Emergenza sanitaria, settore agricolo e tutela ambientale

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22 Aprile 2020

Il Covid-19 potrà essere un fattore determinante per la tutela del Pianeta ripensando anche all’attuale settore agricolo

Il 22 aprile 2020 nel mondo si celebra il 50° anniversario della Giornata della Terra. Quest’anno, la celebrazione non sarà annullata, ma avverrà online a causa dell’attuale crisi sanitaria causata dal Covid-19.

Essendo costretti a ripensare tutti i sistemi che regolano la nostra vita, dall’assistenza sanitaria all’economia, dovremmo usare questo tempo per riflettere sui numerosi sistemi sbagliati che stanno danneggiando le condizioni della Terra e quindi tutti gli esseri viventi.

Questo è esattamente ciò che fece l’ex senatore del Wisconsin Gaylord Nelson, quando istituì la Giornata della Terra. Nelson si rese conto di quanto potenti fossero stati i dibattiti sulla guerra contro il Vietnam nelle università degli Stati Uniti e pensò potesse essere utile dedicare una giornata nazionale a dibattiti e riflessioni sulla protezione del clima.

L’iniziativa ebbe un enorme successo: gli Stati Uniti passarono dal non avere alcuna legge a tutela dell’ambiente alla creazione della US Environmental Protection Agency (EPA) e vararono oltre una dozzina di leggi a protezione dell’ambiente, tra cui: Clean Air Act, Water Quality Improvement Act e le modifiche della legge sull’inquinamento e il controllo delle acque.

A partire dagli anni ’90, dopo il successo nazionale avuto negli Stati Uniti, la Giornata della Terra ha cominciato ad essere celebrata in tutto il mondo (Consiglio, Adirondacks).

Sarebbe opportuno sfruttare l’attuale momento di emergenza sanitaria provocata dal Covid-19 per ripensare i sistemi che stanno danneggiando l’ambiente, come il “moderno” sistema agricolo industriale.

Il Covid-19 ha messo in evidenza come l’allevamento e le monocolture intensive modifichino l’ecosistema, e favoriscano lo sviluppo di malattie infettive dagli effetti devastanti.

Il Covid-19 non è un incidente isolato e altre pandemie potrebbero verificarsi. L’aumento della presenza di virus è infatti legato alla produzione alimentare su scala globale. Per capire le cause della diffusione di virus sempre più pericolosi bisogna analizzare l’attuale modello industriale dell’agricoltura e, in particolare, della zootecnia.

Le origini del cambiamento climatico: non la Rivoluzione Industriale ma il colonialismo

A chi è cresciuto in un paese occidentale è stato probabilmente insegnato che la crisi climatica è stata causata dalla Rivoluzione Industriale. Come spiega la studiosa eco femminista Greta Gaard, l’inizio di questa rivoluzione viene collocato tra il 1760 e il 1840, periodo in cui le emissioni di gas serra (GHG) raggiunsero il picco (in particolare diossido di carbonio, CO2, emissioni) a causa dell’aumento della combustione di carbone, gas, e petrolio utilizzati per produrre energia, alimentare i mezzi di trasporto e i macchinari (Gaard, 23). In verità la crisi climatica è iniziata molto prima, in quanto risale ai tempi coloniali.

Con ciò, mi riferisco alla colonizzazione delle Americhe da parte degli europei, iniziata già nel X secolo. In questo contesto, i geografi Simon L. Lewis e Mark A. Maslin furono i primi studiosi a far coincidere il “golden spike” del cambiamento climatico con l’anno 1610. Ma perché precisamente quell’anno?

Ci sono due ragioni principali. Innanzitutto, “la quantità di piante e animali che furono scambiati tra l’Europa e le Americhe durante questo periodo trasformò drasticamente gli ecosistemi di entrambe queste terre” (Davis et al, 766). Il secondo motivo è più raccapricciante.

Il 1610 segna un calo significativo dei livelli di anidride carbonica, a causa dell’inizio del genocidio delle popolazioni indigene delle Americhe e della successiva ricrescita di foreste e altra vegetazione.

In effetti, nel 1492 c’erano tra i 54 e i 61 milioni di persone nelle Americhe mentre nel 1650 la popolazione era scesa a soli 6 milioni, secondo Lewis e Maslin (Davis et al, 766). In termini tecnici, questo fenomeno è noto anche come Orbis Global Stratigraphic Section and Points (GSSP), come mostrato nella Figura 1.

Inoltre, con il loro sterminio, le popolazioni indigene persero anche i vasti territori dai quali avevano tratto da vivere in modo sostenibile per generazioni, modificando la biodiversità degli ecosistemi di quelle terre.

Questa è stata una tragica sequenza di eventi che trova riscontro nei drastici cambiamenti dello strato geologico della biomassa accumulata sia nelle Americhe che in Europa.

Figura 1. Credits: Science News on Findit.com

Per questo motivo, il 1610 è anche noto come l’inizio dell’ “Antropocene”, una nuova era geologica che mostra l’impatto devastante dell’uomo sull’ambiente, che si perpetua oggi attraverso il capitalismo.

In effetti, i “colonizzatori di ieri” sono le industrie estrattive di oggi, che continuano ad allontanare dalle loro terre i piccoli agricoltori e le popolazioni indigene per motivi di profitto, privandoli delle loro risorse e così modificando l’equilibrio della Terra.

Come descrivono gli studiosi Heather Davis e Zoe Todd, “l’antropocene è l’epoca in cui l’”umanità” – ma più precisamente le società petrolchimiche, gli investitori nel settore e tutti coloro che traggono profitto dal petrocapitalismo e dal colonialismo – ha avuto un impatto così grande sul pianeta che ora negli strati geologici sono visibili radionuclidi, carbone, plutonio, plastica, cemento, prove di genocidi e altre evidenze” (Davis et al, 765).

Quindi, anche se la Rivoluzione Industriale è stata sicuramente un momento di riferimento in termini di emissioni di CO2, l’antroprocene è stata la vera causa dell’inquinamento sistematico di aria, acqua, terra, nonché delle nostre menti e dei nostri corpi.

Come sostengono gli studiosi, “l’attuale crisi ambientale, iniziata con l’Antropocene, può essere vista come una continuazione delle epoche precedenti che hanno preso avvio con il colonialismo e si estendono attraverso il capitalismo avanzato” (Davis et al, 771).

Colonialismo e capitalismo legati all’agricoltura “moderna”: la “rivoluzione verde”

In che modo i colonizzatori occidentali e i capitalisti di oggi hanno perpetuato la distruzione delle popolazioni umane, animali e vegetali dal 1610 ad oggi? Uno dei modi è stato il passaggio dalle coltivazioni ecocompatibili degli indigeni, quali ad esempio la policoltura, al sistema monocolturale che oggi costituisce la maggior parte della “moderna” agricoltura industriale. I sistemi di policoltura di solito si basano sulla raccolta di uno o più prodotti sulla stessa terra (Figura 2).

Per monocoltura o mono ritaglio invece, si intende la produzione di un singolo prodotto su tutto il territorio.

Quest’ultimo metodo ha dimostrato di causare effetti dannosi non solo alla Terra stessa ma anche, e soprattutto, alla forza lavoro agricola. Questo sistema non ha sempre mostrato il suo lato oscuro.

Inizialmente, le pratiche monocolturali furono introdotte tra gli anni ’50 e ’60 dall’agronomo americano Norman Borlaug e dal suo team durante quella che fu ironicamente chiamata la “Rivoluzione verde” o “Terza rivoluzione agricola”. Questa Rivoluzione aveva lo scopo di aumentare la produzione alimentare in modo da soddisfare il numero crescente della popolazione mondiale, specialmente a sud del mondo. Allo scopo, sono stati creati semi di grano e riso modificati ad alto rendimento, coltivati ​​con fertilizzanti sintetici e pesticidi.

Gli effetti collaterali di queste procedure hanno richiesto tempo per diventare evidenti. Ciò che risultò subito evidente fu invece l’aumento della produzione di cibo che, sfortunatamente, fu solo temporaneo.

Ciò che invece divenne permanente furono gli effetti dannosi sulla terra e sulle persone che la coltivavano. Le conseguenze di questo cambiamento includevano una perdita della diversità genetica delle colture e della fertilità del suolo, una maggiore vulnerabilità a parassiti e malattie, l’inquinamento delle risorse idriche da parte di pesticidi e fertilizzanti e l’esaurimento delle falde acquifere per l’irrigazione (oltre a un aumento delle malattie legate ai pesticidi). Inoltre, ha causato la perdita delle colture alimentari tradizionali (e della conoscenza dei metodi tradizionali di raccolta) e della biodiversità dell’ecosistema (Figueroa-Helland, Prezi).

Le maggiori cause di questi effetti sono le emissioni di gas serra dovute a tre principali fasi del sistema di coltivazione mono: deforestazione, uso di fertilizzanti e trasporto (di alcuni prodotti).

Figura 2. Foto di Franie Treetops. L'Eden Project si trova a Corwall, Inghilterra

Disboscamento, fertilizzanti e trasporti: fonti di gas serra

L’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), una delle agenzie delle Nazioni Unite con lo scopo di contribuire ad accrescere i livelli di nutrizione, stima che “almeno un quinto delle emissioni totali di GHG proviene dall’agricoltura, dalla silvicoltura e dai cambiamenti nell’utilizzo del suolo, ma riconosce che quando si incorporano altri fattori come l’uso di fertilizzanti, la produzione di attrezzature agricole e il trasporto di alimenti, le cifre sulle emissioni aumentano notevolmente ”(Figueroa-Helland et al, 177).

In effetti, altri esperti attribuiscono il 50 percento delle emissioni di GHG all’agricoltura industriale.

I costi del monocropping. Foto di: Union of Concerned Scientists

Non solo la produzione agricola basata su monocoltura non soddisfa le esigenze della popolazione terrestre: essa rilascia emissioni indesiderate di GHG nell’aria durante l’intero processo produttivo e commerciale; dalla deforestazione, che ha luogo per preparare le colture, ai fertilizzanti utilizzati per far crescere gli alimenti, al trasporto di questi ultimi all’estero (Figura 3).

Per quanto riguarda la deforestazione (in particolare delle foreste tropicali), essa ammonta a circa l’8 percento delle emissioni globali, secondo i dati raccolti dal World Research Institute (WRI). Questa è stata la principale causa del recente incendio (2019) della foresta pluviale amazzonica dopo l’elezione del presidente brasiliano Jair Bolsonaro. Come riportato da Vox a novembre 2019, la deforestazione “è stata deliberatamente indotta con l’incendio per fare spazio all’allevamento di bestiame.

In effetti, il Brasile è il più grande esportatore di carne bovina al mondo e l’80% della soia che cresce in Amazzonia è destinata all’alimentazione animale”. Come conseguenza della deforestazione, anche la capacità della Terra di assorbire le emissioni di GHG è compromessa. Infatti, secondo lo studioso Sam Adelman, le foreste della Terra fungono da pozzi di assorbimento del carbonio, “assorbendo tra un terzo e un quarto di tutte le emissioni di carbonio, regolando così i cicli climatici della Terra”.

Con più emissioni nell’aria e meno foreste per assorbirle, questo processo viene compromesso. Come Adelman afferma: “attraverso il cambiamento della modalità di utilizzo del suolo, l’agricoltura industriale aumenta le emissioni di gas serra e indebolisce la capacità della Terra di assorbirle/mitigarle” (Figueroa-Helland et al, 177).

Le popolazioni indigene sono le più colpite dalla deforestazione. Questo e’ ironico, considerando che pur rappresentando solo il 5% della popolazione mondiale, esse proteggono l’80% della biodiversità del pianeta. “Questo include luoghi che sono i polmoni del mondo, come la foresta pluviale amazzonica e i suoi corsi d’acqua, come il bacino del fiume Missouri” (Estes et al.). Altre simili minacce dannose per questi luoghi sacri sono la contaminazione delle acque, lo sviluppo dell’attività petrolifera e l’attività mineraria.

Gli indigeni, a causa del loro modo tradizionale di percepire la terra, l’aria e l’acqua e del modo di vivere a così stretto contatto con questi elementi di benessere, soffrono fortemente di queste violazioni dell’ecosistema, che cercano di proteggere per il loro benessere immediato ma anche per il resto del mondo.

Il rogo dell’Amazzonia per favorire l’agricoltura e l’allevamento è ancora in corso. Secondo una delle leader indigene e protettrici della foresta amazzonica brasiliana Sonia Bone, l’amministrazione Bolsonaro sta usando questo momento di “distrazione” a causa del Covid-19 per incrementare la deforestazione in Amazzonia, nonché l’attività mineraria illecita (all’interno di terre protette indigene). Infatti solo nel marzo 2020, la deforestazione è aumentata del 29,30% (WECAN International).

Inoltre, Bolsonaro “ha presentato un disegno di legge in attesa di un voto al Congresso che consentirebbe l’estrazione di minerali, petrolio e gas e altri utilizzi di queste terre” proprio all’inizio di Aprile 2020.

Queste pratiche non solo sono molto dannose per la Terra, considerando che le foreste amazzoniche costituiscono i polmoni della Terra, ma rendono anche le popolazioni indigene più vulnerabili al Covid-19 poiché i loro territori vengono nuovamente invasi dai colonizzatori dei nostri giorni, che potrebbero essere portatori del virus. Riflettiamo un attimo per ricordare che questo tipo di lavoratori non sono “lavoratori essenziali”.

Fertilizzanti

Come accennato in precedenza, l’uso di pesticidi e fertilizzanti sui nostri alimenti è anche estremamente pericoloso: non solo perché i prodotti chimici vengono rilasciati nell’aria e nel suolo, ma anche perché questi vengono assorbiti dagli alimenti (e in seguito da noi quando li consumiamo) ma, in maniera ancora più dannosa, dai lavoratori agricoli e dalle comunità indigene e limitrofe che spesso si ritrovano con residui di queste sostanze chimiche nei loro corsi d’acqua, e quindi anche nei loro alimenti.

Nell’uomo, l’esposizione ai pesticidi provoca, tra gli effetti più rilevanti, il cancro, il morbo di Alzheimer e di Parkinson, disordini ormonali, disturbi dello sviluppo e neurologici.

L’ONU riferisce che in media 200mila persone circa all’anno muoiono per l’esposizione tossica ai pesticidi in tutto il mondo (Rifai, Aljazeera).

Per quanto riguarda gli effetti ecologici, i pesticidi rappresentano una minaccia molto pericolosa per gli ecosistemi. La riduzione delle popolazioni di parassiti sconvolge il complesso equilibrio tra specie di predatori e prede nella catena alimentare.

Solo durante il ventesimo secolo, quando la monocoltura industriale ebbe il suo primo grande “boom”, il 75 percento della biodiversità mondiale fu danneggiata (Figueroa-Helland, Prezi). Infatti, i pesticidi riducono la biodiversità del suolo e contribuiscono alla fissazione dell’azoto, che può portare a grandi cali delle rese delle colture, ponendo problemi per la sicurezza alimentare (Rifai, Aljazeera). In termini di emissioni di gas serra dovute ai fertilizzanti, questi vengono rilasciati nel corso della produzione di pesticidi, che comprende la formulazione, l’imballaggio e il trasporto. Un recente studio della Cornell University mostra che le stime di queste emissioni sono superiori a quelle che si credeva dovessero essere, almeno negli Stati Uniti. In effetti, l’industria dei fertilizzanti a base di ammoniaca è un grande consumatore di gas naturale (GN) che viene utilizzato nella produzione di fertilizzanti. GN “è la più grande fonte industriale di emissioni antropogeniche di metano, un potente GHG con un potenziale di riscaldamento globale” (Zhou, 2019). Lo studio della Cornell ha anche scoperto che, rispetto alle stime di U.S. Environmental Policy Agency’s (EPA) 2016 GHG, le emissioni di metano stimate dall’industria dei fertilizzanti ad ammoniaca sono più di tre volte superiori rispetto alle emissioni di metano dei processi industriali (cioè circa 8 Gg CH4 / anno, principalmente dalla produzione petrolchimica). Questo è quasi equivalente alle emissioni di gas serra dell’intera città di Indianapolis, IN, USA (29 Gg / anno) (Zhou, 2019). Anche se l’uso di fertilizzanti non è l’unico problema legato all’industria agricola, esistono altri approcci non tossici che potrebbero raggiungere gli obiettivi di produzione alimentare, combattere la fame e non contaminare l’ambiente.

Trasporti … Sì, ma di quali alimenti?

Abbastanza sorprendentemente, il trasporto di alimenti contribuisce in misura ridotta alle emissioni. Come riportato in Our World In Data, una fonte dell’Università di Oxford, il trasporto della maggior parte dei prodotti alimentari contribuisce per meno del 10% alle emissioni globali (Ritchi et al, 2020). Tuttavia, gli studiosi dimostrano che ciò che conta di più è ciò che mangiamo, quindi ciò che viene raccolto o allevato nella fattoria stessa. In effetti, tutti i processi nella catena di approvvigionamento dopo che il cibo ha lasciato l’azienda agricola, come la trasformazione, il trasporto, la vendita al dettaglio e l’imballaggio, rappresentano una piccola percentuale delle emissioni (Ritchi et al, 2020). “Le emissioni in fase agricola includono processi come l’applicazione di fertilizzanti – sia organici (” gestione del letame “) che sintetici; e fermentazione enterica (produzione di metano nello stomaco dei bovini). Le emissioni combinate, l’utilizzo del suolo e le fasi agricole rappresentano oltre l’80% dell’impatto in emissioni per la maggior parte degli alimenti. Complessivamente, cio’ da notare e’ che gli alimenti di origine animale tendono a produrre una quantità di emissioni più elevata rispetto a quelli di origine vegetale. “Agnello e formaggio emettono entrambi più di 20 chilogrammi di CO2 equivalente per chilogrammo. Il pollame e il maiale hanno un impatto più basso ma sono ancora più alti rispetto alla maggior parte degli alimenti a base vegetale, rispettivamente a 6 e 7 kg di CO2 equivalente” (Ritchi et al, 2020). E per quanto riguarda il consumo di carni allevate sul posto? Molti sostengono che l’acquisto di carni allevate localmente sia più ecologico. In realtà questo potrebbe avere un senso “solo se il trasporto fosse responsabile di gran parte della quantità delle emissioni. Per la maggior parte degli alimenti invece non è così. In uno studio pubblicato su Environmental Science & Technology, Christopher Weber e Scott Matthews (2008) hanno analizzato l’impatto sul clima dovuto al trasporto del cibo e alle scelte alimentari delle famiglie americane. La loro analisi ha dimostrato che sostituire, meno di un giorno alla settimana, calorie da carne bovina e latticini con pollo, pesce, uova o un’alternativa a base vegetale riduce le emissioni di GHG più che acquistare tutto il cibo da fonti locali” (Ritchi et al, 2020). Se vogliamo ridurre le emissioni dei nostri alimenti, occorre responsabilità sia da parte dei produttori che dei consumatori. “Per i produttori, la comprensione e l’adozione delle migliori pratiche agricole e di gestione del territorio possono mitigare gli impatti più elevati della produzione. Come consumatori, la più grande differenza che possiamo fare è mangiare più proteine da fonti ​​vegetali come tofu, noci, piselli e fagioli. Questo indipendentemente da dove ti trovi nel mondo”(Ritchi et al, 2020).

Un problema di distribuzione alimentare

Secondo lo studioso Leonardo Figueroa-Helland, anche se i dati relativi alla fame nel mondo hanno visto un miglioramento negli anni ’80 e ’90, ad oggi ancora 795 milioni di persone soffrono la fame, due miliardi sono malnutriti e un numero sempre crescente soffre delle “malattie della globalizzazione”, tra cui l’obesità e il diabete di tipo 2.

Ciò che ancora più sorprende di queste stime è che la maggior parte degli affamati e malnutriti sono piccoli agricoltori e braccianti agricoli che vivono proprio in paesi che sono esportatori netti di cibo. L’80% di questi si trova nei paesi in via di sviluppo, che producono oltre il 70% dell’approvvigionamento alimentare globale.

Di questi, le donne, le popolazioni indigene e i bambini sono particolarmente vulnerabili. In particolare, il 60% delle persone denutrite in tutto il mondo sono donne o ragazze, cosa particolarmente ingiusta poiché le donne producono la maggior parte del cibo nel mondo, oltre a svolgere la maggior parte dei lavori sottopagati o non retribuiti di cura nelle case o nel settore informale (Figueroa-Helland et al, 176).

Inoltre, l’accesso limitato delle donne delle aree rurali al credito, ai titoli di proprietà del terreno, al reddito salariale ed altro aumenta la loro vulnerabilità e limita la loro capacità di rispondere al degrado ambientale e agli impatti dei cambiamenti climatici (Acha, 3). Queste ingiustizie non hanno nulla a che fare con la quantità di cibo prodotta o con la scarsità di denaro in questo settore. Devono confrontarsi con i sistemi patriarcali e ingiusti in atto. Infatti, “produciamo già 4600 kcal per persona di raccolto alimentare commestibile, abbastanza per alimentarne 12-14 miliardi” (Figueroa-Helland et al, 176).

Da questi dati si può rilevare che il modello distributivo dell’attuale crisi alimentare è altrettanto problematico quanto la sua produzione e che i sistemi di produzione capitalistici non risolvono né il problema della fame nel mondo né l’ingiustizia socio-economica da essa inflitta.

Stiamo vedendo esempi di questo con l’attuale crisi sanitaria globale dovuta al Covid-19. A causa di difetti nei modelli di distribuzione degli alimenti, molti agricoltori sono costretti a vedere sprecati prodotti freschi e latte inizialmente destinati a scuole, ristoranti e alberghi.

Secondo Politico, “i mercati agricoli e alimentari locali e regionali potrebbero perdere fino a $700 milioni nelle vendite fino a maggio a causa dell’arresto causato dal coronavirus, secondo un’analisi degli economisti agricoli”. Detto questo, questa crisi sanitaria ha offerto l’opportunità di ripensare il modo in cui le persone acquistano cibo.

Con i supermercati che hanno difficoltà a riempire gli scaffali, i consumatori stanno utilizzando modi alternativi di fare la spesa, modi molto più sostenibili di quelli che fino ad ora erano la tendenza principale. Ad esempio, ci si rivolge ad aziende agricole locali che hanno la possibilità di consegnare i loro prodotti a domicilio.

Sfortunatamente però, non tutti i piccoli agricoltori hanno la possibilità di fornire servizi di consegna, ma gli esperti hanno suggerito modi alternativi di vendere prodotti, come le aziende agricole drive-through.

Questi cambiamenti dimostrano che il cibo prodotto è sufficiente ed è tempo di riforme agricole che diano potere agli agricoltori locali e indigeni, il che ridurrà anche la quantità di GHG rilasciata nell’atmosfera come conseguenza di esso. Diamo un’occhiata ad alcune possibili soluzioni.

Sovranità alimentare e sistemi tradizionali

Un modo per assicurarci di preservare entrambe la biodiversità della Terra e la salute delle persone che vi abitano e raccolgono i nostri alimenti è attraverso la “sovranità alimentare”. Questo termine è stato introdotto dall’organizzazione indigena per la giustizia alimentare La Via Campesina (LVC), alla Conferenza mondiale sull’alimentazione del 1996 ed è diventato popolare da allora. Inizialmente, LVC definiva la sovranità alimentare come “il diritto di ogni persona a mantenere e sviluppare la… capacità di produrre i propri alimenti di base, rispettando la diversità culturale e produttiva” (Figueroa-Helland et al, 179).

Infatti, la sovranità alimentare affronta i problemi causati dal moderno sistema agricolo alimentare: la globalizzazione della fame, le emissioni di gas effetto serra e la salute e le violazioni di genere. Allo stesso tempo, richiede una riforma agraria, la protezione delle risorse naturali e la ristrutturazione del commercio alimentare su scala globale (Figueroa Helland et al, 179).

Alcuni dei modi alternativi di raccolta che garantiscono la sovranità alimentare sono spesso definiti anche “agroecologici”. Detto questo, dobbiamo sottolineare che alcuni studiosi ritengono che gli agroecologi considerino ancora la natura come una risorsa da sfruttare, mentre le tradizioni indigene vedono la natura come complementare alla specie umana, vivendo in sincronia tra loro.

Infatti, come spiega Figueroa-Helland, “l’agroecologia è stata resa popolare dopo la seconda guerra mondiale in risposta all’impatto ambientale dell’agricoltura industriale” e che l’unica cosa che separava gli agroecologi dai promotori della “Rivoluzione verde” era semplicemente che i metodi e le tecnologie di quest’ultima non erano sostenibili (Figueroa Helland et al, 181). Detto questo, i metodi agroecologici sono ecologici e il termine è comunemente usato da organizzazioni come LVC (come visto in questo articolo pubblicato dall’organizzazione).

Alcune tecniche agroecologiche sono: metodi agricoli diversificati, inter-cropping, policolture, cicli di rotazione multi-raccolto e tecniche agroforestali.

Queste tecniche sono tutte utilizzate nell’agricoltura indigena, pertanto l’affermazione che alcuni potrebbero fare che le tecniche aborigene sono “arretrate” o inefficaci, si è dimostrata falsa. Esempi di iniziative che stanno implementando le pratiche di policoltura a livello globale sono:

The Natwani Coalition, Stati Uniti

Dal 2004, la coalizione Natwani lavora per recuperare le pratiche agricole tradizionali. “I programmi della coalizione Natwani includono l’educazione dei giovani, i simposi sul cibo e l’iniziativa Heedom Seed – che rafforza il valore di preservare il seme Hopi, che ha sostenuto generazioni di persone Hopi con il suo denso valore nutrizionale e la tolleranza alle siccità e agli ambienti aridi” (DiGiorgio et al).

Rock Steady Farm & Flowers, Stati Uniti

Rock Steady Farm & Flowers è una cooperativa di proprietà di donne e persone queer che utilizza pratiche agricole sostenibili e partnership con diverse comunità per sostenerle economicamente nel sistema alimentare. “Oltre ai fioristi e ai ristoranti di New York, Rock Steady Farm & Flowers fornisce cibo a dispense alimentari, organizzazioni non profit per la giustizia sociale e a un centro di risorse per la giustizia sociale locale” (DiGiorgio et al). L’organizzazione collabora con i centri di risorse LGBTQAI + e BIPOC (neri, indigeni e di colore) per dare supporto alle comunità sottorappresentate e fornire formazione professionale e supporto ai giovani nello stato di New York.

SeedChange, internazionale

SeedChange è un’organizzazione con sede in Canada, con un interesse internazionale. Il suo obiettivo è quello di lottare per i diritti degli agricoltori, tra cui salari equi, terra e accessibilità alle sementi. Con l’aiuto delle sue partnership ha supportato oltre 30mila piccoli agricoltori per ripristinare terreni degradati, condividere sementi e avviare attività commerciali. L’organizzazione ha lo scopo di mettere in contatto gli agricoltori a livello globale per far loro scoprire e attuare nuove pratiche agroecologiche e a finanziare il lavoro dei partner e sostenitori di politiche di supporto. Ad esempio, ha avuto enormi risultati nel rilancio della terra nel Burkina Faso.

– Il movimento Transition Town, internazionale

Il movimento Transition Town, lanciato formalmente nel 2005, si è diffuso dalle sue origini nel Regno Unito a tutto il mondo. Il suo obiettivo è quello di riunire le comunità che rispondono all’ingiustizie causate dall’industria estrattiva, costruendo la sicurezza alimentare locale attraverso orti comunitari e la sicurezza energetica locale attraverso le energie rinnovabili. Alcuni gruppi si fondano sul movimento per le valute locali basate sul baratto: un’ora del tempo di chiunque è uguale a quella di un altro (Gaard, 30). Sul loro sito Web si trovano guide gratuite in oltre 10 lingue per insegnare alle comunità come effettuare la “transizione”.

Conclusione: non si tratta solo di cibo

Dalla descrizione di queste iniziative, si può notare che tutte hanno qualcosa in comune: non sono semplicemente “sistemi alimentari” alternativi.

Mentre il loro obiettivo è quello di produrre cibo e fornire una soluzione a lungo termine alla fame nel mondo e all’inquinamento inutile, adottano sistemi comunitari che combattono contro i sistemi capitalisti oppressivi e patriarcali in atto, assicurando la protezione dei diritti di tutte le persone, e dell’ecosistema che le circonda.

L’attuale pandemia di Covid-19 ha messo in evidenza la fragilità di questi sistemi imperfetti che sono stati in atto sin dai tempi della colonizzazione e della “modernizzazione”: sono fragili in quanto non servono o si prendono cura di tutte le persone ma lo fanno solo per una piccola parte di noi.

Possiamo prendere questa pandemia e il 50° anniversario della Giornata della Terra come una possibilità per riflettere su quanto intrinsecamente siamo collegati gli uni agli altri (così come ad altre specie e agli ecosistemi che ci ospitano) ed educarci su come i sistemi alternativi possano prevenire l’ulteriore distruzione di tutto.

Un’opportunità per farlo è iscriversi a uno qualsiasi degli eventi virtuali che si svolgono online durante la Settimana della Terra. Puoi trovare eventi qui o puoi seguire sulle organizzazioni per il clima come Future Coalition e We The Planet, tra tanti, sui social media.

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