22 Dicembre 2020
Viaggio nello stato di salute della democrazia francese con la giornalista Marine Vlahovic
La nuova legge francese sulla sicurezza ha fatto molto discutere in Francia e non solo. In particolare l’articolo 24 che introduce un nuovo reato per chiunque diffonda immagini in grado di «danneggiare l’integrità fisica e morale» degli agenti di polizia e che – secondo i critici- sarebbe una limitazione della libertà di espressione.
Fare video e riprese a livello amatoriale e/o professionale durante manifestazioni o altri eventi pubblici significherebbe compiere un reato.
Abbiamo chiesto a Marina Vlahovic, giornalista freelance francese, di raccontarci questa legge e la reazione dell’opinione pubblica francese, per capire quanto racconti dello stato di salute della democrazia in Francia.
Perché in Francia la legge sulla sicurezza ha sollevato così tante proteste?
In realtà, devo dire che qui mi trovo ad avere due punti di vista: quello da giornalista, che è un po’ “illegittimo” perché è diverso tempo che non seguo in prima persona come reporter le manifestazioni in Francia, e quello della cittadina, che per me è molto importante. Dal mio punto di vista qui in Francia non c’è stata una grande indignazione per la proposta di legge. Ci è voluto molto tempo perché anche le organizzazioni di professionisti ne capissero il pericolo. Mi ricordo che a inizio novembre questa legge passava alla Commissione delle leggi – che è dove le leggi vengono esaminate prima di andare in Parlamento. E in quel momento non ho visto nessuna reazione da parte delle organizzazioni professionali. Questo mi ha un po’ infastidita perché le proteste sono arrivate solo da pochi, non è stato presentato un fronte unito e forte fin dall’inizio. Il problema è che questa è una legge arrivata come una legge da esaminare e votare in emergenza, con un legame con gli attacchi terroristici che, in realtà, non c’entrano nulla. Il governo ha molto giocato su questo “effetto sorpresa”. Poi un po’ alla volta le organizzazioni delle varie testate, le organizzazioni per i diritti umani e i sindacati dei giornalisti si sono organizzati, ma è stato comunque qualcosa di molto lento per me. Se guardo la legge nel suo insieme, e non solo all’articolo 24, su cui i giornalisti si sono concentrati, mi fa paura perché temo che passerà. Quindi qui in Francia la reazione non è stata così forte, durante le manifestazioni c’erano poche persone in strada, anche per via dell’epidemia, ma io non sento che c’è una reazione forte da parte della società francese nei confronti di questo pericolo.
Quindi per te c’è stata una reazione più forte da parte della stampa internazionale ed europea?
Sì, secondo me sì. Ho visto molte critiche nella stampa internazionale verso questa legge, anche da prima, in realtà, che si iniziasse a parlare di questa legge. Diciamo che con tutto il discorso sull’Islam, il separatismo… si è verificata una sorta di frattura con la stampa canadese, americana e britannica. Non posso dire che in Francia non ci sia stata una reazione, ma è arrivata tardi. Mi ricordo che il primo editoriale un po’ più forte sulla questione dell’articolo 24 è uscito su Telerama, un magazine culturale. Io penso sia anche un po’ necessario fare un’analisi di classe. Chi sono i giornalisti che vanno a lavorare nei giornali, alla tv o alla radio oggi in Francia? Sono principalmente precari. Sono giovani che non hanno nemmeno il tesserino dell’ordine perché non guadagnano abbastanza [Per ottenere il tesserino dell’ordine dei giornalisti in Francia, così come in Italia, bisogna dimostrare di avere percepito un determinato compenso nell’arco di uno specifico numero di anni ndr]. I giornalisti che vanno sul campo, alla manifestazioni sono quasi tutti precari, chi invece avrebbe un po’ di peso non va nelle manifestazioni da anni.
La mobilitazione poi c’è stata, anche da parte dei giornalisti. C’è una petizione partita da dei fotografi nel Sud della Francia come atto di disobbedienza civile che dice che se questa legge passerà loro non la rispetteranno, pur rischiando di essere puniti. Io sono una giornalista freelance, lavoro soprattutto con la radio. Dal 2016 al 2019 ho lavorato a Ramallah (Palestina) dove ho coperto le manifestazioni. Il pericolo maggiore in quelle situazioni è l’esercito israeliano. Era il 2018 e Israele aveva scritto un progetto di legge per vietare a giornalisti, reporter e organizzazioni di filmare i soldati israeliani in Cisgiordania e territori occupati. Questa legge non è mai passata perché là la legge deve essere letta in Parlamento per tre volte prima di essere approvata. È passata solo alla prima lettura perché è una cosa troppo scandalosa. Quando anche qui in Francia a fine ottobre e inizio novembre si è parlato di questa legge ho pensato che fosse paradossale che una legge del genere non fosse stata approvata in Israele, ma invece rischiasse di passare qui. Questa è stata la mia prima reazione. Da inizio anno l’epidemia è diventata una scusa per far approvare misure contro le quali io, come cittadina, mai avrei mai pensato di dover manifestare. In Francia le chiamiamo ‘leggi liberticide’. Le libertà primarie sono in pericolo come non ho mai visto prima. E per me il paragone con Israele è molto interessante. Mi ricordo la paura che avevo mentre ero là, la paura di non poter fare il mio mestiere perché se seguo una manifestazione ma non posso stare vicino ai soldati ne filmarli, cosa devo fare? Come lavoro? E adesso qui mi trovo nella stessa situazione ma nel mio Paese, in Francia. Negli ultimi anni, da quando ci sono state le manifestazioni dei gilet gialli, ci sono stati dei forti attacchi ai giornalisti che venivano sia dalla parte ufficiale, ovvero dal governo attraverso la Prefettura e la polizia, sia dalla parte dei manifestanti. I giornalisti si sono trovati tra due forze che hanno smesso di rispettare il lavoro che fanno.
Secondo te sarebbe giusto trovare un modo per tutelare gli agenti di polizia durante le manifestazioni per evitare che vengano esposti dalla stampa in contesti durante i quali per loro è stato necessario usare la violenza?
Il problema è che questa non è la motivazione che ci viene data per la legge. La ragione che danno è totalmente falsa e strumentalizzata. Loro dicono se tu mostri il viso dell’agente di polizia questo potrebbe provocare attacchi terroristici contro di loro. Loro fanno riferimento a un attacco terroristico a Magnanville, nel 2016, durante il quale un poliziotto e sua moglie, anch’essa poliziotta, sono stati uccisi da parte di alcuni islamisti. Questo però è stato quattro anni fa, non c’è nemmeno un collegamento con le manifestazioni, i poliziotti e la violenza. È una fortuna che in Francia si possa filmare la violenza della polizia: per i giornalisti è un lavoro, per i cittadini è un dovere sapere. Oggi c’è in Francia una forza di polizia che in maggioranza vota per Front National che dal mio punto di vista si sta staccando dal resto della società per diventare sempre più una milizia politica. Il razzismo poi è sistematico. Cioè il dovere delle istituzioni francesi dovrebbe essere di analizzare questa situazione. Da sei mesi ci sono vari servizi su queste questioni e in particolare consiglio l’ascolto dell’episodio podcast “Guardian de la paix” Praticamente racconta la storia di una chat Whatsapp di poliziotti dove loro prendono in giro un loro collega nero. Questo razzismo quindi non è solo nei confronti della gente che loro dovrebbero proteggere e controllare ma anche contro persone che lavorano con loro. Il poliziotto preso di mira, che si chiama Alex, ha tenuto traccia di tutte le conversazioni di Whatsapp e ha fatto aprire un caso. Anche Streetpress che lavora molto sulla violenza della polizia ha fatto un articolo sui gruppi Facebook dei poliziotti, dove anche lì c’è razzismo. In Francia c’è anche la testimonianza di Valentin Gendrin. Lui è un giornalista che si è infiltrato nella polizia per diversi mesi e che ha raccontato la sua esperienza in “Flic”[il francese “flic” in italiano potrebbe essere tradotto con “sbirro” ndr], il suo ultimo libro. In questo modo lui racconta la vita di un commissariato, il rapporto con i colleghi, il razzismo, il modo che loro hanno di essere violenti con i giovani, gli arabi, i neri, i migranti. E alla luce di queste testimonianze mi viene da dire meno male che noi giornalisti lavoriamo su queste questioni. Il lavoro giornalistico è molto importante, noi siamo i vigili della polizia o meglio, delle politiche pubbliche. C’è bisogno di vigilare su queste questioni. Noi siamo quelli che vanno a dare al pubblico le informazioni su queste politiche. Per me questa legge è molto interessante perché avviene in parallelo con una presa di consapevolezza da parte dell’opinione pubblica della violenza della polizia. Mi ricordo tanti anni fa, nel 2014 e 2015 quando queste questioni erano viste come al margine della società, succedevano in periferia o contro i dissidenti politici. Adesso invece la gente si è un po’ resa conto che si tratta di un fenomeno generalizzato, tutti possono essere vittima della violenza della polizia. Il caso di Michel [Zecler ndr] ha suscitato molta indignazione in Francia. Lui è un produttore nero di musica che è stato picchiato dalla polizia nel suo studio di registrazione. Qui la gente ha davvero aperto gli occhi. Ma io mi domando: quanti Michel ci sono in giro? Lui aveva le telecamere di video sorveglianza e questo ha permesso alla questione di emergere. Per questo poter riprendere, filmare è importante.
Come questo razzismo sistematico nella polizia impatta la comunità musulmana francese?
Diversi anni fa mi sono occupata per lavoro delle relazioni fra gli abitanti della periferia parigina e la polizia. Ho lavorato sul caso di un anziano algerino che aveva lavorato per tutta la sua vita in Francia e poi quando è andato in pensione si è spostato tra la Francia e l’Algeria, Marocco. Una volta, al ritorno, è stato arrestato con un suo amico. Lui è entrato in commissariato e non ne è più uscito. Il problema è che queste fasce sociali sono più deboli e fanno più fatica a difendersi. Allora io ero tornata ad Argenteuil, nella città dove era successo, e ho interrogato un po’ i giovani anche per capire il loro rapporto con la polizia. La gente era sotto shock perché per loro, mi hanno raccontato, era la prima volte che un episodio simile si verificava nei confronti di qualcuno che non fosse un giovane. Non era più una questione di estrazione sociale, era qualcosa che poteva colpire chiunque all’interno della comunità.
Io so di essere privilegiata: sono bianca, ho il tesserino dell’ordine e se mi capitasse qualcosa probabilmente ce la farei. Ma in queste ultime settimane mi è venuto timore. A inizio novembre io ero alla manifestazione e davvero ho temuto perché mi sono detta che adesso loro [i poliziotti ndr] possono fare tutto quello che vogliono a chiunque vogliano. C’è un problema di razzismo sistematico ma con questa legge sarà più pericoloso per tutti, sia le fasce più vittime del razzismo sia chi in precedenza dal razzismo non era sfiorato.
Il problema qui non è solo l’articolo 24. C’è anche l’articolo 25 che permette ai poliziotti di conservare la loro arma fuori servizio che è una cosa rischiosa, con già parecchi precedenti. C’è l’articolo 22 che prevede l’uso sistematico dei droni per il controllo dei manifestanti. È un bel progetto di società controllata. All’inizio pensavo che loro avrebbero deciso di cancellare l’articolo 24 per via della reazione dei giornalisti. Ma in realtà su questa legge c’è un problema di filosofia generale.
Cosa pensi della riforma dell’integrazione?
Ne penso molto male. Personalmente in Francia vedo una tendenza molto brutta negli ultimi anni, ovvero quella di usare i musulmani come capro espiatorio. Io ho vissuto in paesi musulmani e ne conosco la cultura, ma il modo in cui loro parlano della cultura musulmana non corrisponde alla verità e non corrisponde nemmeno alla cultura musulmana francese. E quando i politici parlano mi rendo davvero conto della loro ignoranza a riguardo. Utilizzare la comunità musulmana come se fosse un gioco, una scusa da dare all’opinione pubblica mi sembra una cosa pericolosa. Gli attentati terroristici sono una questione seria e a parte rispetto alla cultura musulmana. I politici non lo vogliono vedere perché non conoscono né il Medio Oriente né le sue culture. Macron ha completamente girato le spalle a questa regione. Ed è dagli ambienti politici che viene il problema, non dalla società. Per me quindi questa è una legge pretesto.
Come stanno i musulmani in Francia?
I musulmani nella società francese sono integrati. Il problema è che non sono integrati nel discorso politico e istituzionale. Tante questioni ufficiali hanno come motivazione sottesa il voler dipingere una comunità che non è integrata. Loro sono integrati ma la politica dice il contrario. Dice loro che non c’è voglia di affrontare le problematiche sociali fino in fondo, mostra che non c’è voglia di esaminare le questioni post-coloniali. É sempre più facile indicarli come una comunità religiosa diversa e differente quando in realtà è la seconda religione di Francia. Si continua a riferirsi a loro come a una minoranza quando non sono assolutamente una minoranza. Affrontare davvero questo richiederà molto tempo perché la Francia ha ancora un rapporto doloroso con la guerra di Algeria. Bisogna affrontare il diverso sociale, ed è preoccupante che non lo si voglia fare. Questa legge sull’integrazione dà un’idea molto chiara di come ci sia l’intenzione di far rientrare le persone in una determinata categoria. Per esempio loro limitano anche la possibilità di fare scuola a casa. Magari questo non riguarda molta gente, ma tocca persone che avrebbero voluto vivere in modo alternativo, che fanno ricerche pedagogiche, che rifiutano il modello repubblicano e così via.
Sui social ma non solo tutti coloro che criticano questa legge sono chiamati ‘islamo-gauchistes’ [Crasi delle parole ‘gauche’ – sinistra – e ‘islamic’ – islamico. Utilizzato in modo spregiativo dalla destra francese indica le persone che hanno un approccio di integrazione e accoglienza verso la comunità musulmana ndr]. Questo è un insulto che da anni l’estrema destra utilizza per tacciare chi si esprime a favore di un approccio di integrazione e accoglienza verso la comunità musulmana [anche nel discorso politico]. Adesso non appena ci si scosta dal discorso ufficiale, dicendo magari che la questione musulmana è più complessa, subito anche i ministri ti dicono che sei un islamo-gauchist. Loro in questo momento stanno imponendo un modello che è un aut-aut: o sei nel giusto o sei nello sbagliato. Non c’è più una via di mezzo, una zona grigia dove si può discutere. Per me è proprio una questione di integrazione nelle istituzioni. Il problema è che le istituzioni francesi non integrano granché. Quando guardi questo governo cosa vedi? Sono tutti bianchi, uomini, di 40/50 anni. Dov’è la diversità della società francese? La società nella realtà è molto più variegata perché c’è una storia coloniale molto antica, ma questo non si riflette nelle istituzioni. Quando venne eletto, tanti anni fa, un sindaco di Londra pakistano, mi ricordo che i media francesi titolarono qualcosa come “un uomo pakistano eletto a Londra”. Loro puntano ancora molto sull’aspetto razziale, se il candidato eletto fosse stato ebreo o cristiano non avrebbero certo titolato così. Se si nota ancora la diversità vuol dire che il processo non è completato e qui è molto lento.