«Fino alla sera del 13 luglio, fino al primo appuntamento con Miroslav Deronjić, la principale preoccupazione del colonnello Beara era stata scegliere un numero sufficiente di esecutori fidati, di quelli che non avrebbero fatto molte domande né avrebbero raccontato alcunché, e di convincerli in segreto a eliminare in un paio di giorni alcune migliaia di uomini.»
Se il nome di Ljubiša Beara non vi dice nulla, conoscete già uno dei motivi perché vale la pena leggere Metodo Srebrenica di Ivica Đikić. Se lo conoscete, sapete già perché dovete farlo.
Giornalista e scrittore, poco più che 40enne, Ivica Đikić ha lavorato nel magazine Feral Tribune, una testata iconica negli anni Novanta in Croazia, quando il nazionalismo dilagava in tutta la regione e loro andavano controcorrente, denunciando i crimini di guerra dell’esercito croato.
Poi è passato al quotidiano fiumano Novi List, per approdare infine a Novosti, settimanale della minoranza serba in Croazia. E per tenere fede alla sua fama – meritata – di penna libera e controcorrente, pubblica nel 2016 un libro straordinario sul genocidio di Srebrenica.
Oggi quel libro, Metodo Srebrenica, appunto, è stato finalmente tradotto in italiano dal grande Silvio Ferrari e pubblicato da Bottega Errante. Anche autore di romanzi, Đikić con Cirkus Colombia ha vinto il prestigioso premio Selimović e il regista premio Oscar Dani Tanović ne ha tratto un film. E’ molto noto anche per la serie tv Novine, ambientato a Rijeka, sugli oscuri risvolti del mondo del giornalismo e della politica, che ha ottenuto un gran successo su Netflix.
Ma torniamo a Beara, a luglio 1995, a Srebrenica. La guerra in Bosnia-Erzegovina sta finendo, l’esercito dei serbi di Bosnia è in difficoltà, Belgrado prende le distanze, l’enclave musulmana protetta dall’Onu è un obiettivo strategico fondamentale per garantire un collegamento futuro diretto con la Serbia. Ed è qui che entra in scena Beara.
«Chi avrebbe ucciso? Chi sarebbe stato direttamente incaricato di sparare sui prigionieri, al fianco di tutti coloro che ardevano dal desiderio di uccidere o cui, per un gioco della sorte, stava per offrirsi l’occasione di scoprire l’assassino che era in loro? Bisognava prendere in serie considerazione la scelta degli uccisori»
Ljubiša Beara, ufficiale della JNA, l’esercito jugoslavo, viene sorpreso dalla guerra, come molti suoi connazionali? O la aspettava? Queste e altre domande si pone Đikić, che decide di affrontare il genocidio di Srebrenica con il passo del giornalista e la penna dello scrittore. Come spiega lui stesso nell’ottimo prologo.
«All’inizio del 2014, tutto a un tratto, mi apparve chiaro che il documentarismo, totalmente depurato da ogni tratto di finzione, o dove la finzione è in eccesso, con elementi romanzeschi profondamente inseriti nella struttura del testo e nell’approccio narrativo, era l’unico modo per scrivere un lavoro completo su Srebrenica.»
Uomo di confine, Đikić sceglie di ricostruire quelle ore momento per momento, correndo lungo le strade della profonda Bosnia, come gli autobus carichi di prigionieri che vagano per giorni da un luogo all’altro in quell’estate del 1995. Uno dei grandi orrori del Novecento diventa una cronaca tetra, ma raccontata dal punto di vista dell’uomo che aveva il compito di sterminare migliaia di persone.
Đikić prova a capire come è possibile, come può accadere. Lo fa con un linguaggio a tratti spartano, con una cronaca romanzata, un romanzo di fatti di cronaca. E decide di farlo anche per un debito da saldare.
«Non riesco a ricordare in nessun modo cosa stessi facendo in quei giorni di metà luglio del 1995, mentre l’esercito serbo uccideva in massa i prigionieri bosgnacchi di Srebrenica.[…] Le notizie della caduta di Srebrenica, e successivamente quelle dell’inaudita strage, mi avevano solo sfiorato emotivamente, passandomi accanto come quelle persone che conosci da tempo e incroci da sempre, ma con cui non sei mai andato più in là di un saluto di cortesia»
Ma chi è Ljubiša Beara? «Tutta la sia vita si era fondata in modo concreto e rigidamente formale sull’antifascismo, sulla convinzione che i campi di concentramento, a memoria dei quali era rimasta la cenere delle ossa umane e della ragione, erano il più grande male della storia dell’umanità», racconta Đikić. Come è possibile che l’uomo e il soldato capace, ancora nel 1992, di farsi mandare a processo per aver arrestato paramilitari serbi che minacciavano i soldati regolari diventi l’architetto di Srebrenica?
Secondo Đikić “per il colonnello Beara, come per la gran parte degli ufficiali e delle persone in generale, la cieca adesione a un’idea, una nazione, un partito, una religione o a un gran riferimento storico del genere rappresentava la luce, l’ossigeno, l’acqua, costituiva l’elemento senza il quale l’esistenza era inconcepibile. La non appartenenza non era un’opzione: il colonnello Beara non aveva il carattere per il ruolo dell’isolato senza interesse per la gestione delle masse, nemmeno ci pensava a perdere l’occasione della guerra per cui aveva studiato e si era preparato tutta la vita. Gli era più facile cambiare e ridefinire, delimitare, ciò che si intende o si intendeva con la formula ‘difesa del proprio popolo’ piuttosto che opporsi all’impulso di partecipare a nuove dimostrazioni.”
Può essere, dunque, che semplicemente all’adesione al sogno socialista jugoslavo si fosse sostituito quello nazionalista? O c’è anche la paura, nel suo zelo? Perché negli equilibri del futuro c’era da compiacere Ratko Mladić – il comandante dell’esercito dei serbi di Bosnia – e il ‘clan di Knin’, come veniva chiamato il cerchio magico di Mladić, fatto da ufficiali della città all’epoca capitale del separatismo serbo in Croazia?
O semplicemente, di fronte alla fredda contabilità dell’orrore, Beara si limita a fare quello che ha fatto per tutta la vita: ubbidire. E da tutta la ricostruzione di quelle ore, da documenti e testimonianze e intercettazioni, quello che emerge è questo: Beara voleva far bene il compito che gli era stato assegnato. Senza odio, senza adesione, o almeno questa non emerge. Si racconta un uomo che si sfianca per eseguire un ordine mostruoso.
Quale ordine? “Nella notte tra il 16 e il 17 luglio del 1995 il colonnello Beara potè tirare le somme. Dal pomeriggio di giovedì 13 luglio fino alle ore pomeridiane e serali di domenica 16 luglio, sul territorio di Bratunac e Zvornik erano stati uccisi circa ottomila bosgnacchi, fra maschi adulti, giovani e bambini di Srebrenica”.
Tutto attorno a Beara si intrecciano mille fili: i politicanti come il citato Miroslav Deronjić che cerca di non far massacrare i bosgnacchi nel suo comune, solo per non avere problemi, i caschi blu delle Nazioni Unite che abbandonano al loro destino migliaia di persone, Mladić che ormai è in rapporti pessimi con l’ex sodale Radovan Karadžić, il capo politico dei serbi di Bosnia, intelligence contro soldati, civili serbi invasati dalla vendetta di torti a loro volta subiti in passato, militari bosgnacchi che potevano intervenire, ma non lo fanno.
Un puzzle complicatissimo, ma Beara sembra quasi in un’altra dimensione, tutto preso da cose pratiche: chi sparerà? E sceglie i peggiori. Tra gli altri il famigerato 10° reparto guastatori, mercenari e criminali comuni, come Marko Boskić, detto il ‘gatto’, croato, Franc Kos, sloveno, detto il ‘giallo’, Zijad Zigić, addirittura bosgnacco egli stesso. Ma come poteva un vecchio soldato come Beara star con loro?
Semplice, ne aveva bisogno. Non è facile uccidere, tecnicamente, 8mila persone. Non è facile assicurarsi che nessuno parli, non è facile nascondere 8mila corpi. Beara corre di qua e di là, tra un vecchio mattonificio e un albergo, dove l’orrore prende i luoghi e le forme del quotidiano.
Un libro che non dimentica, perché mai venga il dubbio di ‘umanizzare’ troppo Beara e gli almeno 80 ufficiali coinvolti nel genocidio, c’è stato anche chi ha saputo dire di no. Come il colonnello Slobodan S., serbo in servizio a Zagabria quando scoppia la guerra e che abbandonò l’esercito per non dover scegliere. Restò povero, vivendo in periferia e facendo l’autista per il giornale Feral. O il Contrammiraglio Vladimir Barović, che di fronte all’ordine di cannoneggiare Dubrovnik, preferisce spararsi un colpo in testa.
Facile identificarsi con loro, con chi ha saputo dire no. Ma è con i Beara che si fa il giornalismo e la buona scrittura, perché è grazie ai Beara che possiamo provare a scendere a fondo, come solo il buon giornalismo narrativo sa fare, per capire come può accadere Srebrenica. Ed è per questo e per molto altro che Metodo Srebrenica va letto, per il coraggio di affondare nella banalità del male, rendendolo reale, concreto. Perché il rischio, nonostante le grandi condanne che Beara e gli altri hanno ricevuto, è che una mostruosità così grande sembri anche disumana. E sono invece essere umani a ordinarla, pianificarla ed eseguirla. Esseri umani che vanno raccontati così, per mostrare come il male può essere un banale burocrate della morte.
«Ciò che produsse morte nella metà di luglio del 1995 sul territorio di Srebrenica, Bratunac e Zvornik fu un’improvvisata struttura del male, costruita personalmente dal colonnello Beara, e per di più in corso d’opera, per servire allo scopo e per mostrare al generale Mladić e a tutti gli altri di essere capace di organizzare un eccidio di dimensioni inimmaginabili»