Rilfessioni su denaro e quarantena

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23 Maggio 2020

Il lockdown ha stravolto la maggior parte delle nostre abitudini, anche quelle più intime, legate al rapporto con il tempo, lo spazio e il corpo.

Alcune di queste pratiche sono parte di una routine così automatizzata e inconscia che non ci pensiamo neanche più. In quarantena, abbiamo guardato gli oggetti quotidiani con occhi nuovi, è certo. Lo hanno detto in tanti, sotto tantissimi punti di vista.

Le relazioni umane e le pratiche della vita quotidiana sono cambiate, schermi dove prima c’erano occhi, guanti e mascherine a coprirci e proteggerci.

Anche gli ambienti in cui trascorriamo il tempo si sono ridotti drasticamente. Stefano Mancuso ha fatto notare come questa esperienza ci avvicini alla comprensione della vita delle piante, che si muovono senza potersi spostare, sono attentissime alle risorse disponibili nelle immediate vicinanze e a ciò che succede intorno a loro.

L’aspetto della vita materiale che ha catturato di più la mia attenzione, forse sintomo di una leggera ipocondria, è la relazione con oggetti che provengono dall’esterno: la busta della spesa, le chiavi di casa, le scarpe, il denaro.

In casa mia regna un regime molto severo, lo ammetto. La procedura per uscire e rientrare a casa prevede: spogliarsi in balcone, ripetuti lavaggi di mani, appoggiare gli oggetti su un apposito ripiano e pulire tutto con l’alcol, recuperato dopo estenuanti giri tra i negozi bengalesi della zona.

Banconote e monete sono state in qualche modo esiliate, allontanate dal mio corpo. Questa circostanza ha per certi versi cambiato, fosse anche in minima parte, il mio rapporto coi soldi.

Scambiare e utilizzare denaro è un gesto scontato, anche quando non abbiamo soldi è difficile immaginare o mettere in pratica alternative.

L’antropologo David Graeber si è speso tantissimo per decostruire la necessità di questo rapporto sociale e dimostrare che il denaro, i debiti, la compravendita e l’economia come sfera separata della vita sociale non sono sempre esistite. Tuttavia è una pratica così radicata nel comportamento da sembrarci ovvia e naturale. In altre parole embedded, come la scrittura o l’uso di un paio di scarpe.

Il denaro potrebbe essere definito come una grammatica sociale che tutti conosciamo. Ha plasmato e si è adattato al pensiero e alle società umane in modo capillare. Contro di lui sono state lanciate imprecazioni e accorate benedizioni.

Se volessimo seguire Bruno Latour, e adottare un approccio estremamente inclusivo verso le specie animali, vegetali e verso tutti quegli agenti non-umani che fanno parte del nostro ambiente, anche il denaro potrebbe avere un agency ed essere paragonato a una specie invasiva e parassitaria. Per esempio un piccione.

Specie contro cui – per inciso – in casa mia vige una profilassi altrettanto minuziosa, visto che siamo impegnati in una lotta per disinfestare un balcone che, dopo anni di semi-abbandono, ha dato i natali a generazioni di questi testardi e disgustosi animali.

Ma il denaro non è solo questo, è parte di un sistema di relazioni socio-economiche, è uno strumento ideologico e di governo, è un simbolo di successo o di fallimento…

Nella sua materialità non è sempre stato uguale a se stesso e non avrà per sempre la forma che conosciamo oggi.

Le carte di credito, i sistemi di pagamento online, l’abitudine di comprare a rate hanno già reso in parte obsoleti i contanti. E per due mesi l’oggetto denaro è quasi scomparso dalla mia vita.

Da un certo punto di vista è stata una perdita, perché insieme a lui sono scomparse una quantità di cose e avvenimenti che lo accompagnavano. Ma una perdita accompagnata da un vano e fugace senso di liberazione. Utopisticamente, mi sono trovata un passo più vicino all’immaginare che un giorno il denaro potrebbe non esistere più e l’economia essere guidata da regole completamente nuove.

Il Covid-19 rappresenta una crisi senza precedenti per il nostro modello sociale, è l’esperienza traumatica più invasiva che le società occidentali si trovano a vivere dopo la seconda guerra mondiale. Per alcuni un nuovo undici settembre, per altri un passaggio cruciale nella critica e nella lotta al modello di sviluppo neoliberista e antropocentrico.

Personalmente non sono tra quelli che elogiano il lockdown come occasione di crescita, sono sempre stata scettica verso chi diceva che da questa esperienza saremmo usciti migliori, come individui e come società. Per me l’epidemia assomiglia più a un abisso che a un portale.

Tuttavia mi chiedo come potremmo trarre beneficio dal potenziale creativo della distruzione, dalla molteplicità di situazioni e sensazioni nuove, dalle abitudini stravolte, dalla rinegoziazione di rapporti con cose e persone che davamo per scontate. La mia impressione è che questo insieme di esperienze costituiscano una matassa di saperi nuovi, una materia ancora inerme da lasciar germogliare e innestare nelle nostre relazioni.

A pensarci bene queste conoscenze, estremamente personali ma significative e condivisibili su larga scala, potrebbero davvero diventare uno strumento potentissimo per il riconoscimento reciproco tra individui e gruppi diversi e lontani.

Per farci largo nella storia e orientare processi di trasformazione e libertà abbiamo bisogno di unirci, aprirci verso l’esterno e prenderci cura della diversità all’interno. In molt* sentiamo l’urgenza di tornare a sentirci parte di collettività culturalmente inclusive e politicamente incisive.

Forse una pista da seguire potrebbe essere quella di mettere in comune il vissuto, i bisogni, le idee e le emozioni scaturite da questa situazione così sconvolgente e inaspettata; e utilizzare tutto ciò come ceppi di legna secca da gettare tra le fiamme del cambiamento.

ps. non vi preoccupate il balcone dei piccioni non è lo stesso dove metto i vestiti.

foto di Naoki Tomasini, dal progetto Money Talks