Sradicamento di corpi e di memorie

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13 Gennaio 2021

L’espropriazione coloniale della terra in Palestina

Essere terra ed essere donna. Essere una donna fatta della propria terra, un corpo che vive le stesse stagioni, gli stessi bui, le stesse luci, le stesse espropriazioni. Essere la propria terra sinuosa, fertile di lingua, odori, concetti. Sliman Mansour sembra dirci questo, nell’opera. Artista palestinese considerato tra i più importanti della contemporaneità, i suoi lavori esprimono a pieno la risoluzione palestinese nel restare, confondendosi con la propria stessa terra: nelle sue opere, infatti,c’è visivamente il legame tra i corpi fisici a quelli tellurei, i tempi vitali e quelli terrestri.

C’è un concetto, in Palestina, che consente di rintracciare a pieno questo stato dell’anima e della terra: è il concetto di Sumud. Sumud è un rapporto specifico col mondo, una connessione vitale col suolo: corrisponde, quasi, alla resistenza passiva, alla resilienza, ma è proprio nell’approssimazione celata in quel quasi che si intravede la presenza di tanto altro.

Come in ogni parola cara ad una lingua per le stratificazioni concettuali e semantiche che porta con sé, c’è, nel Sumud palestinese, la storia di corpi che restano di fronte allo sradicamento, all’esilio, alla separazione, alla perdita. C’è, nel Sumud palestinese, la maniera di definire questo proprio stare al mondo in una lingua specifica, che è la stessa trasmessasi di cordone ombelicale in cordone ombelicale, nel tempo e nello spazio familiari. Termini fisici che hanno a che vedere con la maniera di vivere (anche a livello produttivo) e percepire il contesto attorno, e che derivano, fisicamente, dal focolare domestico e comunitario. Sumud è madre terra e lingua madre, lo stare al mondo con e per queste.

Scrive Mahmoud Darwish

“[…] Sentiremo le voci dei nostri antenati nei venti, ascolteremo il loro pulsare nei germogli dei nostri alberi. Questa terra nostra progenitrice è tutta sacra pietra per pietra, questa terra è una capanna di dei che abitarono con noi, stella per stella ci illuminarono le notti di preghiera. Camminammo scalzi per toccare l’anima delle pietre camminammo nudi perchè lo spirito ci inondasse, spirito dell’aria, donne, per riportarci i doni della natura. La sua storia era la nostra storia.[…]” [1]

Possiamo allora pensare alla lingua come a qualcosa di fisico, che prende corpo nella voce ed evoca memorie lontane; lingua inscritta nel corpo materno e in quello terragno, nel seno delle generazioni passate e nella fioritura del nuovo. Lingua-madre che, nella colonia, viene sradicata: così come vengono sradicati alberi, villaggi, corpi, permanenze, tradizioni, saperi, dimore. Di questa operazione di sradicamento si serve il potere coloniale – ieri come oggi – per fondare invisibilità e assenza.

Quella del palestinese è una presenza dell’assente, di chi è espulso da un luogo e congedato dal tempo. La sua esistenza è un’esistenza temporalmente e spazialmente recisa da passato, presente e futuro.

Opera di Sliman Mansour

L’occupazione israeliana si lega visceralmente alle pratiche di espropriazione della terra. Il dispositivo coloniale, d’altronde, risponde alla necessità di addomesticamento dei corpi terrestri, fisici ed epistemici ai fini di sfruttamento, produzione e riproduzione. Questi corpi alienati delineano dunque una topografia ben precisa di quello che vuole essere il progetto del colonialismo israeliano: la pulizia etnica di un popolo rimosso dalla narrazione e dall’immaginario.

Se possiamo chiaramente affermare che lo Stato Israeliano inscrive le sue politiche all’interno di una dinamica coloniale, allo stesso tempo, il suo corrisponde a un colonialismo di insediamento, che “opera secondo una logica eliminatoria nei confronti dei nativi, espulsi dall’ordinamento politico dei coloni” [2] , e si accaparra le risorse di un territorio “a scapito del sostentamento delle popolazioni e degli ecosistemi locali” [3] . Ce lo ricordano bene Enrico Bartolomei, Diana Carminati e Alfredo Tradardi in “Esclusi. La globalizzazione neoliberalista del colonialismo di insediamento” (DeriveApprodi, 2017).

Agli esordi dell’occupazione lo Stato d’Israele procedeva col costruire nuovi insediamenti ebraici sui villaggi palestinesi distrutti. Qui, dopo l’esproprio, venivano dati nuovi nomi ai luoghi conquistati, col chiaro intento di ebraicizzare la geografia della Palestina.

Questa manipolazione è imperniata attorno a quello che Michel Foucault definisce regime di realtà, la narrazione della quale il potere coloniale si serve per legittimare le sue azioni.

Sin dal 1901, il Jewish National Fund (JNF) ha piantato più di 240 milioni di alberi in quelle che, grazie a tale operazione, poco a poco sono state dichiarate terre dello Stato Israeliano. Dal 1948, poi, con l’esilio del popolo palestinese e la confisca delle loro terre, lo Stato coloniale si è arbitrariamente garantito la legittimità su gran parte dei territori.

Il risultato è che lo Stato coloniale ha mutato la fisionomia stessa di una terra, sia in termini di proprietà che di configurazione fisica. Come la distruzione dei villaggi (tra le cui rovine si muovono turisti da tutto il mondo affascinati dalla selvatichezza e dalla naturalità dei cosiddetti “polmoni verdi israeliani”), così la conformazione fisica della terra palestinese, i suoi tratti originari e autoctoni, sono stati modificati tramite un’opera di chirurgia estetica della memoria e dei paesaggi: per anestetizzare, silenziare e nascondere l’operazione di rimozione delle tracce palestinesi, Israele ha piantato nuovi alberi, pini o boschi di conifere, per niente autoctoni e invasivi, che hanno contaminato una terra con la loro faccia europea, alienandola da sé.

Sono le piante stesse, però, ad ammalarsi: le nuove piantagioni infatti mal si adattano al terreno locale e, tra le fenditure nel cuore di alcuni pini, spuntano degli ulivi.

Opera di Sliman Mansour

L’analisi dettagliata della genealogia del paesaggio, insomma, indica che il lavoro sul paesaggio tenta di cancellarne la produzione sociale sotto l’alibi della naturalezza e dell’ecologizzazione [4] del crimine: questa eliminazione è di per sé una forma di egemonia. Il regime di verità, la narrazione che viene portata avanti dai coloni israeliani, infatti, è quella di una terra, la Palestina, vuota e arida prima dell’arrivo del sionismo.

La figura dell’albero è in questo contesto centrale: si sradicano intere piantagioni di ulivi e si ripiantano, sugli stessi terreni, pini. Lo sradicamento e la semina di nuove specie consentono allo Stato Israeliano di marcare il territorio, visivamente e giuridicamente. L’albero infatti garantisce leggibilità, immobilità e una presenza continuativa sul terreno, attestabili grazie a foto aeree accuratamente scattate, interpretabili e modificabili in maniera arbitraria. Esse infatti pretendono di leggere oggettivamente la realtà quando non fanno altro che produrla. Dalle dichiarazioni degli Ispettori statali israeliani è ben chiara questa retorica del fotografare solo l’esistente: dal momento che le coltivazioni che non appaiono in foto non esistono, quei terreni possono essere dichiarati non-coltivati e dunque terreni di Stato. È la stessa tattica che si utilizzò all’inizio dell’occupazione con la legge delle terre degli assenti: ci si appropriava di terre vuote, la cui vacuità era determinata dalle pratiche di pulizia etnica portate avanti dallo stesso Stato Israeliano.

Questo uso del linguaggio dell’oggettività non fa altro che instaurare e corroborare un regime di verità. Gli atti di semina e lo sradicamento degli alberi dicono insomma qualcosa di importante sullo stato della terra contesa.

É ben chiaro, dunque, come il pino divenga il simbolo del progetto sionista di riforestare la Terra Santa rendendola pari a un paesaggio europeo; dall’altra parte invece vi è l’ulivo come il simbolo della resistenza palestinese e l’emblema della risoluta connessione del popolo alla propria terra.

Questa oramai radicata pratica che contrappone gli ulivi ai pini è in realtà logorante per l’ecologia stessa della terra palestinese: si sta infatti ricorrendo a piantagioni mono-colturali di ulivi che fanno abdicare a una gestione diversa del terreno in grado di preservarne la biodiversità; inoltre i boschi di conifere non consentono a nessun tipo di vegetazione di proliferare sotto di essi, è dunque impossibile utilizzarli come eventuali terreni da pascolo o per un utilizzo agricolo differenziato.

Sradicamento e penetrazione: così il dispositivo sionista dello Stato di Israele penetra i terreni di pini e violenze, dipinge un immaginario selvaggio da riconvertire in civiltà, opera al fine di una rimozione lessicale, semantica e fisica. Sulle macerie di ciò che distrugge ricostruisce una realtà alienata.

 

Immagine di copertina dell’artista Sliman Mansour

 

 

Opera di Sliman Mansour

NOTE

 

[1] Tratto da Discorso del pellerossa – penultimo – all’uomo bianco, Mahmoud Darwish

[2] p.25, Esclusi. La globalizzazione neoliberalista del colonialismo di insediamento, E. Bartolomei, D. Carminati, A. Tradardi, DeriveApprodi, 2017

[3] p.24, cit. David Harvey, ibid

[4] Intuizione più che mai veritiera di Ilan Pappe in La pulizia etnica della Palestina, Fazi Editore, 2008