20 Maggio 2020
Intervista ad Alberto Bradanini, già ambasciatore d’Italia a Teheran e a Pechino
Nella gestione dell’emergenza coronavirus la Cina ha coniato un modello, nonostante l’iniziale e colpevole ritardo, giudicato assai efficiente da virologi e osservatori neutrali per contenere la diffusione del contagio. Famiglie chiuse in casa per settimane, strade vuote, controllo inflessibile sui movimenti, anche con l’utilizzo di tecnologie avanzate e con scarso rispetto dei diritti di privacy, seguendo principi di cultura politica che non appartengono al mondo occidentale.
In realtà, il successo degli apparati cinesi nella gestione del Covid-19 non si spiega solo con il profilo autoritario del suo sistema. A rendere quel popolo disciplinato e collaborativo con il potere contribuiscono fattori legati alla tradizione culturale e a costumi sociali ereditati dal passato prossimo e remoto.
Ne parliamo con Alberto Bradanini, già Ambasciatore d’Italia a Teheran e a Pechino, ora presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea, il quale ha pubblicato a fine 2018 Oltre la Grande Muraglia uno sguardo sulla Cina che non ti aspetti (Bocconi Editore), un libro che non solo indaga gli aspetti politici, economici e culturali di un gigante geopolitico ancora per molti versi misterioso, ma che ne offre anche un ritratto originale, tessendo una trama di ricordi ed esperienze in presa diretta da lui vissute nei tanti anni trascorsi nel paese.
“La Cina è paese ad apprendimento incrementale, un modello naturalmente orientato verso l’efficienza – osserva Bradanini – un modello che ricalca ancora oggi, sotto le apparenze di una modernità estraniante, la storia e i valori di una tradizione centrata sulla solidarietà e il comunitarismo. È dunque con una favorevole disposizione di partenza che il popolo cinese aveva accolto l’organizzazione sociale dell’ideologia maoista, una disposizione che è poi andata sfumando alla luce degli errori e degli abbagli commessi dal Grande Timoniere a partire dalla fine degli anni ’50 fino alla sua morte.
Ancora oggi, tuttavia, la società cinese resta organizzata secondo una scala piramidale che ne consente una visione d’insieme e all’occorrenza un controllo efficace. Il sistema conosce posizione, occupazione e movimenti di chiunque: caratteristiche sistemiche queste che non sono riscontrabili in altri paesi. Se la Cina non può definirsi un paese totalitario, essa resta tuttavia espressione di un sistema autoritario, le cui articolazione vanno però chiarite. La popolazione nutre un genuino sentimento di gratitudine verso il Partito comunista (Pcc) in ragione di un benessere mai prima sperimentato nel corso della storia pregressa, grazie alle riforme economiche avviate da Deng Xiaoping nel 1978 che aprirono la strada a quella crescita sostenuta che dura tuttora, sebbene oggi a tassi fisiologicamente più ridotti. Nel trade-off tra benessere e libertà, i cinesi sono dunque disposti a sacrificare quest’ultima, soprattutto se il benessere è associato alla stabilità, un valore di prim’ordine in Cina alla luce delle tragiche vicissitudini vissute nel corso del secolo dell’umiliazione (dal 1848 al 1949, o meglio fino all’avvento di Deng Xiaoping nel 1978). La Cina è allo stesso tempo un paese-continente (per la sua dimensione geografica e demografica), un paese-civiltà (per la lunga storia di cui è figlia) e un paese-ideologia (essendo governato da un partito che trae origine dal pensiero di Marx). Alla luce di tale complessità, sono numerosi gli scostamenti di condotta del sistema, dove non tutti hanno tratto benefici dalla crescita economica e dove l’iniqua distribuzione della ricchezza sfida i pilastri ideologici del socialismo. A quanto sopra deve aggiungersi un tema centrale, che appartiene alla sensibilità dell’uomo contemporaneo, a cui il Partito dovrà prima o poi mettere mano, vale a dire il tema della tutela dell’individuo di fronte allo stato e della libertà, una sollecitudine che serpeggia nelle maglie di una popolazione solo apparentemente silenziata dal consumismo e dal benessere di massa.
Ma il successo del modello cinese, applicato ora alla crisi del Covid 19, si spiega solo con questa organizzazione politica autoritaria?
“No, non vi è solo questo in gioco. Nel contesto in esame dobbiamo inserire la tradizione confuciana, che è centrale anche nella società giapponese, coreana, di Taiwan e Singapore, paesi nei quali non a caso, nonostante sistemi politico-sociali diversi, riscontriamo diverse analogie di comportamento, insieme a qualche differenza di sistema, rispetto a quanto fatto dalla Cina per contenere il contagio. Il patrimonio di sensibilità culturale centrato sulla ricerca dell’armonia, ereditato dal pensiero confuciano, vale anche nei confronti dell’autorità, e assume all’occorrenza, come nel caso del Covid-19, il profilo della collaborazione e non dell’antagonismo. Lo spirito confuciano enfatizza il valore della coesione sociale, e la società nel suo insieme funziona a dovere se sono salvaguardate le relazioni fondamentali dell’individuo con la collettività e l’ambiente circostante. Tra queste è fondamentale quella tra cittadino e imperatore (oggi sostituito dal Partito/Stato). Se non rispetta i compiti assegnategli (dal cielo) facendo il suo dovere, anche il potere rischia la sanzione della rivolta (geming, il ritiro del mandato del cielo). Non è dunque una coincidenza che ad Hong Kong, in Vietnam, in Corea del Sud la collaborazione della popolazione sia stata spontanea, e i risultati si son visti: il contagio è stato contenuto in tempi relativamente brevi, e persino il numero dei decessi è stato limitato, stando ai dati ufficiali, sui quali tuttavia molti hanno più di qualche dubbio. Gli esperti cinesi che da Wuhan sono giunti in Italia nelle scorse settimane hanno portato la loro esperienza e si sono affiancati ai colleghi italiani per contenere il virus. A questo fine, sarebbero stati altrettanto o fors’anche più utili esperti taiwanesi (a Taiwan sono stati usati anche dati gps, carte di credito e altre tecnologie avanzate, ndr), i quali hanno raggiunti ottimi risultati in una società sempre confuciana, ma con una demografia e un sistema istituzionale più simili a noi.
Noi italiani saremmo capaci di adottare lo stesso approccio?
Nessun popolo è in grado di modificare i tratti fondamentali della sua identità solo perché si trova a gestire una calamità pur devastante come questa. Possiamo però imparare dagli altri e, nei limiti dell’adattabilità al nostro contesto, acquisire da altri paesi tecnologie e metodologie mediche, comportamentali e organizzative. Quanto alla risposta cinese al virus non si può sorvolare su un rilievo critico che riguarda il ritardo (quelle poche settimane, chissà?, sarebbero state forse cruciali per ridurre la diffusione della pandemia) con il quale la Cina ha preso coscienza e reagito alla gravità di questa evenienza. Un indugio che ha recato nocumento a se stessa e agli altri paesi: se il sistema cinese avesse ascoltato da subito la voce dei medici locali, si sarebbe guadagnato tempo prezioso. Oltre a ragioni, come è ormai noto, di carattere burocratico (la responsabilità a decretare lo stato epidemico appartiene al governo e non alle autorità locali), vi sono state quelle legate alla preoccupazione delle possibili ripercussioni del virus sulla economia. Va tuttavia riconosciuto che, dopo la colpevole passività iniziale, la Cina ha reagito con grande trasparenza, professionalità e determinazione. E certo la struttura socio-istituzionale ha fatto la differenza rispetto ad altri paesi, consentendo una ferrea applicazione delle disposizioni (solo una persona per famiglia, ad esempio, era autorizzata a uscire di casa per la spesa, e solo a giorni alterni).
Come valutare invece il comportamento degli iraniani, che ha avuto modo di conoscere nei suoi cinque anni da ambasciatore a Teheran?
Cultura e abitudini sociali degli iraniani – le cui caratteristiche identitarie sono lontane dal mondo cinese – sono assai più simili a quelle europee, e in particolare alle nostre. Diversamente da quanto avvenuto in Italia, tuttavia, confusione socio-istituzionale nella gestione del virus, forti ritardi e scarsa trasparenza da parte degli apparati iraniani si spiegano soprattutto con la preoccupazione della dirigenza iraniana per la stabilità del sistema. Ancor più in una fase di sofferenza economica e sociale in ragione delle perduranti sanzioni americane, il regime vive come un incubo qualsiasi evento suscettibile di diffondere agitazione presso la popolazione, generando inquietudine e dunque possibili reazioni. Il clero politico e il suo braccio secolare (i guardiani della Rivoluzione, noti anche con il nome di pasdaran) temono che le ragioni di malcontento possano coagularsi e raggiungere massa critica, sebbene se non sembrano esistere le condizioni (sia sul piano dell’elaborazione politica che dell’organizzazione empirica) per pronosticare un’altra rivoluzione dopo quella del 1979. Non si dimentichi inoltre l’elevata efficienza repressiva del regime, come si è visto nel 2009 e poi nel 2018-2019. Di fronte a una scena politica complessa e apparentemente senza vie d’uscita, il solo percorso auspicabile sarebbe stato l’attuazione dell’accordo nucleare voluto da Obama nel 2015 (e mandato in fumo da Donald Trump), che avrebbe aperto la strada alla cooperazione internazionale sul piano economico, commerciale e culturale, alimentando persino la speranza di qualche spiraglio verso una diversa evoluzione politica. Forse è proprio questo sviluppo che Donald Trump ha inteso arginare, poiché la politica regionale dello stato profondo statunitense segue obiettivi nascosti che sembrano seguire i principi della teoria del caos, dividere amici e nemici, alimentando divisioni e conflitti, a tutela della bulimia espansionistica dell’ideocrazia americana. In questo triste contesto, solo il tempo potrà dire in quale misura potranno essere rimarginate le profonde fratture oggi esistenti tra il popolo iraniano e il suo regime.