Introduzione

La campagna elettorale è finita da un bel po’ e il nuovo governo si è insediato. L’immigrazione è stata al centro del dibattito degli scorsi mesi, come ricorderemo tutti anche con punte di violenza vera e propria, tipo i fatti di Macerata ad esempio.

In queste ore il nuovo governo prende le prime mosse anche che su questi temi, affrontandoli con ampio scetticismo, per usare un eufemismo, visto che si parla esplicitamente nel “contratto” di governo di rimpatri e visto che abbiamo assistito all’inedita decisione di chiudere i porti e rimbalzare così tra le sponde del Mediterraneo le barche delle Ong stracolme di migranti da soccorrere.

Nelle more che tutto si definisca, ci è concesso il tempo di affrontare il tema dell’immigrazione in Italia da un lato puramente economico. Abbiamo come collettività più benefici che costi dall’immigrazione o viceversa? Ci guadagniamo o ci perdiamo? Ci costa tanto o poco la gestione dei flussi migratori? Gli immigrati ci tolgono il lavoro o sono necessari? E via discorrendo.

Ovviamente con la brevità dell’analisi che ci impongono i tempi e un approccio tanto laico quanto poco accademico.

Insomma, nell’articolo non risponderemo alla domanda se ci piace una società multietnica oppure no, oppure se è giusto accogliere per motivi umanitari o per altre motivazioni etiche, come ad esempio potrebbe essere il ricongiungimento famigliare. Guardiamo i numeri e ragioniamo in maniera fredda, come gli economisti calcolatori sanno fare.  Ovviamente non mi ascrivo a questa categoria né ovviamente penso che i concetti morali non influenzino le scelte economiche, tutt’altro. Tuttavia penso che sarebbe utile, un po’ per tutti, affrontare questo fenomeno con mente e occhi lucidi, non nascondendo ovviamente il fatto che davanti ad alcuni avvenimenti, come può essere la disperazione dei migranti o le morti insensate nei viaggi della speranza, gli occhi diventano facilmente lucidi, ma per la commozione.

Qualche cenno teorico

La risposta alla domanda del perché si emigra mi pare, di primo acchito, di facile risposta: per raggiungere uno stato di benessere migliore dello stato in cui ci si ritrova. Non per forza solo un reddito maggiore, non per forza solo un luogo migliore, non per forza solo un lavoro migliore, ma il complessivo miglioramento di tutta una serie di (questi) elementi che definiscono, diciamo così, il proprio “bene-essere”. Che è un po’ l’obiettivo microeconomico degli individui: raggiungere uno stato di benessere migliore. Stato che non è pressoché equiparabile allo stato di benessere di un altro individuo perché il complesso delle preferenze individuali di lavoro, di consumo, di vita che ognuno di noi ha sono diverse (e ci fanno diversi) gli uni dagli altri (per citare il premio Nobel K. Arrow).

Insomma, si tratta di scelte innanzitutto individuali, personali e differenti le une dalle altre.

In ragione di ciò, alla base di ogni nostro movimento c’è certamente una scelta razionale che deriva dallo stato economico e reddituale in cui ci si trova “ex ante”, ma dobbiamo riconoscere che questa scelta (razionale) non basta da sola a spiegare perché milioni di persone, da sempre e sempre di più nel futuro migreranno da luoghi a luoghi. Occorre allargare il campo e pensare ad una concezione di benessere che comprende, accanto a ciò che possediamo, anche la possibilità di sprigionare le nostre capacità e in definitiva di essere liberi di farlo fino in fondo, per crescere, migliorarsi, vivere (“Development as Freedom” per citare solo il titolo del famoso libro del premio Nobel A. Sen).

Perciò, accettata questa definizione, si può facilmente considerare anche chi scappa da una guerra come chi agisce in ragione di un proprio miglioramento “economico”.

Andando un po’ più in profondità nel pensiero economico, esplorando le ragioni delle migrazioni, proviamo a scomodare in premessa e velocemente, me ne scusino i lettori, tre grandi del pensiero economico classico, ossia Adam Smith, Davide Ricardo e Thomas Robert Malthus.

Al primo si deve l’intuizione di aver compreso l’importanza della divisione del lavoro. Un uomo ci impiega un sacco a fare uno spillo, con costi enormi e scarsi guadagni per tutti. Una fabbrica di spilli, dove gli uomini sono organizzati e ci si divide il lavoro, invece no. Alla base del capitalismo c’è questo concetto, dovuto al padre del capitalismo Adam Smith, assieme ad un altro, la cui intuizione si deve a Davide Ricardo, ossia lo scambio commerciale. Secondo, appunto, la teoria dei vantaggi comparati, lo scambio commerciale tra paesi avviene proprio perché ogni paese ha un proprio vantaggio comparato rispetto a un altro nel produrre un bene piuttosto che un altro. Senza entrare nei tecnicismi, questo porta alla specializzazione produttiva del paese e in fin dei conti alla divisione del lavoro a livello internazionale. Potremmo usare una facile ed estremamente semplificata immagine: gli ingegneri informatici indiani vanno verso la Silicon Valley e i braccianti agricoli senza campi dell’Africa sub sahariana si muovono verso i campi, per esempio, italiani.

Ovviamente questi movimenti e queste specializzazioni cambiano nella storia, così come variano i prezzi dei beni e quindi i rapporti di forza tra i paesi.

Se si va, ecco, per dire, a Marakkesh, in Marocco, a visitare l’enorme palazzo El Badi del Sultano dell’epoca, costruito intorno al 1600, si può scoprire che all’epoca il Sultano aveva acquistato i marmi di Carrara dall’Italia (più specializzati di cosi) scambiandoli con lo zucchero, di cui era abbondante il Marocco. Marmi versus canna da zucchero: ovviamente il turista si domanderà del prezzo e comunque, con il senno di poi, potrà facilmente esclamare “Bizarre!”.

In definitiva, si ha un vantaggio comparato, tra due paesi che producono due beni, quando il costo unitario di un bene, in termini dell’altro bene, in un paese, è “migliore”, ossia più basso che nell’altro.

Ad esempio, se in Italia un abito di cotone, pagato in tailleur, costa meno di un tailleur in Francia e, viceversa, in Italia un tailleur costa più abiti di cotone che in Francia, allora in Italia converrà produrre abiti e comprare tailleur dalla Francia, il contrario converrà alla Francia.

Ovviamente queste teorie hanno avuto molte varianti negli anni, ma l’approccio di base non è sostanzialmente cambiato.

Andando a completare questo quadro teorico, ripercorriamo il pensiero di un altro classico: Malthus, famoso per aver studiato gli effetti della demografia nello sviluppo economico.

In sostanza, il succo del suo pensiero, basato sullo studio delle prime trasformazioni industriali, era questo: l’aumento della popolazione accompagna la crescita economica fino a quando le “bocche da sfamare” non diventano così tante da aumentare l’offerta di lavoro e abbassare di conseguenza i salari medi. L’effetto negativo dell’aumento della popolazione subentrava quando il salario medio superava quello di sussistenza. Di conseguenza, l’aumento della popolazione, dopo aver comportato all’inizio crescita economica, non faceva altro che frenarla, sempre che non subentrassero forme di controllo demografico o di libertà di movimento delle popolazioni (emigrazioni), tali da calmierare gli effetti degli aumenti salariali: negativi sulla crescita economica e positivi sulla volontà di “fare figli”. Questo accadeva soprattutto nelle economie di stampo agricolo (di una volta), a rendimenti decrescenti per usare un concetto più tecnico. Ossia economie dove se si “raddoppia la terra”, non si produrrà “più del doppio” dei frutti, quindi, in definitiva, economie dove la produttività non riesce a star dietro alle bocche da sfamare.

Le teorie di Malthus ovviamente sono state fortemente aggiornate e modificate nel tempo, mancavano di alcuni aspetti importanti, come ad esempio gli effetti della produttività del lavoro e tutte le scoperte fatte in seguito nelle teorie della crescita economica.

In ogni caso, il pensiero malthusiano si può riassumere così: la demografia influisce nel processo economico, favorevolmente quando si è ad uno stadio di basso sviluppo, al contrario quando le cose sono diverse.

La teoria Malthusiana non è sempre stata vera nella storia economica, eppure ha il merito di aver reso centrale la crescita della popolazione in economia.

Sempre in termini vagamente teorici, non possiamo non citare altri due modelli, più recenti, che spiegano i movimenti del lavoro tra le economie, ossia il modello Heckscher Ohlin e l’effetto Stolper- Samuelson.

In sostanza, questi due modelli spiegano due cose: la specializzazione internazionale dipende dalla dotazione dei fattori produttivi del singolo paese (esporto di più il bene per cui ho maggiore abbondanza del fattore produttivo necessario a produrlo); quando un paese si specializza nella produzione di un bene e il prezzo di questo bene cresce, aumenta anche il prezzo relativo del fattore produttivo maggiormente utilizzato.

Perciò, se un paese diventa esportatore netto di “iphone” perché è dotato maggiormente d’ingegneri nerd ultra specializzati, rispetto a un altro paese, lì il salario (relativo) degli ingegneri occhialuti sarà maggiore di quello che essi registreranno in altre parti del mondo.

Questo comporterà ovviamente che chi vorrà lavorare in quel settore, si sposterà verso il paese in cui il proprio lavoro sarà maggiormente remunerato.

 

Per chiudere, dunque, questa lunga, noiosa, non esaustiva ma pur sempre necessaria, premessa teorica si può affermare in sintesi che ci sono più ragioni economiche alle migrazioni: la via Senniana, la ricerca di un maggiore benessere; la via Malthusiana, come risposta all’aumento demografico per evitare il collasso (inutile nascondere che i nostri tassi di fecondità sono n volte inferiori a quelli di alcuni paesi di provenienza degli immigrati); la via “commerciale”, figlia delle divisioni del lavoro e dell’andamento dei salari relativi in relazione alle specializzazioni produttive.

A seconda di come si allarga lo spettro, dalla scelte individuali alle grandi divisioni macroeconomiche, il risultato è sempre lo stesso: chiudere la porta di casa e andare altrove

Uno sguardo al mondo e all'Europa

Al netto delle considerazioni teoriche, viviamo un mondo dove i flussi migratori aumentano. Nel 2015, circa 243 milioni di persone non risiedevano nel loro paese d’origine, oltre il 3 % della popolazione mondiale. I migranti si spostano sempre di più verso i Paesi ad alto reddito. In questi paesi la quota d’immigrati è aumentata del 13% negli ultimi dieci anni. Il fenomeno migratorio globale non si arresta, dunque, ed ha assunto queste caratteristiche essenziali: i) si concentrano i flussi sempre di più verso i paesi ad alto reddito (tra le prime 15 destinazioni, l’Italia è dodicesima); ii) un quinto delle migrazioni sono concentrate tra paesi “vicini” (ad esempio: Messico/USA; India/Arabia Saudita; Polonia/Germania); iii) i rifugiati politici sono accolti per l’87% in paesi in via di sviluppo, sommando così evidentemente problemi a problemi (“Perspectives on Global Development 2017 – International Migration in a Shifting World”, OCSE, 2017).

Insomma nel mondo ci si muove sempre di più, ecco non pare proprio (solo) un affare nostro.

Caliamoci ora in Europa

Per varie ragioni storiche e culturali, l’Italia non è il paese più meticcio dell’Europa. Sebbene abbia incrementato nell’ultimo decennio la sua quota di stranieri, più di altri paesi, l’Italia mantiene una quota ancora non elevata di stranieri in rapporto alla popolazione, nel 2017 contiamo circa cinque milioni di persone straniere su sessanta milioni di abitanti, la quota è intorno all’8,5%.

Ben diversa è la situazione di Germania, Belgio, Irlanda, Inghilterra, Spagna, Danimarca che hanno una quota di cittadini stranieri, nel 2017, maggiore delle nostra, per citare solo i più importanti, tutti con quote superiori di popolazione straniera fino al 15% circa.

 

Figure 1 % popolazione straniera sul totale, in ordine decrescente al 2017, (2008-2017) Fonte 1 ns elaborazioni su Eurostat, Aprile 2018

In valori assoluti, nel 2017, la situazione in Europa è la seguente: 45 milioni di stranieri, di cui 29 milioni (71%) presenti nei primi cinque paesi per popolazione straniera: Germania, UK, Italia, Francia, Spagna (dati Eurostat estratti ad Aprile 2018; si tratta ovviamente dei numeri ufficiali e degli stranieri regolari).

In sintesi, in Europa la densità di stranieri è diversa tra paesi grandi e piccoli, ma la concentrazione in valori assoluti è inequivocabilmente legata ai paesi più grandi, in termini di popolazione e in termini economici.

Guardando le cose dal punto di vista del mercato del lavoro, il trend non è tanto diverso, anzi possiamo facilmente affermare che la quota di occupati stranieri in Europa sia costantemente aumentata negli ultimi dieci anni e, in misura maggiore, nei paesi più grandi. Circa ventisette milioni di occupati nel 2016, in tutta Europa, di cui quasi 7 milioni in Germania, quasi 5,3 milioni in UK, circa 3,1 in Italia (circa il 14% tra dipendenti e autonomi), poco meno di 3 milioni in Francia, 2,8 milioni in Spagna.

Prima di tirare qualche prima interpretazione, analizziamo anche l’attrattività dei paesi (dal 2000 al 2015), in questo caso usando dati OCSE e includendo perciò nell’analisi (solo) gli USA, ossia il valore assoluto del flusso in ingresso di stranieri registrati o che hanno permesso umanitario o di lavoro, quindi sempre per vie legali o anche temporanei.

Due considerazioni: fino al 2012, gli Stati Uniti d’America hanno sempre avuto una quota maggiore d’ingressi rispetto al resto dei paesi sviluppati, da quell’anno avviene il sorpasso tedesco.  La curva della Germania fa un vero e proprio balzo, dai 650 mila ingressi ai due milioni nel giro di quindici anni, segnando un’attrattività in controtendenza rispetto agli altri principali paesi europei già dal 2008. L’Italia, dopo aver superato i 500 mila ingressi nel 2007, nel 2015 ne conta circa la metà. Quota comunque inferiore anche a Francia, Spagna e UK.

Figure 2 Afflusso annuale stranieri, v.a. in ordine decrescente al 2017 (2000-2015) Fonte 2 Ns elaborazioni su dati OCSE, Aprile 2018

Cambiano le leggi che regolano i flussi migratori, cambiano le aspettative di crescita dei paesi e la percezione di benessere che questi hanno verso l’esterno, cambiano anche, parzialmente, le rotte migratorie, in ogni caso tuttavia i paesi più avanzati restano sempre negli anni i più attrattivi.

La crescita iperbolica degli afflussi verso la Germania ci consegna un’altra domanda: si cresce anche grazie a questo afflusso? Proveremo a dare qualche risposta in seguito.

La nostra amata Italia

In Italia, gli stranieri provengono per la gran parte dell’Europa e dall’Africa, ossia da paesi abbastanza limitrofi, a conferma del fatto che ci si muove per prossimità, e da paesi distanti, per la gran parte, dai nostri livelli di crescita, a conferma del fatto che la ricerca di un miglioramento di standard economico è la principale preoccupazione.

Nel 2016, l’ISTAT conta circa 300 mila trasferimenti per residenza in Italia. I primi quindici paesi in ordine decrescente sono: Romania, Brasile, Nigeria, Marocco, Pakistan, Cina, Albania, Bangladesh, India, Ucraina, Senegal, Egitto, Gambia, Germania, Moldova. Contano complessivamente oltre 190 mila cittadini. Se esaminiamo, al primo gennaio 2017, la provenienza degli stranieri non residenti, non appartenenti all’Unione Europea ma che hanno un permesso di soggiorno, circa 3,8 milioni (di cui 2,2 milioni a lunga scadenza e il resto temporanei), il rank dei paesi non cambia. Marocco, Albania, Cina, Ucraina, Filippine, India, Egitto, Bangladesh, Moldovia, Pakistan, Tunisia, Sri Lanka e Senegal e Serbia/Montenegro sono sopra i cento mila permessi di soggiorno.

Dei 230 mila circa ingressi ufficiali nel 2016 in Italia, il 35% è arrivato per motivi umanitari, circa ottanta mila, quasi la metà per motivi famigliari e solo il 6% per motivi di lavoro (dati ISTAT, Aprile 2018).

Circa tredici mila sono stati gli stranieri che sono entrati per un permesso di lavoro, seguendo quindi le procedure della Bossi Fini che legano l’ingresso ufficiale all’aver ricevuto preventivamente un lavoro effettivo.

Per motivi umanitari i primi sono i nigeriani, seguono tra i primi dieci Pakistan, Senegal, Bangladesh, Ghana, Ucraina, Marocco, Cina, Serbia/Kosovo/Montenegro, Egitto e India. Coloro che hanno un permesso di soggiorno, anche provvisorio, per motivi umanitari possono lavorare in Italia, per cui sostanzialmente fanno parte della forza lavoro straniera. Non possiamo ovviamente escludere che dentro questo insieme di persone ci sia qualche “Scarface”. Ricorderete tutti il celebre film, gangster movie, di Brian De Palma: Scarface. Il protagonista, interpretato da Al Pacino, non è altro che un cubano richiedente asilo politico negli USA che si dedica, però, come lavoro alla costruzione di un impero della droga.

Ecco, l’”effetto Scarface” non lo possiamo sicuramente escludere ma andrebbe ampiamente diluito dentro gli 80 mila immigrati che per motivi umanitari sono entrati in Italia nel 2016.

 

La prima domanda: ci stanno rubando il lavoro?

Questa domanda sappiamo che balena nella testa di molti italiani, vedendo appunto l’ingresso di immigrati come una minaccia alla propria posizione lavorativa.

Nella realtà, i dati sembrano sconfessare questa tesi. A parte i primi anni duemila, gli stranieri hanno sempre avuto un tasso di disoccupazione più alto rispetto ai nativi italiani. Nel 2016 risultava pari al 15% contro l’11,5 dei nativi, nel 2000 era pari al 12,2% contro l’10,9% degli italiani, nel 2003 le parti erano addirittura invertite.

Perciò, la forbice si allargata durante la crisi in termini peggiorativi per gli stranieri (dati OCSE-Migration Statistics, Aprile 2018).

 

Figure 3 Tasso di disoccupazione per luogo di nascita, Italia, 2000-2016

Fonte 3 Ns elaborazioni su OCSE- Migration Statistics, Aprile 2018

Un recente studio pubblicato tra gli Occasional Papers della Banca d’Italia, ad esempio, conferma le difficoltà occupazionali per i rifugiati che nei primi cinque anni di arrivo hanno minori probabilità di trovare lavoro rispetto ai nativi (di 16 punti in meno) e ai migranti economici, di 12 punti in meno (“I rifugiati e i richiedenti asilo in Italia, nel confronto europeo”, Aprile 2017 n.377).

Di contro, però, gli stranieri sono anche “meno NEET”, meno abbandonati e scoraggiati degli italiani: nel 2017 circa il 55% della forza lavoro straniera (15-64 anni) risultava disoccupata o  potenzialmente forza lavoro o non alla ricerca e/o non disponibile a lavorare. La quota degli italiani in queste stesse condizioni è superiore di 10 punti.

Per usare una battuta, infelice e parzialmente vera, gli stranieri sembrano meno “choosy”, meno scoraggiati, meno inattivi. Evidentemente, forse, perché trovano condizioni di lavoro “più favorevoli” secondo i propri parametri o perché sono più disponibili o disposti ad accettare lavori di qualsiasi tipo, diversamente dagli italiani. Si parte senza dubbio da una soglia più bassa, purtroppo (dati ISTAT, Aprile 2018).

Infatti, guardando ancora più nel profondo il mercato del lavoro abbiamo ulteriori riscontri a riguardo.

Ad esempio, segmentando il mercato del lavoro titoli di studio, scopriamo inoltre, come potremmo immaginare, che i lavoratori stranieri sono mediamente meno formati di quelli italiani, che non vuol dire che i nostri immigrati sono tutti analfabeti, anzi.

Infatti, nell’ultimo trimestre 2017, la quota di stranieri occupati che detiene licenzia media o elementare è superiore alla quota di italiani con lo stesso (basso) livello di studio; di contro, tra i circa 23 milioni di occupati italiani (dipendenti e non), i lavoratori stranieri che possiedono diploma o laurea sono il 48% del totale degli stranieri, gli italiani sono il 71%. La situazione peggiora scendendo da Nord a Sud, dove gli stranieri laureati sono solo il 7% del totale degli stranieri occupati, a fronte del 22% degli italiani (dati ISTAT, Aprile 2018).

Questo implica che, tendenzialmente, gli stranieri sono maggiormente occupati in lavori meno qualificanti e anche meno remunerati. La cosa non dovrebbe minacciare il lavoratore medio nativo, no?

La stessa conferma l’abbiamo dai dati relativi alle qualifiche del lavoro: circa il 38% degli italiani lavora in posizioni qualificate e tecniche, a fronte solo del 7% degli stranieri nelle stesse condizioni. Per contro, sempre nel 2017, solo l’8% degli italiani lavorava come personale non qualificato, circa 1 milione e settecento mila, a fronte del 34% degli stranieri, circa 830 mila. La quota è invece sostanzialmente identica, circa il 30%, per chi lavora in posizione impiegatizie o come addetti al commercio. Per maggiore chiarezza del quadro: uno straniero non qualificato su quattro è nel Mezzogiorno d’Italia, uno su due nel Centro Sud. Altra conferma del fatto che gli stranieri lavorano per posizioni meno qualificate, dove, appunto, si ha meno bisogno degli studi e dove la remunerazione è probabilmente più bassa.   Entrando, invece, nel campo dei contratti da dipendenti, scopriamo che gli stranieri sono più precari degli italiani. Nell’ultimo trimestre 2017, gli occupati a tempo determinato stranieri, circa 400 mila, rappresentano il 20% del totale di occupati stranieri (due punti in più rispetto al 2016), gli italiani “a termine” sono 5 punti in meno (un punto e mezzo in più rispetto al 2016). Lo stesso vale per i lavoratori part time. Nell’ultimo trimestre 2017, gli stranieri part time sono il 26 %, a fronte del 17,7% per gli italiani (dati ISTAT, Aprile 2018).

Quindi, tendenzialmente gli stranieri hanno anche contratti di lavoro più precari, a meno ore o a durata minore. Perciò, sembra proprio che il lavoro straniero non insidia il lavoro buono e di qualità, quello che tutti vorremmo avere insomma.

Allora, il punto è che gli stranieri attraverso il loro lavoro tengono in piedi intere filiere produttive italiane, senza dei quali le stesse sarebbero in forte crisi. Si pensi ad esempio alla filiera agricola, ma non solo.

L’ultimo annuario statistico dell’ISTAT riporta i dati relativi al 2015, che compariamo con quelli 2014, per quanto riguarda i settori economici e la presenza di occupati stranieri, sia dipendenti che indipendenti, ad esclusione dell’agricoltura la cui analisi si basa su un altro tipo di indagine. Ecco per dire, il 12,4 % degli occupati dipendenti nell’industria, il 18% nelle costruzioni, il 14% nel settore dei trasporti e del commercio, l’11,3 negli altri servizi in Italia sono stranieri. Percentuali più basse incontriamo nel campo del lavoro indipendente, tranne che per il settore delle costruzioni (dati ISTAT, Aprile 2018).

E poi, in ultimo, se lavorano in Italia, si aiutano a casa loro, o perlomeno immettono risorse nei paesi d’origine.

La Banca d’Italia pubblica il dettaglio trimestrale delle rimesse degli stranieri che nel 2017 ammontavano a più di 5 miliardi. Erano poco meno di 4 miliardi nel 2005, hanno toccato il picco di oltre 7,4 miliardi nel 2011 e sono da cinque anni a questa parte attestate intorno ai 5 miliardi. Risorse che rientrano nei paesi d’origine e che si spera possano contribuire allo sviluppo e al benessere di chi è rimasto lì.

Si tratta, all’incirca 0,3 punti di PIL, cifra sostanzialmente più alta di quanto il nostro paese spende in aiuti allo sviluppo per la cooperazione internazionale, appunto per “aiutarli a casa loro”.

In conclusione, gli stranieri sono necessari in alcuni settori economici, dove gli italiani arretrano, occupano lavori di qualità inferiore senza insidiare gli italiani nelle posizioni più qualificate e remunerate e una parte dei redditi che guadagnano li riportano a casa.

 

Alla fine gli immigrati fanno bene o male all'economia?

La domanda meriterebbe un approfondimento non di poco conto, tuttavia proviamo a rispondere.

Un modo semplicistico ma di facile comprensione per rispondere a questa domanda è , ad esempio, guardare alla relazione tra PIL pro capite e occupati stranieri nelle principali economie europee, innanzitutto, negli ultimi dieci anni. Il PIL pro capite ci racconta, in maniera non del tutto esaustiva e con i limiti che conosciamo (dell’indicatore e del senso dei valori medi), della ricchezza spartita tra i cittadini e lo compariamo con i lavoratori stranieri, proprio per domandarci se la loro presenza ci danneggia.

Ammassiamo un po’ di dati e guardiamo prima all’Europa.

Nella realtà, la relazione sembra abbastanza positiva (con tutti i caveat che è d’obbligo usare nel campo della econometria, la regressione, con buona significatività nella stima, ci permette di inferire che un occupato straniero in più comporta 3 centesimi di euro in più nel PIL pro capite) per i cinque paesi più grandi, ossia Italia, Germania, Francia, Spagna e Inghilterra (e la teniamo dentro ancora per un po’). Più occupati stranieri comportano un aumento positivo del PIL pro capite.

 

Fonte 4 Ns Elaborazioni su dati Eurostat, Aprile 2018

Cosa non del tutto vera se aggiungiamo nella regressione i dati dei paesi più piccoli dell’Europa, ossia Svezia, Olanda, Danimarca, Portogallo, Finlandia, Irlanda, Grecia. Anche se la stima non è significativa a livello statistico, ci indica una relazione leggermente negativa.

Possiamo perciò inferire che a beneficare in misura maggiore, dal punto di vista economico, dell’occupazione degli stranieri ci sono le grandi nazioni europee, dove paradossalmente maggiore è la pressione popolare e mediatica verso il fenomeno e che dovrebbero, di conseguenza, comprendere che invece ne sono i maggiori beneficiari. E agire di conseguenza. La Germania sembra l’abbia capito, visto l’aumento iperbolico degli ingressi degli stranieri visti in precedenza.

Per quanto riguarda l’Italia, il ragionamento non è tanto diverso. Il PIL pro capite era pari a 27.300 euro nel 2008, è sceso durante la crisi ed è risalito sui 28.300 nel 2017, ed ha avuto un percorso ovviamente meno lineare nella crescita della quota di occupati, passati dai 2 milioni circa a 3 milioni e cento nello stesso arco temporale. Tuttavia riscontriamo una correlazione positiva.

Fonte 5 Ns Elaborazioni su dati Eurostat, Aprile 2018

Se analizziamo il PIL in valore assoluto, la correlazione è più evidente (e la semplice regressione lineare anche statisticamente significativa):  circa 76 euro di PIL in più per ogni occupato straniero in più.

Stessa correlazione positiva ritroviamo se guardiamo agli ingressi: all’aumentare degli ingressi ci ritroviamo un PIL pro capite più alto. Maggiore attrazione dall’esterno, maggiore crescita all’interno.

In definitiva, possiamo facilmente affermare che anche per la nostra Italia, negli ultimi dieci anni, i flussi migratori e l’occupazione straniera hanno comportato una maggiore ricchezza sia assoluta che pro capite.

Quindi, gli stranieri in Italia fanno crescere la ricchezza di tutti, ma a che prezzo? Non è che gli immigrati ci costano troppo?

Partiamo, così, dall’analizzare un attimo il sistema previdenziale, quello per cui triboliamo agli occhi dei giudici europei e mondiali. La domanda da un bel po’ di tempo è: avremo un sistema previdenziale sostenibile? Compatibile con i tassi di crescita economica, dell’occupazione e della popolazione tale che non mini le finanze pubbliche? Problemone.

Il nostro è oggi un sistema a ripartizione di tipo contributivo. A ripartizione significa che chi lavora oggi, paga le pensioni di oggi. Contributivo significa che il calcolo della pensione è fatto con un metodo che capitalizza il valore dei contributi versati durante gli anni di lavoro.

Nel 2016, l’INPS ha erogato circa ventitré milioni di pensioni (rispondenti alle varie tipologie/schemi ammessi: vecchiaia -circa 12 milioni-, assistenziali, indennitarie, invalidità, superstiti), per la gran parte coperte dalla gestione dei contributi versati. Il valore complessivo delle pensioni è stato di circa 282 miliardi di euro. Sempre nel 2016, le entrate contributive ammontavano a 220 miliardi, più di un centinaio di miliardi sono stati i trasferimenti statali. Bene, i lavoratori italiani nel 2016 sono stati circa 22,7 milioni, i dipendenti sono circa 17,3 milioni. Il che significa che a fronte di ventitré milioni di pensioni, ci sono circa diciassette milioni che pagano i contributi.

Se prendiamo gli extracomunitari, il rapporto è notevolmente più basso (anche se va aumentando negli ultimi dieci anni). A fronte di 1,7 milioni di lavoratori extracomunitari iscritti e contribuenti sono circa 170 mila prestazioni erogate, tra pensioni, 87 mila, e prestazioni a sostegno del reddito, 80 mila, per cui il rapporto è complessivamente pari al 10%: un rapporto molto più basso rispetto a quello per il resto degli italiani.

 Che significa? Che nel nostro sistema previdenziale abbiamo un guadagno netto notevole dal fatto che gli stranieri pagano molto di più di quanto ricevono.  Il saldo è notevolmente positivo.

 

Infatti, in Italia gli immigrati versano ogni anno “circa 8 miliardi di contributi sociali e ne ricevono 3 in termini di pensioni e altre prestazioni sociali, con un saldo netto di circa 5 miliardi” (Rapporto INPS, 2016). Lo stesso INPS calcola che sin qui gli immigrati ci hanno “regalato circa un punto di PIL di contributi sociali a fronte dei quali non sono state loro erogate delle pensioni. E ogni anno questi contributi a fondo perduto degli immigrati, valgono circa 300 milioni.” Sentiremo a breve, agli inizi di luglio, la prossima relazione annuale cosa ci racconterà.

Questi immigrati, dunque, saranno pensionati domani, ma in molti casi non riceveranno la pensione italiana. Nel frattempo, questi contributi pagano le nostre pensioni.

 

Buttarli via? Difficile rinunciarvi, in caso contrario dovrebbe intervenire la fiscalità generale e, quindi, per come siamo messi, purtroppo, la finanza pubblica a debito.

A tal proposito, infatti, il Documento di Economia e Finanza 2018, in discussione in questi giorni, presenta delle simulazioni interessanti sul debito pubblico a seconda dell’aumento o meno del flusso migratorio, che non lasciano interpretazioni.

L’aumento del flusso migratorio del 33%, a partire dal 2018, permetterebbe di diminuire il rapporto debito/PIL di circa 19 punti nel periodo 2018-2070. Diversamente, la riduzione del flusso migratorio avrebbe l’effetto di aumentarlo di 22 punti di PIL (DEF 2018-  “Programma di Stabilità”, p.94).

Insomma, l’immigrazione pare faccia bene anche alle finanze pubbliche per il solo effetto che mitigherebbe gli effetti negativi dell’invecchiamento della popolazione italiana, che si ricorderà, dopo il Giappone e la Spagna, è la più longeva dei paesi sviluppati. O più vecchia a seconda delle sensibilità.

Inoltre, dal punto di vista fiscale, il dossier Statistico sull’immigrazione dell’IDIOS per il 2016 stimava un contributo netto di 2,2 miliardi di euro degli immigrati, frutto del saldo tra tutte le entrate fiscali, compresi i contributi sociali, di circa 16,9 miliardi di euro, e il totale delle uscite relative all’immigrazione, ossia tutte le spese sostenute dallo Stato, circa 14,7 miliardi di euro (cfr www.openmigration.org).

 

A fronte di ciò, spendiamo poco o tanto?

 

Nella realtà, “l’emergenza migranti” scoppiata dal 2014 ha comportato per il nostro paese una stima di costi in più, cresciuti rispetto al triennio precedente.

Nel 2016 si è trattato di circa 3,3 miliardi di euro, al netto dei fondi diretti dell’Unione Europea dedicati a tale scopo. Per il 2017, il Documento di economia e finanza dell’anno scorso presentava stime di costi complessivi per 3,9 miliardi di euro, poco più di un quinto di punto di PIL, con una stima di costi che sarebbe potuta salire fino a circa 4,2 miliardi di euro di spesa a seconda del trend degli arrivi. Questa voce di spesa comprende tutte i costi inerenti all’immigrazione, dalle operazioni di recupero a quelle relative all’assistenza sanitaria, all’accoglienza e all’istruzione dei minori non accompagnati. Il consuntivo è stato di 4,3 miliardi di euro, di cui il 68% in spese per l’accoglienza, il 18% per sanità e istruzione e la restante parte per il soccorso in mare. Lo 0,25% del PIL (DEF 2018- “Programma di Stabilità”, p.56), per 120 mila arrivi (non di certo mille al giorno), 183 mila migranti nelle strutture di accoglienza (di varia natura), 130 mila richiedenti asilo di cui 81 mila esaminati e 34 mila approvati (DEF 2018- “Programma di Stabilità”, p. 57).

Le previsioni per il 2018, sempre contenute nel DEF 2018, sono tra i 4,7 e i 5 miliardi di euro di spesa, al netto del contributo UE lo 0,25% del PIL. All’accoglienza sempre una quota intorno al 68% del totale.

Il dettaglio della spesa per i migranti dal 2011 al 2017 si presta a un’interessante lettura (MEF 2017, “Relevant factors influencing debt developments in Italy”, p 79).

Nel 2012 la quota di spesa era più o meno equamente ripartita tra spese di soccorso in mare, spese di  accoglienza e spese per istruzione e sanità. Il fatto che la quota di spesa per l’accoglienza sia aumentata notevolmente è legata al fatto che evidentemente l’afflusso straordinario del triennio scorso ha richiesto maggiore sforzo organizzativo, denotando anche una certa inefficienza forse del sistema in essere. In fin dei conti, ci si perde tra le sigle dell’accoglienza: Hotspot, CARA, CPSA, CDA, ex CIE/CPR, CAS, SPRAR e varie strutture di seconda accoglienza.

La spesa ogni anno, al netto del contributo dell’Unione Europea, è cresciuta in termini di PIL tra il 3 e il 4% in più all’anno. Di contro, i trasferimenti agli enti locali dal fondo per le politiche e i servizi dell’asilo agli immigrati sono, giustamente, saliti nel 2017 a 353 milioni di euro, contro i 92 di due anni prima (DEF 2018- “Analisi e tendenze del bilancio pubblico”, p. 94), pur attestandosi su cifre veramente modeste. E sempre per quest’anno 2018 si segnalano maggiori spese correnti relative ad interventi legati all’immigrazione (CIE, SPRAR e minori) per 50 milioni di euro ( DEF 2018-“Analisi e tendenze del bilancio pubblico”, p. 84).

Non si tratta in definitiva di cifre esorbitanti.

Ora possiamo riparametrare questi numeri a quanto spendiamo in altri rivoli di spesa pubblica, confrontando anche le dinamiche e scopriremo che non c’è nessuna asimmetria o spasmodica ingiustizia se spendiamo un quarto di punto di PIL all’anno per gestire migliaia di persone bisognose di assistenza, sanità, ecc., né tantomeno abbiamo davanti un business miliardario per cooperative o ONG che si occupano di parte di questi servizi. E gli imbroglioni o gli approfittatori li teniamo da parte per il momento, tanto la percentuale è, ahinoi, costante in molti settori economici del nostro paese.

 

Alla fine, si trattasse solo di carità, saremmo disponibili a donare lo 0,025 del nostro reddito annuo? Il reddito medio nel 2017 degli italiani è stato di circa 28 mila euro, si tratterebbe di poco più di 700 euro l’anno, circa 60 euro al mese. E’ troppo?

 

Vi è da aggiungere poi che parte di queste spese sono state scomputate parzialmente dalle regole europee di controllo dei conti pubblici, Maastricht e dintorni. Lo 0,16% del PIL per la precisione di flessibilità in più.

 

Accanto ciò, è utile aggiungere che nella revisione della programmazione delle politiche di coesione per il 2014/2020 (i cosiddetti fondi europei, fondo scoiale europeo e fondo europeo per lo sviluppo regionale soprattutto) da parte della Commissione Europea l’anno scorso, l’Italia ha beneficiato di ulteriori risorse da spendere nel periodo, che sarà di fatto fino al 2023, pari a circa 1,7 miliardi, anche per gestire l’emergenza migranti.

 

Allora il saldo fiscale di tutto ciò che riguarda l’immigrazione non pare essere poi molto negativo, non vi pare?

Qualche considerazione finale

Giunti a questo punto, poche considerazioni finali. Siamo partiti dalla teoria. Abbiamo visto che l’atto migratorio ha molte fondamenta di tipo economico, prime fra tutte quelle di tipo occupazionale e reddituale, difficilmente comprimibili. E’ influenzato anche dal rapporto tra tassi di crescita e tassi demografici, nonché dalla specializzazione produttiva dei paesi e dalla composizione settoriale dell’economia. Abbiamo visto, perciò, come le grandi nazioni europee sono maggiormente attrattive e che sono anche le maggiori beneficiare, in termini di PIL. L’Italia pur non essendo in cima, come molti erroneamente penseranno, alla lista dei paesi attrattivi di immigrati e maggiormente densi di popolazione straniera, beneficia anch’essa del fenomeno migratorio. Abbiamo visto che in Italia gli immigrati lavorano in condizioni tendenzialmente peggiori degli italiani, in settori dove gli italiani arretrano, pur comportando un miglioramento del PIL pro capite. Abbiamo visto che la gestione dei migranti ha dei costi, anche in crescita rispetto al passato, ma i benefici fiscali, sul sistema pensionistico e sulla fiscalità generale, sono complessivamente positivi.

Dunque, ora abbiamo più contezza, seppur in maniera semplice e senza grosse elucubrazioni scientifiche, sui benefici dell’immigrazione per il nostro paese con qualche numero alla mano in più. A ciascuno il suo pensiero.