La scorsa estate sono tornato in Cisgiordania per partecipare come tirocinante a quello che su carta sembrava essere un esperimento sociale decisamente singolare: Roots.
Roots è un’organizzazione in cui lavorano persone politicamente e socialmente inconciliabili: palestinesi e coloni israeliani. Inconciliabili perché nelle varie narrazioni presenti in Cisgiordania l’esistenza stessa di una comunità viene ritratta come la negazione dell’altra.
Da un lato i palestinesi vedono ogni espansione delle colonie israeliane come un’ulteriore espropriazione di terra e guardano la presenza dei coloni come quintessenza delle ingiustizie che stanno subendo dal 1967 in poi, se non dalla Nakba. Dall’altro lato, per i coloni israeliani i palestinesi sono potenziali terroristi, una minaccia alla sicurezza individuale e nazionale, e l’elemento che impedisce la costruzione di una “Grande Israele”.
In palese controtendenza, le attività di Roots si pongono come una sfida aperta verso queste due narrazioni. Come spiegato da Hanan Schlesinger, rabbino colono addetto alle relazioni internazionali, il collettivo palestinese-israeliano si prefissa di costruire le condizioni necessarie a una convivenza pacifica mettendo al centro la dignità delle persone e portando avanti i principi cardine di two States, one homeland: garantire i diritti fondamentali, cioè libertà di voto e di movimento, piena sovranità su entrambi territori nazionali e assenza di occupazione militare, accesso a giustizia e sicurezza; rispondere alle richieste di entrambe le popolazioni, e rendere Gerusalemme aperta a palestinesi e israeliani senza discriminazioni o restrizioni.
In un momento storico in cui la ricerca di un partner for peace e il ruolo di honest-broker degli Stati Uniti si palesano come mera retorica all’interno del processo di pace, le attività di Roots si impongono come esercizio radicale di ascolto e inclusione nella narrazione dell’altro.
Porre al centro delle proprie attività la dignità umana significa riconoscere il valore e la vulnerabilità che contraddistinguono ogni persona. Dare il beneficio del dubbio e aver la cura di sforzarsi di comprendere il proprio interlocutore. Mettere in discussione l’assolutezza delle proprie convinzioni e considerare che ogni azione non abbia un significato univoco e universale. Riconoscere che la propria vittoria potrebbe essere la rovina di un’altra persona.
Tre tavoli di discussione si riuniscono con cadenza settimanale per trovare nelle proprie memorie collettive dei punti di congiunzione e confronto. Il dialogo avviene rigorosamente in arabo e in ebraico con traduzione simultanea degli interventi. Parallelamente ai tavoli di discussione e sempre con cadenza settimanale vengono svolte altre attività, tra cui un corso di formazione per una leadership nonviolenta e un laboratorio di fotografia nel doposcuola per i bambini.
Al fine di evitare escalation di violenza e tentare di ridurre la tensione tra le comunità, il comitato si impegna a mantenere aperti dei canali di comunicazione tra i leader palestinesi e israeliani che vivono nell’area. Una delle iniziative più significative è la Pre-Army Academy in cui i giovani che stanno per prendere parte al servizio militare obbligatorio israeliano vengono sensibilizzati alle diverse posizioni e opinioni che incontreranno durante il loro servizio. Sino ad oggi vi hanno già preso parte oltre 3mila studenti.
La maggior parte delle attività si svolgono su un terreno di proprietà della famiglia palestinese Abu Awwad, in una zona tristemente nota per la sua lunga storia di violenze: lo svincolo autostradale di Gush Etzion, lungo l’autostrada 60. Gush Etzion è un’area a Sud di Gerusalemme e a est di Betlemme dove numerose colonie sono state costruite in prossimità con i villaggi palestinesi. Il fatto che palestinesi e israeliani circolino liberamente in autostrada rende questo vincolo un luogo particolarmente esposto ad attacchi e violenze reciproche.
Le vicende personali degli attivisti che partecipano a Roots sono davvero eterogenee. La maggior parte sono credenti (90% degli israeliani sono praticanti e così come il 60-70% dei palestinesi) Chi ha continuato a frequentare il comitato condivide l’idea che sia necessario porre le basi per un cambiamento in ambedue le società civili, in quanto al momento i rispettivi governi non permettono alcuna riconciliazione.
“Anche se abitiamo in una zona di aperto conflitto, è pazzesco a dirsi, ma abbiamo comunque le nostre certezze e sicurezze: dietro il muro, dietro le recinzioni, ma soprattutto nella nostra storia. Sembra impossibile, ma entrambe le parti qui dicono di aver ragione. Entrambe le parti dicono che l’altra ha torto. Entrambe le parti dicono di volere la pace e entrambe le parti dicono che l’altra non la vuole! C’è un problema che giace nella nostra identità collettiva”.
Shaul Judelman è un colono religioso nato negli Stati Uniti. Allievo di Menachem Froman, al suo arrivo in Israele ha vissuto la vita dei kibbutz. Dopo l’Intifada Al-Aqsa si è trasferito in una colonia di Gush Etzion spinto da una domanda: “Che cosa stiamo costruendo? Avevo una certa idea di ebraismo prima di tornare, ma ora che siamo qui in Israele, ora che siamo ritornati dal nostro esilio, quali sono i valori che vogliamo portare avanti? […] Dopo 27 anni di violenza, come facciamo ancora a credere che ci sia un processo di pace? Tutto si è ridotto a una competizione su quale comunità sia arrivata prima su questa terra. Ci scambiamo a vicenda la richiesta di tornare a casa nostra. Ma dove sarebbe casa nostra? In Europa? In Germania?”.
Parlando col pubblico, Hanan racconta spesso la propria storia: “Sono ebreo, colono e sionista. A 18 anni sono partito da New York per prendere parte al nostro ritorno in Terra Santa. Essere sionista significa questo per me: tornare a camminare dove i nostri antenati hanno percorso i propri passi. Per questo è particolarmente significativo abitare in Cisgiordania. Qualche anno fa, durante una visita di due rabbini dagli States, diedi un passaggio a due autostoppisti e ricevetti i complimenti per la mia immensa generosità. Risposi ai complimenti dicendo che in Israele non si nega un passaggio a nessuno. Quel momento fu un’epifania per me. Realizzai che mi stavo mentendo. Stavo mentendo a loro perché avevo sempre mentito a me stesso. Non avevo mai dato un passaggio alla maggioranza delle persone che cammina ai bordi dell’autostrada 60: ai palestinesi. […] Non ascoltai le preoccupazioni di mia moglie, quella sera, e incontrai dei palestinesi interessati ad aprire un dialogo. […] Parlando con loro, per la prima volta diedi peso alla parola “occupazione”. L’avevo già letta in alcuni articoli di stampa internazionale, ma questa scorreva via velocemente, quasi non avesse un significato. Ero totalmente cieco. Io vedevo solamente il ritorno degli ebrei in Terra Santa. Compresi lentamente e con enorme dolore che il nostro ritorno nella terra di Israele è avvenuto a spese del popolo palestinese”.
Ali Abu-Awwad, co-fondatore palestinese di Roots, arrivando da una famiglia importante, poteva aspirare a una posizione di rilievo all’interno dell’Autorità palestinese. Prima di diventare un sostenitore della non violenza, fu condannato a dieci anni di galera dai tribunali israeliani durante la prima Intifada. Dopo numerose richieste negate, iniziò uno sciopero della fame per poter vedere la madre – anche lei in detenzione. Dopo 17 giorni la loro richiesta fu accolta. Sempre in prigione studiò l’ebraico e comprese che era possibile lottare per i propri diritti in un modo diverso.
“Ero stato accecato da mille tesi su chi fosse il colpevole, chi la vittima, quali dovessero essere le punizioni e quale dovesse essere la giustizia. Ho compreso poi che mostrare la mia umanità adottando la nonviolenza sarebbe stato il modo migliore per ottenere i miei diritti”.
Durante la seconda Intifada, il fratello di Ali fu ucciso. “Mio fratello non era un criminale, né un terrorista. Era il mio amico più fidato ed era una persona splendida. Dopo numerose notti insonni a pensare di giustizia e vendetta, decisi che non avrei risposto con la vendetta alle mie sofferenze.” Parallelamente all’impegno con Roots, nel 2016 Ali fondò Tagheer, un’iniziativa nata per identificare degli obiettivi comuni tra i palestinesi e per avviare un progetto appropriato per un cambiamento sociale.
Noor Awad vive nella città vecchia di Betlemme. “Negli anni ’90 non si percepiva tutta l’architettura dell’occupazione. Andavamo al mare a Jaffa e non c’erano molte limitazioni. Da bambino pensavo che quella fosse una vita normale. Tutto cambiò con la seconda Intifada e con la costruzione del muro. Questo elemento di divisione non fa altro che rendere nemici reciproci palestinesi e israeliani. Non permette di incontrarci, interagire o conoscerci. Gli unici israeliani che possiamo incontrare sono i soldati o i coloni che vivono nell’Area C. Sono cresciuto con queste immagini che per me significavano “il nemico”. […] Sono arrivato a Roots accompagnando un gruppo di studenti americani. Non conoscevo questo posto. Eravamo nel febbraio 2016 e incontrai Hanan. Hanan parlò di sé e dei suoi trascorsi in Cisgiordania. Alla fine del suo discorso ero sconvolto. Mi sembrava che si contraddicesse parlando del “ritorno in Giudea e Samaria” e al contempo parlando del dramma della Nakba. Tempo dopo ritornai a Roots perché per la prima volta avevo sentito una voce proveniente dall’altra parte che mi trasmetteva empatia. Decisi di unirmi al collettivo”.
Le difficoltà che Roots deve affrontare sono innumerevoli. Prima fra tutte è la violenza per cui è famosa Gush Etzion. A fine giugno, un ragazzo palestinese è stato ucciso a sangue freddo da un soldato. Poche settimane dopo la piccola comunità è stata sconvolta dall’omicidio di uno studente di 19 anni che frequentava una yeshiva, la scuola religiosa ebraica dove si studia il Talmud, e poi da un “attacco terroristico” compiuto da un palestinese contro due coloni nei pressi di Efrat. Sia lo studente della yeshiva sia il palestinese ucciso prima del mio arrivo avevano partecipato alle iniziative di Roots.
Una delle fondatrici di B8 of Hope, organizzazione filantropica finanziatrice delle attività di Roots con sede a Ginevra, ha espresso non poche preoccupazioni circa la sopravvivenza del comitato. Il comitato è particolarmente vulnerabile rispetto a entrambe le società civili e ai rispettivi governi.
Lo sciovinismo militarista del governo israeliano dipinge chi interagisce coi palestinesi come un debole o un traditore. I palestinesi, per contro, diffidano di questi incontri in quanto contribuirebbero alla normalizzazione dei rapporti con Israele.
Al termine di una presentazione uno studente americano si alzò infiammato e disse: “Ma se fossi un cittadino israeliano come farei a fidarmi del mio interlocutore? Come potete pensare che basti spiegare a un palestinese cosa subiamo noi ebrei nel mondo per placare l’odio che prova nei miei confronti? Pensate davvero che questo possa fargli accettare il mio ritorno?” “Noi palestinesi a Roots non sappiamo se i ragazzi israeliani che andranno a servire nell’esercito premeranno il grilletto quando gli saremo di fronte, ma abbiamo deciso di ascoltare i loro dubbi e mostrare loro le nostre vite come risposta,” rispose Ali Abu-Awwad, “il ruolo della nonviolenza è quello di parlare alla disperazione delle persone. La nonviolenza non dirà loro che hanno ragione, ma mostrerà loro una via d’uscita alternativa”.