18 Agosto 2020
Il progetto fotografico di Valeria Sacchetti, l’Emilia e il west
Un road movie che racconta il sogno oltre le frontiere della pianura, immerso in un microcosmo, dove i giorni scorrono lentamente. Un posto dove il tempo è frammentato, sfocato e onirico, l’acqua ha la sua musica e sussurra le storie degli abitanti.
Journey to the lowlands di Valeria Sacchetti, è un reportage fotografico che vive di legami familiari, di radici, paesaggi bucolici, luoghi e animali abbandonati. Lì, in quell’Emilia, dove tutto scorre e tutto rimane. Una geopoetica della pianura emiliana che è fatta di terre sotto il livello del mare, racchiuse da catene montuose e solcate da fiumi che straripano durante la stagione invernale. I sogni di un’Emilia rossa sono ormai svaniti, il terremoto ha falciato gran parte dell’area, la disoccupazione e l’alcol si sono occupati del resto.
Solo una fitta nebbia rimane di quel mondo contadino scomparso che, spiega l’autrice, “non dovrebbe essere cercato, ma deve essere sentito spiritualmente.” Il progetto, cominciato nel 2013 e ancora in corso, quest’anno è arrivato finalista al Kolga Tiblisi Photo Award e al Trieste Photoday Festival, mentre ha vinto il Monovision Photography Awards e la prima tappa di Portfolio Italia 2020 – Gran Premio Fujifilm grazie a, scrive la giuria, “l’umanità unica, straordinaria, al tempo stesso vera nella sua quotidiana semplicità unita a un linguaggio poetico che riunisce le singole entità in un canto corale.”
Journey to the lowlands. Cosa racconta il tuo viaggio fotografico oltre la frontiera della pianura?
Il lavoro nasce nei primi mesi del 2013, allora la mia intenzione era quella di documentare le famiglie di quelle zone. Ero tornata a vivere in Emilia dopo parecchi anni di assenza e mi ero resa conto che la crisi economica, il terremoto del 2012 e la disoccupazione avevano cambiato radicalmente la vita di molte di loro. Dentro di me però stava nascendo il desiderio di andare oltre,
per esempio mi sarebbe piaciuto seguire il tema dell’insorgenza dei tumori a causa del forte inquinamento. La pianura Padana infatti ha il triste primato di essere uno dei luoghi più inquinati d’Europa, se non del pianeta. Seguendo una master class con il fotografo Giancarlo Ceraudo a Roma, parlando con lui del lavoro e raccontandogli alcune suggestioni che queste terre mi hanno sempre evocato, ho seguito la frase “il far west della pianura”. Perché essendo nata e cresciuta qui
ho da sempre coltivato lo stato d’animo di trovarmi in un luogo particolare. Questi territori rappresentano una frontiera, uno spartiacque tra Nord e Sud, un limes che già dall’antichità segnava il confine dell’impero romano. Inoltre questo posto è da sempre stato visto solo come un luogo di passaggio, un valico da attraversare, e proprio per tale ragione ancora sconosciuto e selvaggio. Ho così tralasciato un filone unico per unire in un unico lavoro l’esperienza di vita degli abitanti delle terre basse, i lowlander appunto: ho cercato quindi di unire in un corpus unico i legami famigliari, la vita quotidiana, le stagioni, lo scorrere del tempo intrecciandoli ai sogni delle persone che vivono immerse nella campagna circostante.
Cosa accomuna gli abitanti, i personaggi, le storie della bassa emiliana? Chi sono nei tuoi scatti?
Il filo rosso che accumuna le mie storie è la terra dove queste persone sono nate, o sono venute a viverci per svariati motivi, spesso per immigrazione. La maggior parte di loro ormai fa parte del paesaggio nel senso che paesaggio e genere umano si sono fusi insieme e raccontano le storie.
Sono storie di anni che si ripetono e dove le stagioni interagiscono tra di loro: la nebbia, le acque dei fiumi, il freddo d’inverno spesso con acque che tracimano, i campi di grano d’estate, il caldo opprimente e il fresco dei pioppeti, le case abbandonate, le roulotte abitate dai terremotati, le case di campagna, e tanti altri luoghi raccontano storie di un’umanità che ha tanti pensieri ma anche tanti sogni, ognuno ha il suo, indipendentemente dall’età. Nei mie scatti ci sono loro e c’è il loro mondo, a volte reale a volte sognato o immaginato. Questo sentire di essere trasportati altrove, come in un’altra dimensione, è un grande potere che ha la fotografia. è capitato che per un istante io e i miei soggetti siamo andati davvero in un altro luogo, pur rimanendo sempre qua, nella nostra pianura.
Parli di un’Emilia cambiata: di un “sogno rosso” evaporato, del terremoto, di disoccupazione, alcol, inquinamento. È così? Tu sei nata in questa terra, che cambiamenti hai visto in questi anni?
L’Emilia è una terra che per antonomasia “non ha difetti”. Qui nell’immaginario collettivo tutto funziona, tutto va bene e gli abitanti vivono serenamente. Mi è capitato spesso di pensarla allo stesso modo, soprattutto quando ero ragazzina e vivevo il boom degli anni ’80, ma allora per fortuna vennero i Cccp a farmi vedere il lato oscuro della luna. Ogni città aveva la sua punta di
diamante: Mirandola il biochimico, Carpi il distretto della moda, Modena ruotava intorno alle fonderie dove anche mia madre lavorava, Reggio Emilia l’industria chimica. E intorno a tutto questo una campagna in fase di sviluppo, ma sempre il motore portante della zona. Quel periodo che nasceva da una base sociale e politica nata prima della seconda guerra mondiale dalle lotte contadine delle leghe rosse, dalla costituzione di una forte base operaia sindacalizzata all’interno
delle fabbriche e poi dopo la guerra dai valori e dalla solidarietà che aveva costruito la Resistenza, sembrava un mondo incrollabile. Inoltre i servizi sociali erano un fiore all’occhiello e anche la scuola pubblica aveva saputo trovare nuovi spazi e nuove strategie che erano diventati un esempio da seguire al di fuori della Regione.
La crisi del 2008 però ha rotto questo equilibrio e il terremoto ha scoperchiato un mondo che probabilmente nessuno voleva vedere: le mafie si erano già da tempo infiltrate nel territorio, ma solo queste “scosse” che le hanno portate alla luce definitivamente. Come in tutte le società dove il precariato e la disoccupazione diventano il pane quotidiano è facile che l’alcool attecchisca meglio; lo smarrimento con cui molte persone hanno dovuto fare i conti è calato come una nebbia, che da una parte ovatta i pensieri e dall’altro produce un senso di fragilità e inquietudine da cui a volte è difficile scappare.
Però porti l’attenzione anche sulla natura, i legami familiari, gli animali. Cosa si salva? Cosa sopravvive?
La bellezza della natura e degli animali, non ancora contaminata da fabbriche, inceneritori e nuovi appartamenti sempre più piccoli e scomodi, la cercano in tanti. Sempre più giovani o meno giovani decidono di spostarsi a vivere in campagna con le loro famiglie, per dare ai figli quello che forse loro non hanno avuto. C’è un ritorno alla terra, a un bisogno di socialità che non sia fatta solo di locali e aperitivi, ma di momenti da condividere intorno a un fuoco o seduti sotto un pergolato.
Questo luogo offre un tipo di vita che nelle grandi città non è possibile, qui ci si conosce quasi tutti se non per via diretta almeno per sentito dire e questo ti salva, soprattutto nei momenti di bisogno. È un popolo generoso, tenace, silenzioso perché proviene da un mondo contadino che ancora resiste. L’insegnamento dei nostri antenati vive ancora come un eco lontano. Chi riesce a sentirlo si salva.
Quanto hai lavorato questo progetto? Come hai trovato le persone e le storie che racconti?
A dire la verità al progetto ci sto ancora lavorando, quest’estate lavorerò sulle ultime storie, e così quando lo finirò saranno passati sette anni. A me piace pensare che le persone e le loro storie non le ho cercate ma mi hanno cercata loro, tanta era la voglia di venir fuori. In tutto questo tempo ho conosciuto nuove persone, ho rincontrato vecchi amici e amiche, ho stretto nuovi rapporti
d’amicizia, altri sono finiti, la mia vita è cambiata insieme a quella degli abitanti della pianura. Poi ci sono tutte le persone che durante e dopo il terremoto mi hanno permesso di documentare i danni che ancora permangono. Mentre il lavoro procedeva così fluidamente ho capito che stavo andando nella direzione giusta e che quello che stavo facendo era necessario non solo a me ma a tutti quelli che sono diventati parte di questa storia.
C’è qualcosa nell’immaginario dell’Emilia che da sempre la accomuna alle pianure americane, alle province solitarie degli Stati Uniti. Anche nelle tue fotografie questo parallelismo emerge. È così?
Quando Francesco Guccini scriveva “Tra la via Emilia e il West corrono campi, campagne, vecchi pollai autogestiti e facce convinte a metà”, omaggiava un territorio nel quale era nato e cresciuto Metteva in evidenza come l’immaginario di questi luoghi sia appunto il far west americano, ma poi in realtà si ha a che fare con una realtà che convince a metà, che non è quella.
Il filone americano è comparso come linea guida da seguire, perché anche a me queste terre hanno sempre ispirato quelle atmosfere. Ho sempre amato la letteratura americana di Steinbeck, in particolare “ Furore” e “ Pian della tortilla”, la trilogia di Kent Haruf “Canto della pianura” per l’attenzione che gli autori mostrano nei confronti del mondo dei più umili e dei soprusi che devono
affrontare. In quei libri però viene anche fuori un’umanità nascosta, fatta di piccole storie quotidiane, che mi affascinavano per la loro semplicità e durezza. Il mondo contadino della bassa è poi ricco di libri e di poesie, mio padre che ha sempre avuto una forte vena poetica, per tutta la vita ha omaggiato questo mondo nei suoi scritti. I piccoli mondi immersi in una natura potente sono sicuramente i miei soggetti preferiti, penso ad un film argentino che era passato solo nelle sale
d’essai, “ Piccole storie”, nel quale si narrano tre storie di persone che vivono nella Patagonia: è un piccolo gioiello di arte e poesia, che mi ha ispirato nella costruzione del lavoro, nonostante il paesaggio sia assolutamente diverso. E poi Quentin Tarantino, Sergio Leone e il lavoro di grandi fotografi come Dorothea Lange (per la capacità con cui è riuscita a documentare la crisi del 1929
nell’America rurale più profonda e sconosciuta) e Bruce Davidson della Magnum ,(per la delicatezza con cui ha saputo raccontare tante storie diverse, una tra tutte “The Brooklyn Gang”).
“Look out the window. And doesn’t this remind you of when you were in the boat? And then later that night, you were lying, looking up at the ceiling, and the water in your head… was not dissimilar from the landscape, and you think to yourself: Why is it that the landscape… is moving, but… the boat is still?”
Descrivendo il tuo reportage citi Dead Man di Jarmush, perché?
La metafora del viaggio, del movimento (sia esso consapevole e volontario oppure costretto o imposto da altri) che il protagonista compie, è quella di ognuna di noi. Mi sono identificata con questo personaggio perché compie un viaggio fuori e dentro se stesso, all’interno di una natura ancora incontaminata dove il male è rappresentato da un mondo industriale che divora le persone e da un razzismo becero che rinnega le proprie origini indiane mentre il bene prende il corpo di Nessuno, la vera guida spirituale del viaggio. Anch’io mi sono trovata costretta, per varie ragioni, a tornare in questi luoghi e se da un iniziale rifiuto, che ho sempre avuto riguardo a queste terre, ho dovuto subire una metamorfosi, soprattutto spirituale. Pur viaggiando senza una vera guida di riferimento mi sono imbattuta in questi anni in molte situazioni dure: la morte di un’amica per assassinio, rimanere sfollata per il terremoto, la fine di una relazione a cui tenevo molto, la solitudine, la durezza di un lavoro quotidiano non sempre sereno e infine la morte di mio padre. La morte mi ha aiutata a capire quanto ci sia di vero qui: un mondo contadino che ancora resiste a un capitalismo divoratore, e l’animo di certe persone, che con saggezza e ironia mi hanno accompagnata in questo viaggio.
Valeria Sacchetti è nata a Modena e si è laureata in Storia all’Università di Bologna. Ha realizzato reportage per giornali e riviste in Cile, Argentina, Francia, Messico, Iraq e Bosnia. Dopo un master alla Scuola Romana di Fotografia, si è dedicata a “Home sweet home”, progetto sui centri antiviolenza di Carpi e Reggio Emilia, e “Generazione resistente”, un lavoro di dieci anni sulla Resistenza modenese. Dal 2013 sta lavorando a “Journey to the lowlands”. Attualmente fa parte del Collettivo fotografico Contrails e vive a Roma.