10 Luglio 2018
Un fine settimana di violenze e saccheggi per l’aumento del carburante, in arrivo un’ondata di scioperi
Port-au-Prince si è svegliata lunedì 9 luglio con un gran mal di testa, dopo due giorni e mezzo di sbornia di ribellione, violenze e saccheggi che hanno messo a ferro e fuoco le sue strade, e una prospettiva di due giorni di scioperi generali, almeno fino a martedì.
Ma oggi, primo giorno, la mattina presto la città appare calma, e i pochi mezzi che circolano fanno sembrare la caotica capitale, sorniona come in una domenica a targhe alterne. Se non fosse per la cenere rimasta dalle barricate dei pneumatici in fiamme, la macchine incendiate e tanto sporco. Se non fosse per una città da lavare, violentata come in uno stupro, che lascia interdetti.
Nessuno azzarda previsioni, e ancora ci si chiede cosa sia successo, chi ha mosso i fili e quale delle ipotesi sia la più probabile. Il sole del mattino caraibico brucia già alto, e un venticello leggero lo rende più sopportabile. Così come rende più sopportabile, per chi non ha il generatore, la mancanza di corrente elettrica e di conseguenza di ventilatori, nelle zone in cui la compagnia dell’elettricità pubblica (EDH) ha deciso di sospendere, subito dopo l’inizio delle proteste, la fornitura di energia.
La classe media haitiana rimane a casa. I benestanti e gli espatriati restano chiusi nei compound, nelle loro oasi spesso pacchiane. Qualcuno si azzarda a mettere fuori la testa in strada, dove la vita ricomincia. Alcune iniziative di piccolo commercio sono già state rimesse in piedi. Un brulicare timido si riaffaccia, e le donne con i cesti di verdure in testa ed i papadap (venditori di ricariche telefoniche) agli angoli delle strade fanno pensare ad una ritrovata normalità.
Deve essere simile alla guerra, quando appena i bombardamenti danno tregua, la vita riprende il suo scorrere normale, quasi non ci si ricordasse del brutto incubo scampato.
Tutto è iniziato venerdì 6 luglio, di pomeriggio. Ad Haiti la tifoseria della coppa del mondo di calcio è divisa a metà. Gli haitiani sono fanatici e affamati di calcio. 50% tifa Brasile, 50% tifa Argentina.
Attenzione, non è che simpatizzano per l’una o per l’altra squadra. Tifano con lo stessa passione e l’identico trasporto con i quali tiferebbero la loro nazionale. Ogni volta che c’è un gol il paese esplode in un boato di gioia! Per chi l’ha vissuto ricorda l’atmosfera magica di Italia 90.
Ma questi mondiali, agli haitiani, non hanno dato molte soddisfazioni. E così mentre la Seleção, dopo Messi, donava l’ennesima amarezza, i prodigi due ministri del governo haitiano, quello dell’Economia e Finanze, e quello del Commercio e Industria, firmavano un avviso che prevedeva l’aumento dei carburanti del 50% (38% per la benzina, 47% per il diesel, 51% per il cherosene). È proprio il caso di dirlo, oltre al danno la beffa per il popolo haitiano.
La gente già in strada, spenti i teleschermi generosamente donati dal governo nei vari luoghi di aggregazione per assistere alla competizione mondiale, non ci ha messo molto ad organizzare qualche barricata e a dare fuoco agli pneumatici. Del resto, gli anni di Aristide avevano fornito una buona formazione. E questa ennesima protesta era nell’aria, se ne parlava da tempo.
Si parlava da tempo dell’entrata di armi nel paese, e che questa grande manifestazione popolare sarebbe stata lo scacco matto dell’opposizione al governo del presidente della Repubblica, Jovenel Moïse.
Da quell’annuncio in poi, i messaggi whatsapp dei vari gruppi sicurezza, a cui molti internazionali ed haitiani sono iscritti, hanno cominciato ad arrivare frenetici. Stazioni di carburante subito chiuse, qualche sparo, e poi blocco delle strade da parte dei manifestanti. Tutti i punti nevralgici della città paralizzati. Lanci di pietre, macchine incendiate. Chi era a lavoro o per strada durante quelle ore, impossibilitato a tornare a casa, ha dovuto dormire fuori in Hotel.
Il paese non è nuovo a questo genere di eventi, e solo nel periodo dell’approvazione della legge finanziaria 2017-2018, per mesi si sono susseguite manifestazioni.
Questa volta, però, le proteste si sono subito palesate come più violente del solito, un’aggressività che non si vedeva da più di un decennio a detta di molti haitiani, addirittura prima ancora dell’arrivo della MINUSTAH-Missione di Stabilizzazione delle Nazioni Unite ad Haiti.
Una protesta organizzata in maniera così capillare da far pensare al peggio. Per due giorni e mezzo sono state saccheggiate le maggiori attività economiche della capitale, mentre le proteste si diffondevano anche nelle altre città del paese. Grandi magazzini, supermercati, banche, compagnie telefoniche, hotel e ristoranti di lusso presi letteralmente d’assalto. Due morti.
L’omicidio più tremendo: un agente di sicurezza di un membro dell’opposizione si è messo a sparare in aria per far passare l’auto del dirigente. La folla circonda la guardia, lo uccide e gli da fuoco. La città, la disperata e ingiusta Port-au-Prince, viene invasa dalle bande di strada e da una folla inferocita che ne ha preso il controllo. Rapine, minacce, qualche furto in casa. La confusa e minacciosa Port au Prince, sprofondata nel panico e nel disordine più totali.
E tutti barricati. I manifestanti per strada, gli altri nelle case. I ricchi nei loro palazzi circondati da mura e cancelli alti, protetti da filo spinato e guardie armate, i poveri nel proprio metro quadrato cdi lamiere e blocchi di cemento.
E le scene di devastazione si susseguono, una dietro l’altra. Si dice, che abbiano voluto punire gli arabi, siriani e libanesi proprietari di molti importanti esercizi commerciali, per il loro appoggio al presidente Moïse. Ma si dicono tante cose. Tutto ed il contrario di tutto.
Si dice che già sabato l’ex presidente della repubblica e cantante Martellì, abbia lasciato il paese per la Repubblica Dominicana. Si dice che questa protesta per la benzina non si concluderà senza le dimissioni dell’attuale presidente Jovenel Moïse. Si dicono molte cose, ma si sanno anche molte cose.
Ad esempio si sa che il Fondo Monetario Internazionale abbia imposto al governo di cambiare politiche, dopo anni in cui nell’ambito dell’accordo quadro con il governo, aveva prestato miliardi di dollari allo Stato per pagare le sovvenzioni che permettono di mantenere basso e accessibile il prezzo dei carburanti.
Ciò si è tradotto nella decisione del primo ministro di aumentare i prezzi in “one shot” del 50%. E la popolazione molto povera, sa che l’aumento del prezzo del carburante ha dei costi diretti altissimi sul trasporto delle persone e delle merci, in un paese in cui l’inflazione è da anni al 13%.
Mentre il governo sa che senza le entrate per degli investimenti strutturali, in un paese in cui quasi nessuno paga le tasse, non può fare nessun politica di sviluppo. Moïse ha cercato di spiegarlo in un discorso a reti unificate la sera di sabato 7 luglio, dopo che già verso le ore 14 del pomeriggio il primo ministro Jack Guy Lafontant, aveva sospeso la decisione dell’aumento dei prodotti petroliferi, senza però placare gli animi e le violenze dei manifestanti. Ma anche il discorso al popolo di Moïse, quasi sussurrato a voce bassa e confidenziale, grondante di paternalismo, non è servito.
Per tutta la domenica sono continuati i saccheggi, anche se in forma leggermente attenuata, mentre le famiglie ricche degli oligarchi haitiani si mettevano in salvo, come ha fatto la famiglia Oliver, che ha lasciato in elicottero la capitale.
Nella giornata di lunedì, a Port-au-Prince, la situazione sembra relativamente calma, dopo che si temeva che dagli esercizi commerciali si sarebbe passati a saccheggiare metodicamente anche le case. L’aereoporto ha riaperto, e non si sentono colpi di pistola in lontananza.
Per un paese dalla storia recente così travagliata, forse il ricordo vivo di quanto successo negli ultimi vent’anni, la paura di una nuova destabilizzazione dopo il ridimensionamento della missione di pace delle Nazioni Unite e il timore di un’ennesima invasione degli americani, ha riportato la situazione dentro un certo limite di sopportazione.
Ma è troppo presto per dirlo, è troppo presto per dire se questi giorni sono stati solo una forte tempesta tropicale o l’inizio di un nuovo ciclone che porterà alle dimissione del governo.
Ancora una volta il paese continua a confermare la sua reputazione negativa, più negativa di quanto si meriti. Una reputazione che non rende giustizia alle sue potenzialità, alla sua gente e alla sua splendida cultura. Ecco allora un’altra cosa che non si dice e che non si sa, e cioè cosa bruci sotto le ceneri di questa Haiti e nel cuore e nella mente dei suoi abitanti.