Il paradosso green del Costa Rica

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27 Agosto 2020

Celebrata dai media, un’economia con molte zone d’ombra, soprattutto per le fasce più fragili della popolazione

Negli ultimi anni, il Costa Rica è spuntato nella maggior parte di liste di avanguardia del mondo: indice di felicità, rispetto dei diritti LGBT, paese di pace senza eserciti, paesaggi mozzafiato e per l’impronta ecologica incredibilmente bassa grazie all’uso consapevole delle energie rinnovabili.

Carlos Manuel Rodriguez, il ministro dell’ambiente costaricano, aveva annunciato lo spostamento della COP 25 per il cambiamento climatico proprio a San José in Costa Rica. Ma la pressione politica dei manifestanti che riempivano le strade chiedendo di mettere fine alla disuguaglianza sociale ha costretto il Costa Rica ad arrendersi e a cedere il posto a Madrid.

In un’intervista di Equal Times fatta a Rodriguez, il ministro ha preso una mappa satellitare per dimostrare che il problema degli incendi che imperversavano in tutta l’America Latina non colpiva il Costa Rica. L’area del paese centroamericano era verde grazie all’incredibile lavoro di biologi e politici per creare uno stato più verde possibile, al contrario degli stati vicini.

Secondo le statistica dei maggiori siti di turismo, ad oggi il 25% del paese è classificato come area nazionale protetta, cosa che attira milioni di turisti all’anno per camminare nella rainforest o vedere le covate di tartarughe. Inoltre, grazie all’energia idroelettrica e geotermale, il Costa Rica sarà presto in grado di produrre elettricità completamente sostenibile.

“Rispettare la natura è un valore altrettanto importante di democrazia, pace e diritti umani” insiste Rodriguez. Ma non è tutto oro (in questo caso verde) quel che luccica.

Perché gli abitanti del paese con l’indice di felicità più alto del mondo avrebbero dovuto scatenare cortei di protesta? Come fa il governo di un paese appartenente al terzo mondo a sostenere in modo così favoloso la sua economia, una delle migliori dell’America Centrale?

I paradossi non mancano. Dietro al maggiore produttore di frutta tropicale al mondo, c’è un velo scuro che copre piantagioni intensive che danneggiano sia il territorio che le persone.

Il Paese che si vanta della più grande biodiversità sulla Terra è anche il paese che usa più pesticidi chimici per metro quadro al mondo (circa 20 kg per ettaro). Secondo gli studi della Fecon (la Federazione costaricana per la conservazione della natura), la proporzione sale per i prodotti più esportati: 70 kg per le banane, 45 kg per gli ananas e 7 kg per il caffè.

La situazione peggiore è nelle piantagioni di banane dove vengono usate sostanze come bromacil e ametrina (banditi da molto tempo in Europa), producendo effetti terribili sulla terra e sui lavoratori.

“La produzione monocultura, praticata soprattutto al nord, impoverisce la terra rendendo l’intera area più soggetta deforestazione, perdita della biodiversità, erosione e diffusione di malattie legate alle mosche e alle zanzare” sostiene Mauricio Alvarez, basandosi sugli studi de la Universidad de Costa Rica.

Stando alle statistiche della Costa Rican Conservation Federation la produzione di ananas ha già distrutto 5560 ettari di foresta tra il 2000 e il 2015, una proporzione altissima se si pensa che il Costa Rica ha le dimensioni della Svizzera.

Nel paese che più tiene alla pace e all’ecologia, molte persone non hanno accesso all’acqua potabile e riscontrano malattie legate ad essa che non possono curare per mancanza di assicurazione e per gli stipendi troppo bassi.

In più, gli animali muoiono per le epidemie portate dagli insetti senza che gli allevatori possano farci niente e questo ha un effetto diretto sulle famiglie che basano la loro vita su questi prodotti.

Il commercio di frutta è particolarmente redditizio per le aziende nordamericane o quelle locali che esportano direttamente verso il mondo occidentale. Le tasse di esportazione sono minime, riducendo di conseguenza i salari dei lavoratori al minimo.

Dany Villalobos, presidente della Fecon, presenta una statistica tragica: il 70% dei lavoratori nelle piantagioni sono immigrati illegali dal Nicaragua che svolgono lavori stagionali, per ritrovarsi comunque con niente in tasca e senza assistenza medica.

I controlli dello stato sono ridotti ai minimi termini, provocando uno sfruttamento terribile e l’inquinamento di aree e fiumi abitati (che assumono colori dell’arcobaleno piuttosto sospetti).

Le autorità stesse del Costa Rica ammettono la mancanza di regole nel settore e la Fecon risponde chiedendo delle misure drastiche per salvare la popolazione rurale dalle fumigazioni e dagli effetti collaterali dei pesticidi.

Come aiutare le persone intrappolate in questo circolo vizioso?
La soluzione potrebbe stare nella consapevolezza. I locali sostengono che il commercio ecosostenibile è più importante di ogni altra cosa, perché non c’è persona di medio-basso livello economico che non subisca gli effetti di questa produzione esasperata.

Si suppone che se i compratori si rifiutassero di consumare prodotti coltivati a queste condizioni, il mercato dovrebbe per forza cambiare e permettere giuste condizioni di vita anche ai lavoratori e non solo all’elité.

Le persone sono esasperate e stanche di produrre materia prima che viene venduta verso l’estero, per poi essere rivenduta ai costaricani, ad un prezzo triplicato.

Bisognerebbe pensare a un’economia circolare che permetta di togliere ogni famiglia dalla povertà, per poter pensare futuro più green per ogni area del Costa Rica, che questa sia dentro o fuori dai parchi nazionali.