7 Dicembre 2020
Nel 2020 è esplosa la rotta migratoria dalle coste africane alle isole spagnole
Señorita una manta… señorita un carton… señorita agua… centinaia di voci si mescolano tra loro e cercano di attirare l’attenzione di noi operatrici e operatori racchiusi nelle tute spaziali: molti hanno urgenza di assistenza sanitaria, altri salutano e ringraziano e c’è chi invece chiede di un amico o di un fratello perduti nel delirio del molo.
Il molo di Arguineguin, piccolo centro abitato al sud dell’isola Gran Canaria, è divenuto negli ultimi mesi l’epicentro della rotta migratoria Canaria.
Il campo di emergenza allestito dalla Croce Rossa è attivo dal mese di agosto. Insieme ad altre tre compagne della Croce Rossa di Valencia siamo state chiamate a supportare l’unità locale in un centro di accoglienza di emergenza umanitaria che accoglie 240 persone. Quando non siamo in turno al centro andiamo ad aiutare le compagne e i compagni di Arguineguin.
L’analogia con le stalle degli allevamenti intensivi è inevitabile, centinaia di persone sono ammassate in recinti diversi e il tempo è scandito dalla distribuzione dei pasti, dell’acqua e delle coperte. Si comincia dall’area Covid e si conclude con i recinti dove si trovano gli ultimi arrivati. Prima o poi arriverà uno o più pullman a portarsi via gruppi di persone.
Sono principalmente uomini, giovani e adulti, di origine marocchina e subsaharaiana. Il recinto dei minori non è sovraffollato, ma nei restanti non smetto di incrociare gli sguardi di minori in mezzo agli adulti.
Centinaia arrivano dalle coste del sud del Marocco, altrettanti dalle coste della Mauritania e del Senegal. Alla partenza si calcolano dai due ai quattro giorni di viaggio che spesso si trasformano in sei, sette, otto giorni in mezzo al mare, soprattutto per i subsahariani. Senza acqua né cibo, disidratati sotto il sole e in balia delle onde, piegati nella stessa posizione da giorni, alla deriva in mezzo all’oceano. Molti hanno perso i loro compagni di viaggio. Tutti arrivano al molo fradici e senza forze. Omar, scappato dalla Sierra Leone, chiamerà la famiglia per comunicare la morte di suo fratello, affogato durante il viaggio. Le urla strazianti e le lacrime di dolore sono contagiose.
Negli ultimi mesi la Ruta de los cayucos è ritornata a essere un percorso preferenziale sia per i migranti di origine marocchina che tra i subsaharaiani. I primi la prediligono alla rotta via terra di Ceuta e Melilla e a quella mediterranea. La chiusura delle frontiere e l’aumento dei controlli nelle coste del Nord del paese e ai confini con l’Algeria spinge infatti i giovani marocchini a prediligere l’attraversata dal sud, da città quali Tan Tan e El Ayuun. “Quì i controlli sono ridotti e il viaggio non è particolarmente lungo”.
I migranti di origine subsahariana invece sono a conoscenza della pericolosità della rotta Libica e dei controlli lungo la frontiera Nord del Marocco, raggiungere l’Algeria per loro è ancora più complicato. Per questi motivi prediligono partire dalle coste della Mauritania, del Senegal e meno frequentemente dal Marocco. “La Ruta de los cayucos è più sicura e meno cara”.
L’instabilità politica che attraversa buona parte dell’Africa Occidentale e la crisi economica aggravatasi con la pandemia sono le principali cause di partenza. In Mali esiste un’emergenza climatica, c’è stato un colpo di Stato e i gruppi armati sono una minaccia continua, in Guinea Conakry e in Costa d’Avorio le recenti elezioni hanno riacceso violenze e scontri interni tra fazioni politiche e gruppi etnici diversi.
In tutti i paesi d’origine, in cui il lavoro informale rappresenta la principale fonte di reddito, l’arrivo del Corona Virus ha messo in ginocchio interi settori lavorativi e scatenato una crisi occupazionale generalizzata che colpisce principalmente le giovani generazioni.
Nelle settimane centrali di novembre ad Arguineguin si sono concentrate tra le 2.400 – 2.600 persone, in uno spazio ridotto, complesso e disperato in cui il clima è teso, non solo tra i migranti ma anche tra le operatrici e gli operatori.
A distribuire i pasti siamo in cinque: due si occupano dei succhi di frutta, io dei panini e altre due persone rimpiazzano il banco quando il cibo comincia a scarseggiare, scaricando le scorte dal furgone.
A causa dell’enorme quantità di persone le tecniche di distribuzione cambiano in continuazione: cominciamo in un modo, ma la coda che si crea diventa infinita e ingestibile, così cambiamo strategia fino a trovare quella giusta.
Il banco viene spostato di recinto in recinto e anticipatamente si chiede alle persone rinchiuse di comporre file ordinate e di sedersi a terra. Da un lato si esce e dall’altro si rientra nel recinto. La polizia è onnipresente e ha il compito di mantenere l’ordine pubblico: controllare che le persone non saltino dal recinto per andare in un altro o che non si rimettano in fila per ricevere un altro pasto.
Le tecniche di controllo sono tipiche poliziesche: toni duri e arroganti, minacce, e colpi di manganello se malauguratamente vieni pescato per la seconda volta a fare la fila. Se capita di essere scambiato per un altra persona, vale la legge del più forte e la polizia ha l’ultima parola, quindi subisci.
Noi operatori con la polizia condividiamo lo stesso spazio ma non esiste alcuna forma di collaborazione nel campo di battaglia. Il suo ruolo è quello di controllare e mantenere l’ordine pubblico e basta. Se c’è una richiesta di tipo logistico o di comunicazione la risposta è no.
Quando inizio con la distribuzione dei panini comincio a contare le persone che mi passano davanti ma con scarsi risultati. Troppe volte vengo interrotta dai rumori e dalle voci che si mescolano per dire o chiedere qualcosa.
La regola che mi costringo ad applicare è quella dell’isolamento uditivo e seguire con la distribuzione dei panini. Rispondere a una persona significa dover rispondere alle altre centinaia che chiedono aiuto. Impossibile nel contesto del molo di Arguineguin. La priorità è quella di consegnare il cibo e altri beni di primissima necessità perché da troppe ore le persone sono in attesa. Il via vai di Salvamento Marittimo con a bordo decine di persone tratte in salvo e la carenza di volontari nel molo, ha generato un ritardo nello svolgimento del lavoro. L’equipe sanitaria che opera nell’ospedale mobile della Croce Rossa non smette di effettuare tamponi, di prestare cure mediche basiche, le ambulanze vanno e vengono. Ma moltissimi sono costretti ad aspettare al giorno dopo.
I ritmi somigliano a quelli di una fabbrica, se si inceppa una parte della catena di lavoro s’inceppa tutto e tutto va alla merda.
Bisogna accelerare, ognuno di noi deve accelerare e anche quelli che ricevono il cibo devono accelerare nel fare la coda. Se non lo fai il rischio è quello di prenderti un “docile” colpo di manganello alle gambe per andare più veloce. Non è importante se non hai le scarpe, se sei stanco o se vai zoppo. “Yallah, yallah, rápido, rápido che non possiamo stare qui fino alle 3.00 di notte a distribuire cibo, acqua e coperte” urla qualcuno.
Alla fine della distribuzione dei panini mi posso solo rendere conto di aver incrociato lo sguardo di migliaia di persone. Terminata la distribuzione dell’acqua, 2-3 taniche per ogni recinto, da dietro la tuta spaziale realizzo che le persone sono ammassate, infreddolite e sfinite, costrette a condividere situazioni igieniche al limite dell’accettabile. Per ogni recinto, che “ospita” tra le 80-150 persone, c’è un solo bagno chimico.
Terminata la distribuzione delle coperte, circa alle 2.00 di notte, mi rendo conto che tutti dormono nel suolo umido della notte e fanno a gara per accaparrarsi un pezzo di cartone. Scoprirò la mattina dopo che quel giorno erano circa 2.400 persone.
Nelle settimane trascorse tra Arguineguin e Puerto Rico si è assistito al collasso del sistema d’intervento di emergenza umanitaria, a una violazione dei diritti umani fondamentali e all’ennesima incapacità politica a livello nazionale e europeo di far fronte agli arrivi e alla loro gestione.
Lo scenario di Arguineguin è l’ennesimo che si ripete. El muelle de la vergüenza è solo un altro luogo di approdo che si aggiunge alla lunga lista di quelli già esistenti dislocati al sud dell’Europa, che da troppo tempo sono costretti a far fronte in solitudine a masse umane in fuga.
Calcolare gli arrivi giornalieri è praticamente impossibile, l’unica cosa certa è che tutti i giorni arriva almeno una segnalazione per andare a prestare soccorso. Altri giorni invece Salvamento Marittimo non smette di fare avanti e indietro dal molo.
Gli operatori umanitari in prima fila, accusano il peso dell’impotenza e della solitudine, di fronte a una situazione diventata complessa e difficile a causa del sovraffollamento improvviso e dell’incapacità politica di attivare i trasferimenti dei migranti in strutture di accoglienza nella penisola.
Gran Canaria ospita circa 7.000 persone, accolte in strutture alberghiere sparse per tutta l’isola riconvertite in centri di accoglienza di emergenza umanitaria e gestite dalla Croce Rossa. Il trasferimento in queste strutture non è immediato e trascorrono giorni prima dell’assegnazione di un posto, nonostante le persone non possano stare più di 72 ore nel molo.
Anche nei centri di accoglienza la tensione è alta ogni giorno: gli usuari, specialmente tra i marocchini, vogliono raggiungere la penisola e tutti sono a conoscenza dei voli di rimpatrio. Le informazioni sul rilascio del passaporto e sulle modalità di viaggio alla penisola sono confuse, non smettono di circolare e generano malesseri, scioperi della fame e tantissimi abbandoni della struttura. Il centro di accoglienza se da un lato diventa un luogo sicuro dalla polizia allo stesso tempo si trasforma come una prigionia forzata senza celle in cui il tempo è scandito principalmente dagli orari dei pasti e dai 15 giorni di quarantena preventiva.
Si è liberi di abbandonare l’accoglienza ma il rischio è quello di essere fermati dalla polizia, essere rinchiuso nel CIE dell’isola e restare in attesa di essere messo su un volo di rimpatrio.
È difficile dare delle risposte alla massa di giovani presenti nel centro che vogliono raggiungere la penisola: si organizzano assemblee per ascoltare e discutere dei problemi, si facilitano informazioni legali e di viaggio per richiedere protezione internazionale o per ricevere il passaporto.
Molti degli ospiti necessitano di cure sanitarie e di supporto psicologico: ogni giorno con il supporto di un equipe medico che arriva dalla capitale dell’isola (categoria ugualmente esautorata dal lavoro) assistiamo decine di persone con ustioni nel corpo e traumi fisici vari.
Soprattutto i primi giorni intercettiamo i minori presenti nella struttura, diamo informazioni rispetto ai diritti e offriamo la possibilità di incontrare un avvocato; parallelamente diamo appoggio per stabilire un primo contatto telefonico con i familiari nei paesi d’origine e aiutiamo a intercettare figli separati dai padri e trasferiti in centri per minori.
A fine novembre El muelle de la vergüenza è stato “svuotato”. É stato aperto il nuovo centro CATE (Centro de Atencion Temporal a Extranjeros) di Barranco Seco, altri sono in fase di allestimento e nuovi hotel sono stati riconvertiti in centri di accoglienza.
Il CATE di Barranco Seco, vecchia polveriera ubicata nelle campagne de Las Palmas, si presenta come un agglomerato di tende militari capaci di “ospitare” 600 persone. La sua capacità è già stata ampliata per poterne accoglierne 1.000. La sua funzione dovrebbe essere la stessa del campo del molo di Arguineguin, ma i dubbi sono concreti.
Il rischio è che insieme ai migranti si trasferisca anche la sospensione e la violazione dei diritti umani e di generare un nuovo dramma umanitario. La unica differenza è che il nuovo non-luogo è di difficile accesso e lontano dai riflettori.
Non è chiaro se alle persone traferite quì venga garantita la libertà di movimento e non sono chiari i tempi di permanenza. Nell’arco di 72 ore dovrebbe essere garantito il trasferimento in centri di accoglienza (sempre nel rispetto della volontà di ciascun individuo), ma di fronte al collasso delle strutture alberghiere, ai mancati trasferimenti nella penisola e agli arrivi che non si fermano, si può già immaginare la nascita del Campo de la vergüenza.
Ovviamente i CATE, i centri di accoglienza già presenti e l’apertura di nuovi, non possono essere la soluzione a lungo termine. La preoccupazione più ricorrente tanto tra gli abitanti canari quanto tra le operatrici e gli operatori umanitari è quella della nascita di una Lesbos spagnola: i primi temono la diffusione di un’immagine negativa dell’isola e un ulteriore crollo del settore turistico già messo in crisi dalla pandemia. L’incapacità politica di far fronte agli arrivi, alla organizzazione e gestione dei ricollocamenti nel territorio spagnolo, lascia spazio alla crescita di odio e razzismo.
I pescatori locali protestano da settimane perché privati della concessione di attracco al molo che ha avuto come conseguenza diretta il blocco della pesca; l’associazione degli albergatori dell’isola chiede un’immediato ricollocamento nella penisola e la chiusura degli hotel-accoglienza. Il partito di Vox è il principale partito politico a farsi portavoce del malessere diffuso tra cittadini e lavoratori dell’isola.
Gli operatori e le operatrici della Croce Rossa insieme ai rappresentanti di diverse ONG e di reti di avvocati che si occupano di diritti umani e migrazioni, sono invece consapevoli del rischio di una continua e ripetuta violazione dei diritti fondamentali e delle difficoltà di gestione del lavoro che avviene in totale solitudine.
Tutti hanno consapevolezza che arriverà il momento di una nuova esplosione in termini di numeri, che non riguarderà più solo il molo di Arguineguin ma buona parte dell’isola.
Il governo spagnolo che non dispone di un sistema di accoglienza solido nella penisola e consapevole di non poter contare sulla solidarietà europea, ricorre alla messa in atto di piani politici nazionali e internazionali volti a inasprire la gestione dei flussi migratori attraverso un massiccio controllo delle frontiere e la riattivazione dei voli di rimpatrio.
In una settimana il Ministro degli Esteri spagnolo ha incontrato i colleghi marocchini, algerini e senegalesi per discutere l’attivazione di nuovi patti volti a aumentare in maniera massiccia il controllo delle frontiere e riattivare voli di rimpatrio.
Quale possa essere la linea “corretta” da seguire è complicato e banalmente non esiste una soluzione comune. Sicuramente, prendere atto della grave violazione dei diritti umani e della crisi sociale, politica economica e ambientale che sta travolgendo interi continenti, compreso quello europeo, è un dovere politico.
Un approccio capace di tenere in conto questi aspetti, risulta fondamentale per smettere di affrontare la crisi migratoria solo in termini di legalità, sicurezza ed emergenza che ha creato come effetto più marcio quello della diffusione di odio e xenofobia.
La promozione di canali legali di viaggio accessibili, continua essere invece l’unica alternativa per far fronte alla tratta di esseri umani e alla perdita di vite che cercano di raggiungere l’Europa.