Quale può essere il ruolo dell’arte in tempi di pandemia e dissesto ambientale? Ne parlo con Caterina Morigi, fra gli artisti più originali del panorama contemporaneo, in grado di spaziare dalla pittura alla scultura, dalla fotografia alla videoinstallazione.
Nata nel 1991 a Lugo, in provincia di Ravenna, una laurea in Arti Visive allo IUAV di Venezia, Caterina ha da poco pubblicato Honesty of Matter – Sincerità della Materia, con Witty Books, casa editrice di Torino (città in cui Caterina vive e lavora).
Il libro raccoglie le sue opere più note ed è un’indagine poetica sul rapporto tra uomo e natura – intesa come luogo antico, primario, un’orma da cui tutti proveniamo.
Le tue opere abbondano di riferimenti letterari – spesso i titoli o le descrizioni sono citazioni prese da Wislawa Szymborska o da Silvia Bre – ma nel tuo processo di creazione c’è anche una componente molto concreta, tanto che fabbrichi tu stessa il marmo delle tue sculture. Da un lato troviamo l’ispirazione letteraria, dall’altro un’attenzione verso la materia degna di un geologo. Come dialogano questi due universi nella tua poetica?
Per me ogni opera d’arte deve lasciare spazio al mistero. Questo è il motivo per cui nei miei lavori c’è una forte componente tecnica, un’attenzione da geologo, come dici tu, e allo stesso tempo sono presenti anche riferimenti letterari. Certamente la tecnica è il punto di avvio del lavoro, soprattutto quando mi confronto con la scultura: non so dal principio di cosa voglio parlare, lo scopro attraverso la tecnica, la modellazione dei materiali. Che si tratti della porcellana, dell’opus sectile romano, oppure del marmo artificiale di Rima, per me sperimentare concretamente queste tecniche è sempre un processo di scoperta. Solo attraverso l’atto pratico nascono le idee, i progetti.
Questo è un aspetto, insomma, poi per i titoli dei miei lavori prendo in prestito le parole di altri, delle scrittrici che amo, perché la poesia racchiude quell’aspetto impalpabile dell’arte, della vita, che per me è fondamentale. Una buona opera non è mai didattica: al cuore deve rimanere qualcosa di fumoso, qualcosa che da un lato ti attrae e dall’altro non comprendi fino in fondo. Deve rimanere l’apertura della poesia, in cui ognuno può trovare la propria interpretazione, i propri punti luminosi.
Tutte le tue opere conducono un’indagine sulla natura: in Sarò la lentezza del pensiero fotografi il fiume Reno durante il momento di massima piena, mentre in Geode dipingi interi quaderni ispirandoti alle configurazioni dei cristalli. Talvolta invece ti confronti direttamente la roccia, rendendo visibile il processo di erosione, e dunque la natura è la materia stessa del tuo operare. Quanto influiscono i cambiamenti che stiamo vivendo e le riflessioni sul dissesto climatico, nel tuo lavoro?
Sono molto attenta a queste riflessioni, per necessità e per interesse, ed è inevitabile che ne venga influenzata. Parteciperò a una mostra al Museo della Montagna che sarà proprio incentrata sul tema dell’emergenza ambientale. All’origine del mio lavoro però non c’è un intento di allarme, piuttosto un approccio propositivo: a volte ce ne dimentichiamo ma noi facciamo parte della natura, sia che la si intenda nei suoi aspetti più minuti che nei grandi sconvolgimenti. Da parte mia non c’è mai un giudizio, quanto un atto di osservazione profonda, un accogliere e mostrare qualcosa che esiste sotto i nostri occhi. Intendo portare l’attenzione verso il particolare, l’infinitamente piccolo, svelare connessioni.
Parlando di connessioni, nel tuo libro d’artista Honesty of Matter utilizzi la fotografia per rintracciare somiglianze tra l’epidermide umana e le texture presenti in natura. Suggerisci implicitamente che siamo tutti rivestiti da un’unica superficie. Vorrei che mi parlassi di queste “rime eidetiche”, come le definisci tu, tra uomo e natura, soprattutto ora che immaginare un dialogo tra uomo e natura ci sembra molto difficile…
Il libro è nato proprio con questo intento, di parlare del rapporto tra uomo e natura osservando le superfici, sempre tenendo in considerazione che porre attenzione alla superficie non significa avere sguardo “superficiale”; al contrario, può innescare suggestioni molto profonde. Come civiltà umana ci siamo affidati alla pietra perché è un materiale solido, siamo portati ad attribuirle caratteristiche di eternità, eppure la pietra – esattamente come la pelle umana – registra le tracce del tempo. Ho esplorato questa somiglianza già nella copertina del libro, dove ho eseguito un collage digitale, sovrapponendo alla scansione di un marmo bianco toscano fotografie dell’epidermide umana. Il risultato è che i nei, le cicatrici, le tracce lasciate sulla nostra pelle dal Sole e dal tempo, si fondono con le tracce biologiche della pietra, con le sue stratificazioni che rimandano a un tempo altro, più antico.
Parliamo dei tuoi laboratori di arte partecipata. Spesso senti l’esigenza di aprire le porte del tuo studio e di creare insieme ad altre persone, soprattutto bambini. Da dove nasce questo interesse?
Proprio prima che scattasse il lockdown stavo lavorando a Back to the stars, un progetto che porto avanti da anni e in cui esploro un aspetto trascendente: la vita prima della vita. Non è raro che i bambini abbiano ricordi del luogo in cui si trovavano prima di nascere, e questi ricordi rimandano spesso a un’atmosfera celeste. Conduco laboratori con bambini in età prescolare portandoli a esplorare proprio questo aspetto, e i disegni che ho raccolto fino ad adesso sono meravigliosi, c’è qualcosa di magico che si coglie mettendoli tutti insieme. La mia idea è di creare un racconto visivo, raccogliere questi disegni in un libro e realizzare una narrazione di pure immagini, esplorando l’idea che i bambini siano in contatto con il luogo in cui eravamo, e forse ritorneremo.
Sempre riguardo ai tuoi laboratori, i risultati di queste esperienze sono lavori collettivi: tu guidi i partecipanti, ma poi il risultato è il frutto di una sinergia. In un momento in cui i musei sono costretti a ridefinirsi, credi che questa sia una strada percorribile, che il ruolo dell’artista per il futuro possa essere proprio questo, creare comunità?
Sì, credo sia molto importante tornare ad avere un rapporto con le opere più diretto, partecipativo. Nella mia esperienza il dialogo, lo scambio, il fatto di stabilire relazioni, sono aspetti fondamentali. Per realizzare le opere spesso mi affianco a grandi maestri della scultura, mentre quando progetto le mostre mi baso molto sul confronto con i curatori. Lo stesso vale per i laboratori, che si basano sempre sulle relazioni, sullo scambio, sono aspetti imprescindibili e ora abbiamo bisogno più che mai di fare gruppo. In fondo l’arte è solo un modo per prestare attenzione, accorgersi di ciò che ci sta intorno, averne cura. Forse si tratta solo di questo, avere cura del mondo.