermazioni e politiche in merito a queste tematiche ad aver caricato le sue spalle di una pressione mediatica e politica internazionale pesantissima.
Il 24 settembre del 2019, nel suo discorso alle Nazioni Unite, il presidente brasiliano ha quindi colto l’occasione per smarcarsi da numerose accuse che gli vengono rivolte, dedicando una significativa parte del proprio intervento alla questione indigeni e tutela ambientale. Ha assicurato che il paese si impegna al massimo delle sue potenzialità per la salvaguardia della natura.
Lo proverebbe il fatto che solo una parte minima del territorio è dedicata all’agricoltura, mentre gran parte di esso resta intatto e incontaminato. Ha poi accusato i media di mistificare la realtà e i governi esteri di interessarsi alla questione per minacciare la sovranità brasiliana e poter in questo modo far prevalere i propri interessi nella regione. Per rafforzare la sua immagine di difensore degli indigeni e dell’ambiente, Bolsonaro si è presentato alle Nazioni Unite con Ysani Kalapalo, affermando che Ysani, presente nelle vesti di portavoce, gode del “sostegno totale e incondizionato” di numerosi indios appartenenti a diversi gruppi etnici.
In risposta, numerosi popoli indigeni si stanno organizzando per fronteggiare insieme le politiche di Bolsonaro.
Dal 14 al 18 gennaio di quest’anno, il villaggio Piaracu, situato nel cuore del Mato Grosso e lambito dal fiume Xingu, ha accolto 600 rappresentanti indigeni di 45 popoli differenti, riunitisi straordinariamente sotto la guida dallo storico leader Raoni, che decenni di battaglie per l’amazzonia hanno reso il simbolo della lotta, tanto da essere stato candidato quest’anno al Nobel per la pace.
Dall’incontro è stato stilato un documento in cui i 600 partecipanti respingono le argomentazioni che Bolsonaro ha portato a difesa delle sue politiche davanti alle Nazioni Unite.
Nel documento, denominato Manifesto di Picarau, viene dichiarata la decisa volontà di unire le forze e combattere finché “l’ultimo indigeno è in piedi”.
Nel testo chiariscono che non riconoscono il ruolo di portavoce a nessun indigeno che sia stato scelto in maniera deliberata dal governo senza previa consultazione della comunità indigena. Alle accuse che la terra concessagli sia troppa estesa, rispondono ricordando che loro abitavano quelle terre ben prima che esistesse lo stato del Brasile.
Denunciano poi la retorica del governo per aver fomentato l’odio e aver portato ad atti di violenza verso la loro gente e all’omicidio dei loro leader. Dal manifesto emerge chiaramente lo spirito di una comunità che non è disposta ad arrendersi per nessuna ragione. Si dicono consapevoli che il 2020 sarà per loro un anno di grandi battaglie e invitano a prendervi parte tutti i popoli indigeni del Brasile e al di fuori del paese.
L’ultima mossa significativa su questa questione risale a febbraio, quando Bolsonaro ha presentato al congresso la proposta di legge 191. Il progetto prevede l’apertura delle terre indigene alle attività di estrazione di gas, petrolio e alla costruzione di centrali idroelettriche.
L’organizzazione Human Rights Watch denuncia che le conseguenze, se la proposta venisse approvata, sarebbero disastrose. Lo sfruttamento delle risorse naturali e la realizzazione delle infrastrutture annesse causerebbero importanti danni ambientali, come deforestazione e inquinamento delle acque dei fiumi, con significative ripercussioni per la sopravvivenza di molti popoli indigeni.
Finché la logica della crescita economica incontrollata prevarrà e l’uomo si sentirà padrone della natura, sembrerà legittimo sfruttarne le risorse per garantire il nostro benessere immediato.
Non esistono soluzioni facili e di certo, data la struttura economica della nostra società, gli interessi economici non possono non essere tenuti di conto, perché ne va della vita e del sostentamento di milioni di persone.
Ma di certo si deve cambiare, progressivamente, continuando in un percorso che metta avanti i diritti di tutti, compresi quelli della natura, e lavorare per creare un’economia alternativa e più rispettosa. Difficile a dirsi se la vittoria che gli Waorani hanno ottenuto contro lo stato in Ecuador riuscirà a replicarsi in Brasile. Ciò che sembra essere certo sono i danni che certe politiche hanno causato e causeranno, le amare parole che Acosta mi rivolge sono intrise di questa convinzione:
“Le attività estrattive, in particolare quelle petrolifere finora, hanno devastato i territori, hanno annientato i popoli indigeni, hanno schiacciato i diritti, hanno soggiogato comunità, sia nel corpo che nello spirito. Le vite delle popolazioni indigene sono in pericolo permanente, perché in Ecuador, come in tutta l’America Latina, continuiamo a soffrire gli effetti della lunga notte coloniale.”
L’attenzione si è spenta da quando il corona virus ha fermato le lancette del tempo. Comprensibile. Ma quando le lancette torneranno a scorrere, non lasciamo che la battaglia che i popoli indigeni stanno instancabilmente combattendo sia solo un grido strozzato ed inascoltato. Tutelare i popoli indigeni significa tutelare la foresta, significa proteggere il pianeta, significa salvaguardare l’umanità nella sua variopinta identità e bellezza.