Egitto, tra realpolitik e corsa agli armamenti (italiani)

di

11 Giugno 2020

Le spese militari di al-Sisi per un’agenda interna ed esterna sempre più fitta

Si parla molto, in questi giorni, di come l’Egitto stia facendo la spesa all’ingrosso di armi ed equipaggiamenti militari in Europa, in particolare in Italia. Non è una novità e non è casuale: il governo di Abd al-Fattah al-Sisi prova a giocare un ruolo centrale nella regione mediorientale e mediterranea, fino al Corno d’Africa. E anche sul fronte interno le operazioni militari sono all’ordine del giorno.

Fin dalla discussa e violenta rimozione del primo presidente democraticamente eletto Mohammed Morsi nel 2013, percepita come un’imperdonabile ingiustizia dai Fratelli Musulmani (che stavano però già iniziando a lottizzare posizioni di potere e sindacati) e dalle fasce più tradizionaliste della società egiziana, c’è stata una grave recrudescenza delle violenze di origine fondamentalista nella regione del Sinai, con una serie di attentati terroristici (perpetrati da gruppi spesso affiliati a ISIS o al-Qaeda) e reazioni dell’esercito di cui non si intravede la fine: ultimo in ordine di tempo l’attacco a un blindato a sud Bir al-Abd ad aprile, in cui sono rimasti uccisi 10 soldati.

Secondo alcune voci, l’attentato sarebbe stato anche una forma di rappresaglia per la popolarissima serie tv Al Ikhtiyar (“La scelta”), ispirata alla storia realmente accaduta del colonnello Ahmed El-Mansy, caduto nel 2017 per mano degli estremisti che stava combattendo nell’area di Rafah. Un martire ed eroe nazionale, secondo gli autori della serie e la propaganda nazionalista. Un takfir al servizio del regime, secondo gli oppositori.

Un’altra serie molto in voga durante il mese di Ramadan appena concluso, pubblicizzata come prima serie fantascientifica mai realizzata in Medio Oriente, è Al Nihaya (“La fine”), ambientata in un immaginario 2120 in cui Gerusalemme è stata “liberata” da una coalizione araba.

Ma nella realtà il regime egiziano, forte dei pilastri (militare e geopolitico) di cui sopra, fa affari senza precedenti con Israele.

Poco importa che la gente comune non abbia ancora dimenticato la guerra del ’73: la realpolitik di al-Sisi, forte dell’iniqua ma innegabile crescita economica (+5,5% nel 2019), non sembra curarsi dell’approvazione popolare.

Così, per risolvere una vecchia controversia giudiziaria risalente al periodo post-rivoluzione e rafforzare la propria candidatura a polo di riferimento per il gas nel Mediterraneo, l’Egitto ha firmato uno storico accordo per l’importazione di gas da Israele; e questo nonostante il giacimento offshore di Zohr, scoperto nel 2015 dall’Eni, con i suoi oltre 2,7 miliardi di piedi cubi di gas al giorno superi abbondantemente il fabbisogno interno egiziano.

Le redini dell’economia rimangono saldamente nelle mani dell’esercito: a beneficiare più di ogni altro stakeholder all’accordo di cui sopra, guarda caso, sarà East Gas, il cui proprietario di maggioranza è il servizio di intelligence generale egiziano. Che è anche partner di Dolphinus Holdings, l’azienda che ha materialmente siglato il contratto di acquisto del gas israeliano.

Insomma, l’élite militare del Paese continua a fare il bello e il cattivo tempo e a ingrassare la sua rete clientelare, in barba alle pretese del Fondo Monetario Internazionale: il piano per la quotazione in borsa alcune aziende di proprietà militare, che prevedeva la vendita di quote di minoranza di 23 società statali per raccogliere fino a 5 miliardi di dollari, è stato ripetutamente rinviato, e il sopraggiungere di questioni più pressanti come la pandemia di Covid-19 lo faranno scivolare ulteriormente in basso nell’agenda governativa.

Se quella di al-Sisi è realpolitik, non può che rientrare in questa definizione anche la politica attuata dal nostro Paese nei confronti dell’Egitto: mentre le richieste di verità per Giulio Regeni sono demandate a occasionali vagiti diplomatici, sul piano commerciale e militare il rapporto sembra andare a gonfie vele: nel 2019 l’Egitto è stato il primo cliente dell’industria bellica italiana, con commesse per la cifra record di 871,7 milioni di euro (in gran parte per elicotteri della Leonardo). E ci si aspettano cifre ancor maggiori per il 2020 se Fincantieri concluderà il contratto per la cessione di due fregate Fremm, originariamente progettate per la marina italiana, del valore di 2 miliardi.

In totale, secondo il Sole 24 Ore, i contratti di forniture militari tra il nostro Paese e l’Egitto potrebbero raggiungere i 9 miliardi di euro, comprendendo – secondo altre fonti – anche pattugliatori d’altura, caccia e sistemi satellitari.

Acquisti che, abbinati a quelli di sottomarini tedeschi e jet americani, russi e francesi, illustrano una volta di più l’ampiezza delle ambizioni geopolitiche del Cairo. Non a caso il generale al-Sisi, in presenza di Mohammed bin Zayed, principe ereditario di Abu Dhabi (che ha contribuito finanziariamente), ha da poco inaugurato la rinnovata base di Berenice, nei pressi del confine con il Sudan, la più grande base militare egiziana sul Mar Rosso e una delle più grandi della regione.

E non è finita: al-Sisi avrebbe raggiunto un accordo con il governo del Sud Sudan per la costruzione di una base militare a Pagak, al confine con l’Etiopia, e un altro con il governo dell’Eritrea per la costruzione di una base sull’isola di Nora.

Per un Paese che, tra Israele e Libia, ha la priorità della difesa militare. E se con lo Stato ebraico le attuali parole d’ordine sono distensione e collaborazione, sul confine occidentale la partita tra Fayez al-Sarraj e Khalifa Haftar non è ancora del tutto chiusa.

Ora che il governo riconosciuto dalle Nazioni Unite sta avendo la meglio, l’Egitto sta cercando in tutti i modi di salvare il salvabile con offerte di cessate il fuoco e creazione di un nuovo consiglio presidenziale. Haftar, infatti, in quanto leader militare ostile all’islam politico e intenzionato a ignorare le istanze della Primavera Araba, ha certamente molto a che spartire con al-Sisi, non da ultimo il petrolio della “sua” Cirenaica.

Una posizione che contrappone apertamente l’Egitto alla Turchia, tanto che, nei giorni in cui Erdogan ha inviato contingenti di mercenari a Tripoli in sostegno del Governo di Accordo Nazionale, alcuni media egiziani non hanno esitato a titolare: “L’invasione è iniziata”. E anche in questo caso la contrapposizione è tutt’altro che puramente ideologica: Ankara ha stretto con Al-Sarraj un accordo sulle frontiere marittime fortemente contestato dal Cairo e Tel Aviv, poiché disconosce gli accordi di demarcazione delle frontiere marittime in essere tra Egitto, Israele, Grecia e Cipro. I quattro Paesi del Mediterraneo orientale, insieme a Italia, Giordania e Autorità Palestinese, si sono dotati di una piattaforma istituzionale con la creazione dell’East Mediterranean Gas Forum, i cui rappresentanti si sono riuniti a gennaio proprio al Cairo.

Il forum punta molto ambiziosamente a diventare una sorta di OPEC del gas di cui la Turchia, al momento, è solo spettatore, se non addirittura antagonista. Per questo, l’Egitto si sta tutelando con l’acquisto (in particolare da Italia, Germania e Francia) di sofisticati sistemi di protezione delle infrastrutture del gas.

Ma non è questo l’unico fronte su cui l’Egitto sta combattendo una battaglia (per ora solo commerciale e diplomatica) per le risorse: quella forse simbolicamente più importante sta avendo luogo a sud: dal 2011, infatti, l’Etiopia è impegnata nella costruzione della “Diga del Millennio” sul Nilo Azzurro, la cui sorgente si trova nel nord del Paese. Un bacino che, una volta ultimato, sarà lungo 18 chilometri e profondo 155 metri, con una produzione stimata (secondo alcuni con eccessivo ottimismo) di 6000 megawatt.

L’Egitto ha il giustificato timore che la diga comporti una riduzione del gettito delle acque del Nilo, ma Addis Abeba assicura il contrario; e di mezzo c’è il Sudan, che beneficerebbe di un controllo delle inondazioni e di elettricità a buon mercato ma avanza obiezioni di natura legale, tecnica e ambientale.

L’inflessibilità di Egitto ed Etiopia e le titubanze del Sudan (dovute – pare – anche a divergenze tra le sue stesse forze di governo) hanno sbarrato la strada a qualsiasi accordo, anche parziale, ma l’Etiopia continua a pianificare un primo riempimento della diga per l’estate 2020 e l’Egitto ha messo di mezzo persino le Nazioni Unite.

Un accordo, alla fine, si troverà, ma è difficile prevedere quando e in che termini. Anche in questo caso ci sono di mezzo consistenti commesse per aziende italiane, su tutte la Salini Impregilo.