Il 18 marzo nel suo discorso alla nazione la cancelliera tedesca Angela Merkel ha voluto far comprendere chiaramente alla popolazione che la crisi del coronavirus va presa sul serio.
Merkel ha sottolineato la necessità di restringere al minimo movimenti e contatti, ma non è arrivata ad imporre il genere di controlli governativi adottati per affrontare la crisi dall’Italia e da un numero sempre crescente di paesi europei.
Ricordando l’esperienza vissuta nella Repubblica Democratica Tedesca, in cui le era impedito di spostarsi liberamente, Merkel ha insistito sul fatto che gli stati democratici non dovrebbero adottare con leggerezza restrizioni alla libertà individuale delle persone: le istituzioni devono ricorrere a misure così draconiane solo in circostanze eccezionali e temporanee.
In quella stessa giornata la Grecia imponeva esattamente questo genere di restrizioni, non ai suoi cittadini ma ai migranti che vivono nei campi per lo più sovraffollati e insicuri presenti nelle isole greche al confine con la Turchia.
Per tutto il mese successivo, nell’intento di impedire la diffusione del coronavirus, alle persone costrette in un ottica concentrazionaria a risiedere presso queste strutture recintate da filo spinato è stato concesso di uscire soltanto tra le 7 e le 19, in piccoli gruppi, per procurarsi cibo e altri beni essenziali.
Ben prima di queste misure di emergenza, tuttavia, gli abitanti dei campi erano già di fatto incarcerati, anche se i cancelli restavano quasi sempre aperti e la maggior parte delle persone in realtà viveva all’esterno, accampata in tende negli uliveti circostanti.
Dalla firma dell’accordo UE-Turchia del marzo 2016 un numero sempre più elevato di persone arrivate nel paese è stato imprigionato sulle cinque isole greche individuate dall’UE come hotspot, dove questi individui devono attendere mesi, se non anni, che le loro procedure di asilo vengano prese in carico dalle agenzie greche ed europee.
Durante questa attesa o ‘morte lenta’, come l’hanno definita alcune delle persone migranti che abbiamo incontrato nel corso della nostra ricerca sul campo, le persone bloccate negli hotspot non hanno possibilità di guadagnarsi da vivere, mangiare correttamente, o vivere in sicurezza. Il cibo, che all’interno di questi campi è fornito dall’esercito greco, è ampiamente insufficiente e causa malnutrizione cronica.
Coloro che all’arrivo in territorio greco non sono classificati come ‘vulnerabili’ vengono di fatto costretti a diventarlo a causa delle condizioni vergognose in cui versano i campi, dove dilagano la violenza e gli stupri e mancano le condizioni minime abitative e di sicurezza.
Il timore del coronavirus ha scatenato proteste contro la situazione nei campi, dove le persone vivono concentrate in condizioni igieniche disastrose. In migliaia sono costretti a dividere un unico bagno o un lavandino senza sapone o disinfettante e a metà aprile nel campo di Moria, sull’isola di Lesbos, un bambino è stato ucciso da un incendio.
Le nuove misure imposte da Atene non faranno altro che peggiorare queste condizioni. Invece di fornire loro servizi di cui c’è un disperato bisogno per ridurre il rischio di infezione, le persone migranti saranno ancora più ammassate e i loro movimenti saranno ulteriormente ristretti. Non è solo la loro libertà di movimento a subire delle limitazioni, ma a queste persone viene anche negata la libertà di fuggire per tutelarsi dall’epidemia in atto.
Se, come attualmente previsto, saranno imposte ulteriori restrizioni agli spostamenti senza imprimere alcun miglioramento alle condizioni basilari di vita all’interno degli hotspot, queste strutture, che in sostanza sono campi di concentramento finanziati dalla UE, potrebbero diventare delle vere e proprie trappole mortali. I leader democratici come Merkel non possono continuare ad avallare queste politiche europee di abbandono intenzionale e le loro conseguenze letali.
Per evitare una tale catastrofe si sono immediatamente fatte avanti voci e iniziative politiche. Il 20 marzo due membri del parlamento europeo, Birgit Sippel dei socialdemocratici tedeschi ed Erik Maquardt del partito verde tedesco, hanno ciascuno lanciato una petizione per chiedere l’evacuazione dei campi per rifugiati in Grecia.
Il 23 marzo il Parlamento europeo ha risposto inviando una lettera al Commissario europeo per la gestione delle crisi, nella quale si chiede di evacuare i centri greci. Tuttavia, pur riconoscendo che è semplicemente impossibile attuare il distanziamento sociale e le misure di igiene nei campi, la lettera sollecita soltanto l’evacuazione preventiva delle persone ad alto rischio: anziani al di sopra dei 60 anni e persone con problemi di salute pregressi.
In risposta alla lettera, la commissaria UE Ylva Johansson ha annunciato un piano d’azione per potenziare l’assistenza sanitaria nei campi, attuare misure di isolamento per i malati e gli anziani ed evacuare i minori non accompagnati.
Concentrandosi su questi gruppi vulnerabili, il piano lascia aperta la possibilità che la maggioranza delle persone continui a restare nei campi, abbandonando così una popolazione affetta da malnutrizione cronica in una situazione in cui è impossibile sfuggire ad un virus che sarà letale per almeno una parte di loro (e probabilmente con tassi di letalità molto più alti di quelli riscontrati nel resto della popolazione).
A quanto pare, questa convergenza tra il tentativo di proteggere l’Europa dal coronavirus e gli sforzi in atto da anni con lo scopo dichiarato di proteggerla dai rifugiati sta portando a sacrificare senza troppe cerimonie il diritto delle persone rifugiate a tutelare sé stesse dal virus.
Il coronavirus difficilmente si può considerare l’inizio di una crisi umanitaria e, su un piano morale e politico, di una crisi di umanità. La pandemia rende semplicemente più lampanti queste crisi antiche, non soltanto in Europa.
Gli Stati Uniti gestiscono il più vasto sistema di detenzione dei migranti, con una lunga e inquietante storia di trattamenti inumani e una regolare negazione dell’accesso al supporto legale per le persone richiedenti asilo. Dall’inizio dell’epidemia i detenuti hanno espresso la loro preoccupazione per l’infezione da coronavirus nelle strutture di detenzione dell’Agenzia per le frontiere e l’immigrazione, nelle quali è impossibile rispettare le misure di distanziamento sociale necessarie a rallentare la diffusione del virus. Ci sono già diversi casi di contagio confermati tra detenuti e personale. Circa 60 persone hanno reagito avviando uno sciopero della fame per chiedere maggiori tutele, ma sono state costrette a interromperlo dopo la minaccia di essere sottoposte all’isolamento forzato.
Anche in Australia il tristemente noto sistema di detenzione dei migranti, in parte dislocato su isole distanti dal territorio nazionale in modo da garantire una situazione di perenne impunità per il governo, ha risposto in maniera simile alla minaccia del virus. Nonostante gli appelli per la liberazione dei detenuti da centri in cui non possono essere garantiti controlli sanitari, i funzionari del ministero degli interni affermano che sono già in atto dei piani per la gestione di una eventuale diffusione del contagio.
Le persone rifugiate in queste democrazie occidentali vengono così private non solo della libertà di movimento, e in alcuni casi del diritto di fare domanda di asilo: adesso vengono private anche del diritto a proteggersi dalle malattie.
Se, come afferma Merkel, gli stati democratici dovrebbero impedire la libertà di movimento delle persone solo in ‘circostanze eccezionali e temporanee’ (per chi non è accusato di reati gravi), allora questi non possono avallare politiche permanenti che impongono la detenzione dei richiedenti asilo nelle condizioni che abbiamo descritto. Ancor meno legittimi sono i respingimenti letali contro richiedenti asilo che tentano di raggiungere questi paesi in cerca di sicurezza e sopravvivenza, come quando di recente le forze dell’ordine hanno esploso colpi di arma da fuoco contro persone disarmate che attraversavano un confine.
Se l’epidemia in atto ha una lezione da offrirci, questa è che le istituzioni democratiche non possono continuare a difendere il loro regime di incarcerazione di massa, etichettato con eufemismi come ‘detenzione amministrativa’ o ‘deterrenza alla migrazione’. Si tratta infatti di un sistema che causa morte, lenta o diretta che sia. La speranza condivisa è che, quando l’umanità avrà finalmente superato questa crisi sanitaria globale, cittadini e cittadine dell’Unione Europea potranno ottenere nuovamente la loro libertà di movimento. Ma che ne sarà della libertà per coloro che ne hanno più bisogno?
Questo articolo è il quarto e ultimo contributo di una miniserie con inchieste dall’Italia e dalla Grecia e una panoramica sulla situazione della libertà di movimento all’interno dell’Unione Europea che è stata pubblicata in inglese per la prima volta su Eurozine. La traduzione è a cura di Francesco De Lellis.