29 Agosto 2020
Defend Israeli Democracy: da Berlino ad Amsterdam, da Boston a Gerusalemme, un presidio contemporaneo chiede a Netanyahu di farsi da parte
Amsterdam, Berlino, Boston. Quattro donne israeliane hanno scelto, già da anni, di lasciare la propria patria. Per varie ragioni. Dall’avanzamento di carriera, alla voglia di scoprire il mondo. Otre al fatto che, per molti di coloro che lasciano Israele, spesso di tratta anche di una scelta politica.
Soprattutto negli ultimi 25 anni, da quando, dopo l’assassinio di Yitzhak Rabin, la direzione dello Stato ebraico si è nettamente inclinata verso destra e dal 2009, per la quarta volta consecutiva, governa il Paese Benjamin Netanyahu, leader indiscusso del Likud da oltre vent’anni (nonostante i tre processi per corruzione, frode ed abuso d’ufficio, che gli pendono sulla testa come una spada di Damocle), senza alcuna intenzione di dimettersi.
Neanche in tempi di pandemia, con una crisi economica mai registrata nemmeno in tempi di guerra, e la disoccupazione al 25%.
Negli ultimi mesi, in conseguenza a questa impasse sia economica che politica, centinaia di migliaia di israeliani hanno cominciato a protestare, pacificamente, in Balfour Street, la via della Residenza del premier.
Ormai è diventato un appuntamento fisso tutti i sabato sera, con autobus che arrivano dal nord e dal sud del Paese, e a cui partecipano cittadini di ogni età, classe sociale e partito politico, inclusa quella destra, ormai stanca della tendenza, tipica del Likud, di fare buono e cattivo tempo a seconda di chi gli serve, di volta in volta, per raggiungere la maggioranza governativa.
E chi non ha il tempo di raggiungere Gerusalemme si unisce alle proteste sui ponti pedonali, lungo le autostrade che attraversano Israele. Centinaia. Da Naharia ad Eilat, in modo che chiunque viaggi per il Paese, incluso il capo del governo, abbia bene in mente quanto sia fondamentale il valore della democrazia.
A questi ponti, nelle ultime settimane, si sono aggiunti anche quelli sui canali di Amsterdam, sul Charles River di Boston, e molti altri ancora: migliaia di israeliani che, pur vivendo stabilmente all’estero da anni, vogliono far sentire la propria solidarietà nei confronti della madrepatria.
Le città coinvolte in tutto il mondo sono numerose, dal Mare del Nord all’Atlantico, dal Pacifico fino agli Antipodi: Amsterdam, Boston, Berlino, Cambridge, Los Angeles, Madrid, Miami, New York, San Francisco, Sydney, Oslo, Toronto, Vancouver e Washington.
Chi non ha ponti, protesta accanto alle ambasciate israeliane o nelle piazze principali delle città coinvolte. Tutti uniti, assieme ai propri compatrioti, ogni sabato alle 21.00, orario di Gerusalemme.
Non si tratta di un movimento politico ma di una piattaforma, chiamata Defend Israeli Democracy, nata spontaneamente, per la salvaguardia della democrazia, E molti, tra i leader locali, sono donne, stanche di come la propria voce sia sempre stata sottorappresentata in un governo alla cui guida sono quasi tutti uomini, spesso ex Capi dell’Esercito israeliano.
Liron Milshtein ha lasciato Israele 5 anni fa per quello che inizialmente doveva solo essere un lungo viaggio in Europa, lavorando in smart working, come giornalista, dai caffè di Parigi, Firenze, Madrid, Belgrado, Vienna.
Fino a fermarsi a Berlino, quando si è resa conto di non voler più tornare “in un Paese che vive da oltre 70 anni in costante stato di guerra, sia con i nemici esterni che con quelli interni. Ormai – commenta – ho perso la speranza nel sogno di pace. Ma la necessità di partecipare a questo tipo di iniziativa nasce soprattutto per non lasciare soli i nostri fratelli, sorelle e compatrioti. La distanza fisica non ha alcuna importanza. Il nostro cuore, da israeliani, è distrutto come il loro, e vorremmo tutti trovarci fisicamente a Balfour.
Nel resto del mondo Israele viene solitamente descritta come l’unica democrazia del Medio Oriente, eppure oggi si trova seriamente in pericolo a causa di un primo ministro che si comporta come un re e che farebbe qualsiasi cosa pur di non lasciare il trono, attaccando tutti i giorni i media e gli organi di giustizia”.
Tally Kritzman-Amir vive da 3 anni a Cambridge (Massachusetts), dove insegna Diritto Internazionale all’Università di Harvard e di Boston.
“Vivo qui, ma non ho mai smesso di sentirmi israeliana, come molti di coloro che fanno parte di questa iniziativa. Perché quando si nasce in Israele, oltre ad avere una famiglia lì che ci aspetta, c’è sempre qualcosa che ci si porta dietro anche all’estero, a partire dall’esperienza, unica al mondo, dell’esercito israeliano. Non possiamo permettere questo declino democratico, con un governo che si è completamente dimenticato del suo popolo, una polizia che reagisce in modo violento a proteste pacifiche, e la libertà di stampa che viene quotidianamente minacciata. Questo movimento nasce dal basso e appartiene a tutti: uomini, donne, bambini, famiglie. Ma io vado a manifestare soprattutto per mia sorella, che è un medico oncologo, e nonostante passi giornate intere in ospedale a cercare di salvare vite umane, ogni sabato trova la forza per andare a protestare a Gerusalemme, a volte persino durante la settimana. Tre dei suoi quattro figli hanno fatto, o fanno ancora, parte dell’esercito israeliano. Sono disposti a dare la vita per la loro patria. E che cosa ricevono in cambio?”
Lihi Lavie ha lasciato Israele per Amsterdam, dove studia Economia Politica presso il Leiden University College.
Si è unita alle proteste per fare il gioco opposto a quello di Bibi.
“Lui governa grazie al dividi et impera. Noi dobbiamo rimanere uniti e mostrare al resto del mondo che, nonostante le sue grandi doti diplomatiche all’estero, sta distruggendo Israele, il nostro Paese, dove un giorno sogno di tornare. Ma vorrei tornarci con un premier che dedica il proprio tempo occupandosi del popolo e non delle proprie magagne giudiziarie. Vorrei un Paese in cui le donne vengono trattate con rispetto. Le israeliane che conducono questa protesta all’estero lo fanno anche per solidarietà nei confronti delle proprie sorelle in madrepatria, una minoranza silenziosa, pure a livello governativo…”
Maryanne Matyash, musicista, vive da tre anni e mezzo a Berlino, dove ha deciso di trasferirsi per varie ragioni: “Annusare l’atmosfera multiculturale della città e allo stesso tempo vedere Israele da una prospettiva diversa, dal di fuori”.
Si è unita alle proteste “prima di tutto per solidarietà nei confronti del nostro Paese, così diviso al suo interno. Inoltre per far conoscere al mondo la nostra fragilità politica. Solitamente all’estero si discute su Israele solo riguardo al conflitto arabo – israeliano. Pochi sanno quanto drammatico sia il conflitto interno. Questo è l’unico modo per cercare di mettere in discussione lo status quo in cui viviamo ormai da 25 anni, proprio grazie alla strategia politica di Netanyahu”.
Anche Maryanne sottolinea la peculiarità tutta femminile di questo movimento internazionale: “ovviamente sono molti gli uomini coinvolti in questa protesta, ma in termini di percentuale c’è sicuramente qualcosa di innovativo in questa iniziativa, soprattutto rispetto alla solita e vecchia guardia ai vertici della politica, non solo in Israele. Le donne sono più dirette, vanno dritte al punto, a partire dal linguaggio: combattiamo per difendere la democrazia, senza schieramenti e manipolazioni. Ma è solo l’inizio di un lungo processo. Una maratona di tante tappe, sparse in diverse città del mondo. Questo – aggiunge – è sicuramente uno dei punti di forza: non si tratta di difendere la democrazia solo in Israele, ma su scala globale. Forse – conclude – il Covid 19, nel bene e nel male, è stato un catalizzatore di una nuova era, volta, grazie anche al grande potenziale delle tecnologie e dei social, a proteggere i valori della democrazia, dell’uguaglianza di genere, dei diritti umani e della salvaguardia del pianeta, che è uno solo, e di tutti. Grazie ad un movimento come questo possiamo creare una comunità globale”.