Il Libano è un piccolo stato mediorientale con una lunga costa aperta sul Mediterraneo, geograficamente un paese marittimo, ma possono definirsi tali anche la sua identità e la sua attitudine?
L’orizzonte marino è un orizzonte liquido che abitua colui che lo osserva dalla costa a smarrire i riferimenti stabili, a pensare la propria identità come non immutabile, un mosaico costruito da partenze e approdi continui.
La storia contemporanea del Libano, però, racconta tutt’altro, la sua società sembra essere costituita da comunità a-sociali (la–iğtima‘iyya), “chiuse con il filo spinato all’interno delle loro tradizioni”, così le definisce il poeta siriano Adonis nel saggio Beirut. La non città (Medusa Edizioni, 2007, trad. A. Celli)
Il mare permea poco la società libanese che, come afferma il sociologo Ahmad Beydoun, si è sviluppata voltando le spalle all’acqua per rivolgere il suo sguardo verso la montagna, luogo reale e simbolico.
Dopo la fine del mandato francese e l’indipendenza del 1943, il Libano sembrava in grado di poter sviluppare la sua vocazione marittima costruendo il paese attraverso una società coesa. Lo scrittore Khaled Ziyade, nel romanzo autobiografico Venerdì, Domenica (Jouvence, 1996, trad. C. Ferial Barresi), narra proprio quest’epoca di speranza che egli visse a Tripoli, sua città natale, negli anni ’50 e ’60. Scritto nel 1984, il racconto tralascia volutamente il disastroso conflitto scoppiato negli anni ’70, e si sofferma sul “periodo gioioso” di ricordi d’infanzia:
“L’ampia distesa di mare, spalancata sul verde degli agrumeti, giungeva fino all’orizzonte, e il verde e l’azzurro dominavano il panorama che mi stava davanti, prima che i palazzi sempre più alti arrivassero a coprirlo. […] Quegli anni furono un periodo di felice confusione. La scuola […] era un luogo eterogeneo e per la prima volta in classe mi feci amici cristiani […]. La nostra generazione, a differenza di quelle precedenti, ebbe il privilegio di quella mescolanza che allora raggiunse il suo culmine, comprendendo un cattolico di Zahla, un druso dello Shuf e uno sciita, oltre ai maroniti della campagna circostante e agli ortodossi che provenivano dal centro città.”
Il panorama marino fu gradualmente coperto dai nuovi grattacieli del boom economico degli anni ’60 e il mare, come essenza reale e metaforica, iniziò ad apparire sempre meno nei romanzi. Il Libano divenne la “Svizzera d’Oriente”, la sua capitale, Beirut, si trasformò in una città moderna, luccicante e alla moda in cui, però, era già possibile rintracciare i germi che avrebbero causato la lunga “malattia” libanese:
“Il quadro urbano [di Beirut era] attraversato da molteplici incrinature […]. L’ultima di queste fratture si inscriveva nella linea spezzata dei tetti in lamiera ondulata e dei muri in calcestruzzo grezzo di quella cintura di miseria che vedeva ammassati ai bordi della città i migranti più recenti: contadini sciiti del Sud Libano, palestinesi rifugiati nel 1948 e anche qualche curdo.” (Samir Kassir, Beirut, Einaudi, 2009, trad. M. Marchetti)
Il patto nazionale del 1943 aveva suddiviso le cariche politiche in base al peso demografico di ogni confessione religiosa, e i cristiani maroniti erano risultati politicamente i più avvantaggiati. Negli anni ’60, la comunità sciita, che era la più povera e la meno rappresentata, ebbe una straordinaria crescita demografica che la portò a rivendicazioni di tipo politico e sociale.
Inoltre, dopo la naksa del 1967, l’arrivo di un numero ancora maggiore di palestinesi che accrebbero sensibilmente la comunità sunnita, creò una irreversibile frantumazione della società libanese. Il “quadro polifonico” e armonico che le diverse comunità componevano nel libro di Ziyade, il 13 aprile del 1975 si trasformò nell’opera Guernica di Picasso.
Il Libano venne trascinato in un vortice di follia collettiva. L’identità libanese perse ogni valore, l’essere umano perse ogni valore. Le comunità religiose si rinchiusero ciascuna in un proprio spazio, un territorio o un quartiere, guardando con ostilità allo spazio di coloro che erano diventati “gli altri”.
Gli intellettuali, sopresi da questo improvviso scoppio di violenza, si interrogarono sul loro ruolo. Ghada al-Samman, scrittrice di origine siriana ma che da alcuni anni viveva nella capitale libanese, nel 1977, in Kawabis Bayrut (Incubi di Beirut) descrisse la ferocia quotidiana della guerra civile e la sua impotenza:
“Vivo in un campo di battaglia ma non possiedo armi, so far funzionare solo questa penna sottile che galoppa tra le mie mani lasciando sul foglio le sue linee tremanti come le tracce di sangue di un ferito che si trascina in un campo di cotone. […] Dove vivo? E un’altra esplosione rimbomba. Sento un dolore lancinante. Perché non ho imparato a difendere ciò in cui credo con un’altra arma che non sia questa penna? Com’è impercettibile il suo suono sul foglio quando riecheggia il boato di una nuova esplosione.” (trad. S. Moresi)
Il lungo scontro fratricida riportò, tra l’altro, alla ribalta una ideologia incistata da tempo tra le crepe della società libanese e che contribuì ad alimentare l’odio comunitario: il fenicismo.
L’origine fenicia, rivendicata dalla comunità maronita, proponeva una identità pura, ostile, dunque, all’idea di una appartenenza fluida e complessa. Il fenicismo fu la base ideologica del partito delle Falangi Libanesi (al-Kata’ib al-lubnaniyya) e di altri partiti di destra (molto vicini al fascismo spagnolo e italiano) che, nel 1982, furono responsabili, assieme all’esercito israeliano, delle stragi dei campi profughi palestinesi Sabra e Chatila.
Anche alcuni scrittori libanesi furono pericolosamente affascinati da tali teorie, primo tra tutti il poeta Said Aql. Nato nel 1912, a Zahla, non fece mai mistero del suo odio per l’identità araba del Libano: “Mi taglierei la mano destra solo per non essere un arabo”.
Aql, che in una intervista definì l’esercito israeliano jaysh al-khalas (esercito della salvezza), fu leader spirituale dell’organizzazione ultra-nazionalista Guardiani dei Cedri il cui slogan era: “E’ dovere di ogni libanese uccidere un palestinese”.
L’avversione per la cultura araba e il tentativo di enfatizzare il sostrato fenicio del Libano lo portarono a creare un nuovo alfabeto per la “lingua libanese” basato sui caratteri latini e non su quelli arabi. La prima opera scritta in questa lingua fu Yara, una antologia che raccoglie alcune famosissime poesie d’amore cantate anche dalla star Fayrouz.
Il conflitto e l’odio comunitario entrarono prepotente in letteratura diventando gli argomenti focali. Già nel 1981, Elias Khoury, uno dei più famosi scrittori libanesi, pubblicò Facce bianche (Einaudi 2007, trad. E. Bartuli), romanzo complesso, dove la guerra civile è, nello stesso tempo, sfondo e tema centrale.
La storia ruota attorno alle indagini che il protagonista compie su un omicidio avvenuto il 13 aprile 1980 (data palesemente simbolica perché quinto anniversario dell’inizio del conflitto) che non porteranno, però, alla scoperta di alcun colpevole ma solo a una “conclusione provvisoria”.
La guerra civile, in tutta la sua brutalità, è presente nei racconti delle persone interrogate dal protagonista, ma è anche chiaramente rintracciabile su un altro livello narrativo. L’omicidio corrisponde metaforicamente all’assassinio del Libano, delitto per il quale non può esistere un colpevole perché tutti sono colpevoli e vittime allo stesso tempo. Tentare di riportare la Storia a una “pagina bianca”, cancellando orrori e odio, è ciò che tenta di fare, prima di essere ucciso, Khalil Ahmad Jabir, la vittima. Il gesto di un folle che prova a fermare la follia:
“[…] devo cancellare tutto, tutto ritornerà bianco, tutto. […] Una grande gomma da cancellare, però non cancellerà quello che c’è scritto sui muri, cancellerà tutto, la metterò sul muro, così, e il muro scomparirà, no, non crollerà, niente urla, né polvere, né mucchi di macerie, né pietre. […] scomparirà così, come vedi, scomparirà.”
L’incubo libanese durò fino al 1990, la guerra civile si concluse solo formalmente con gli accordi di Ta’if e con la legge di amnistia che cancellò in un solo colpo tutti i crimini commessi durante quell’oscuro ventennio. Il paese dei cedri precipitò in una sorta amnesia collettiva, i colpevoli dei massacri di qualche anno prima si riciclarono come leader di nuove formazioni politiche.
Tutto era cambiato, nulla era cambiato. Fu messo in atto un processo di deresponsabilizzazione, la guerra civile diventò la guerra degli altri (palestinesi, israeliani, siriani, etc.), come se le cause del conflitto fossero rintracciabili esclusivamente al di fuori del paese, e non all’interno della stessa società libanese.
Solo gli scrittori, come il già citato Elias Khoury o Jabbour Douaihy, hanno continuato negli anni a scandagliare il conflitto, non solo per indagare le ragioni politiche della guerra, ma soprattutto per esplorare i rapporti relazionali tra le persone, inevitabilmente viziati e compromessi da quel disfacimento morale che la guerra porta con sé.
Entrambi gli scrittori, infatti, in due loro recenti lavori, hanno analizzato il tema della frantumazione della società libanese e della conseguente scissione identitaria dell’individuo. In Specchi rotti (Feltrinelli, 2014, trad. E. Bartuli) Elias Khoury affronta questo argomento attraverso la storia di due fratelli, Karim e Nassim, che, durante il conflitto, si erano trovati a combattere su due schieramenti opposti: il primo con le forze di sinistra alleate alla resistenza palestinese, il secondo con le milizie falangiste.
Il romanzo parte dal 1989, dalla fine del conflitto e, con una narrazione a ritroso, compone pian piano le figure di questi due personaggi antitetici che si completano, però, solo specchiandosi l’uno nell’altro.
In questo gioco di fusione e frammentazione identitaria si inserisce anche Sinalcol, alter ego di Karim durante il conflitto che però spesso nel romanzo appare come un personaggio a sé stante. La struttura narrativa utilizzata da Khoury fa sì, poi, che ogni storia iniziata da Karim rimanga inconclusa e sospesa senza il racconto di Nassim e degli altri personaggi. L’identità come un prisma con mille sfaccettature, la Storia come un collage di racconti diversi:
“[…] la guerra, di fatto, aveva scisso ogni individuo in due metà e siccome una metà uccideva l’altra, la vittima sarebbe stata il padre. Di modo che, per una volta, sarebbero stati tutti vittime, sia il padre sia i figli.”
In San Giorgio guardava altrove di Jabbour Douaihy (Feltrinelli, 2012, trad. E. Bartuli con H. Bahri), il concetto di immobilità identitaria viene decostruito attraverso la figura del protagonista, Nizam, che, nato in una famiglia musulmana e poi adottato da una coppia cristiana, si muove fluidamente tra le due appartenenze e le due comunità. Nel romanzo, ambientato negli anni del conflitto, questo personaggio “doppio” diventa oggetto di violenza da parte di entrambi gli schieramenti, facendo emergere tutta l’insensatezza dell’odio e, in un certo senso, mettendo in ridicolo l’ideologia alla base del comunitarismo. La tragica morte di Nizam rappresenta il totale fallimento di un progetto di coesione umana e sociale ma è nel suo stesso personaggio “frontaliero” che forse si annida una speranza per il futuro:
“Quelli che potranno assumere pienamente la propria diversità serviranno da staffetta fra le diverse comunità, le diverse culture, e in un certo qual modo costituiranno l’elemento cementante in seno alle società in cui vivono.” (Amin Maalouf, L’identità, Bompiani, 2005, trad. F. Ascari)
Per tentare di dimenticare gli orrori della guerra civile e trovare una fittizia e momentanea pacificazione anche i segni lasciati sui palazzi dal conflitto furono frettolosamente coperti. A Beirut, lo scellerato piano edilizio Solidere diede il via a una ricostruzione famelica che divorò gli edifici storici per poi rigurgitare palazzi nuovi e lussuosi, simboli di un illusorio cambiamento.
“Nella vie en rose, il nostro popolo affogava. Proprio come i loro palazzi, le persone diventavano sexy e seducenti fuori, ma false e vuote dentro. […] Le persone erano così avvilite e distrutte dalla guerra da non poter far altro che dimenticare. E l’oblio, a quanto pare, era anche il modo più facile per affrontare le cose.” (Zena el Khalil, Beirut, I love you, Donzelli, 2010, trad. S. Mobiglia)
Sotto questo travestimento luccicante continua a sopravvive un vivace fermento artistico e culturale, alimentato, negli ultimi anni, dall’arrivo di centinaia di giovani in fuga dalla Siria. “Smascherare” Beirut, e con essa l’intera società libanese, è l’obiettivo, ad esempio, dell’artista Randa Mirza che, con il suo lavoro fotografico Beirutopia, (Giuda Edizioni, 2012) mette a nudo la città, mostrandola finalmente nella sua finzione scenica. Beirut, in cui oggi l’odore del mare è spesso coperto dal fetore di cumuli di spazzatura, è il simbolo di un intero paese schizofrenico e contraddittorio vittima di una politica corrotta e senza memoria.
“La puzza arriva dalla discarica, […] stanno riempiendo il mare di spazzatura per aumentare l’estensione della città […]. Beirut si sta mangiando il mare con la monnezza per diventare più grande. Eccotela qui Beirut.” (Specchi rotti)