Correva l’anno 2006: Ban Ki Moon diventava Segretario generale delle Nazioni Unite, Oran Pamuk veniva insignito del Nobel per la Letteratura, la Nazionale italiana in Germania vinceva i Mondiali, e in Palestina si svolgevano le ultime elezioni politiche che la storia locale ricordi.
Era il tempo della vittoria a sorpresa di Hamas, scelta da un popolo stanco di corruzione e compromessi; il tempo dei risultati elettorali non riconosciuti, della guerra fratricida che ne sarebbe seguita contrapponendo Fatah e Hamas in uno scontro armato senza precedenti, provocando vittime e arresti politici tra le rispettive fazioni.
Ecco perché questa volta sarà nominata una “Corte elettorale”, formata da Giudici provenienti dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza, chiamata non solo a vegliare sul regolare svolgimento del processo elettorale, ma soprattutto a sciogliere eventuali dispute che dovessero nascere sull’esito del voto.
Come a dire, insomma, che un’altra guerra civile la Palestina proprio non può permettersela.
Perché andò così nel 2006, quando Hamas vinse con un margine del 46% rendendo evidente il peso del malcontento popolare e della sfiducia diffusa nei confronti di Fatah e dell’Autorità Palestinese (AP).
Più che la vittoria degli islamisti, quella fu la disfatta delle politiche post-Oslo portate avanti da una leadership corrotta e ormai definitivamente scollata dalla volontà popolare. Lo scontro armato che insanguinò le strade per oltre un anno resta, ad oggi, tra le pagine più buie che la storia locale ricordi. Da allora – definito lo status quo che vede Hamas governare di fatto la Striscia di Gaza, e Fatah la Cisgiordania occupata – la popolazione palestinese non ha più visto le urne, se non per le elezioni amministrative locali.
Poi, il 15 gennaio scorso, l’annuncio: l’ultra-ottantenne Presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), diretto successore di Yasser Arafat, in carica dal 2005 con un mandato scaduto 4 anni dopo e costantemente rinnovato, fa sapere di aver firmato il decreto con cui si annunciano – non certo per la prima volta – le tanto attese elezioni.
Notizia confermata il 9 febbraio al Cairo, dove si sono riunite le delegazioni dei 12 partiti politici palestinesi raggiungendo un consenso su tempistiche e regole di svolgimento di questo lungo processo elettorale in tre tappe. Tra gli accordi, anche la promessa di rilascio dei prigionieri politici che Hamas e Fatah hanno arrestato in questi anni.
La rotta è segnata: il 22 maggio il popolo palestinese andrà alle urne per eleggere i membri del Consiglio Legislativo (il Parlamento dell’AP); il 31 luglio sarà la volta delle presidenziali.
Tutti i territori saranno coinvolti: non solo la Cisgiordania ma anche Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza. Due tornate che, a detta di Abbas, rappresenteranno “la prima tappa per la conseguente formazione, il 31 agosto prossimo, del Consiglio Nazionale Palestinese (l’organo legislativo dell’OLP, ndr) rappresentante dei palestinesi in patria, in diaspora e all’estero”. Ed è proprio questo, probabilmente, il nodo centrale della questione.
“Una leadership debole e anti-democratica”
In una recente pubblicazione, il think tank giovanile Al Shabaka fa il punto sullo stato dell’arte in Palestina, non lesinando critiche ad una leadership che, in tutte le sue fazioni e strutture, è ormai definita senza mezzi termini “debole e anti-democratica”.
Tanto la rappresentanza dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) quanto quella dell’AP hanno infatti “modificato le loro priorità, passando dall’obiettivo della liberazione nazionale e della realizzazione dei diritti fondamentali del popolo, a quello di mantenere il potere su enclave prive di autonomia e sovranità”, scrivono i giovani analisti.
Perché se la crisi di legittimità delle strutture politiche palestinesi affonda le sue radici lontano nel tempo, e può essere fatta risalire già ai tavoli negoziali degli Accordi di Oslo, è pur vero che non è mai stata tanto amara come in questo presente, in cui Fatah continua a monopolizzare tanto l’AP che l’OLP reprimendo ogni forma di dissenso interno; e Hamas governa un sistema di potere parallelo ma altrettanto verticista, repressivo e intollerante. Fallendo entrambe, in questi 15 anni, ogni tentativo di riconciliazione capace di mettere in discussione uno status quo perfettamente strumentale al mantenimento di quello stesso potere.
E allora, come rivendicato da tempo e da più parti, è proprio all’OLP che probabilmente occorre tornare, unico strumento possibile di rappresentanza della popolazione palestinese nella sua totalità.
Non solo all’interno dei territori della Palestina storica, ma anche – e forse soprattutto – nell’esilio e nella diaspora. Una struttura capace di tenere insieme diverse visioni in nome di un obiettivo più alto della conservazione del potere: il legittimo riconoscimento dei diritti del popolo e la liberazione nazionale, a prescindere da fazioni, personalismi, interessi partitici. E garantire, al contempo, il tanto atteso ricambio generazionale.
Lo aveva detto d’altronde Hanan Ashrawi, storica leader palestinese, tra i pochi volti ancora puliti della politica nazionale, rassegnando le dimissioni dal Comitato Esecutivo dell’OLP il 9 dicembre scorso. “E’ tempo di lasciare spazio ai giovani e alle donne, rinnovando il sistema politico e riformando l’OLP in modo che sia ristabilito il suo ruolo originario”.
Suggerendo, forse, che è necessario tornare a dove eravamo rimasti 15 anni fa, prima delle ultime elezioni: alla Dichiarazione del Cairo del 2005, che era riuscita a stabilire un consenso tra le fazioni politiche – incluse per la prima volta Hamas e Jihad Islamica – per il comune intento di resuscitare l’OLP dal coma cui era stata indotta, ferma in un limbo in attesa che l’AP costruisse il suo Stato promesso.
Riavvolgendo il nastro, dunque, saltiamo la parte in cui Hamas vince le elezioni, nessuno glielo riconosce, e ne scaturisce una guerra civile senza precedenti che toglie forza alla causa. Ma ripartendo da un necessario ripensamento del senso stesso delle istituzioni palestinesi. Eleggendo nuove rappresentanze, ma decidendo anche quale debba essere il loro scopo. Quale il loro obiettivo politico.
Come spiegano gli analisti di Al Shabaka, è necessario allora chiedersi cosa sia rimasto oggi di quella OLP per la quale domani si andrà a votare. Nata come organizzazione-ombrello per unire le diverse anime politiche e militanti palestinesi, ma soprattutto come movimento di liberazione nazionale, è stata anch’essa investita dal processo innescato da Oslo negli anni Novanta, concentrandosi sull’obiettivo di costruzione di un quasi-Stato e perdendo, lungo la strada, il suo carattere militante e unificante.
Finendo per diventare un contenitore d’intenti più che di significati, che andrebbe oggi riempito di senso prima che di nomi e poltrone. Rieleggere quindi, ma anche riformare: mettendo al centro la legittimità prima della rappresentanza, la costruzione del consenso prima della richiesta di un voto.
Eppure, nessuna delle fazioni in questi 15 anni sembra aver lavorato in questo senso, né nell’accoglienza delle istanze e delle analisi giovanili, garantendo il passaggio di consegne politiche ad una rinnovata classe dirigente. Come scrive l’analista Fadi Quran infatti, nonostante i partiti politici abbiano coltivato i loro movimenti giovanili, “il loro funzionamento interno è ancora legato a reti patronali e legami clanici piuttosto che a visioni o credo politici”.
Ragione per cui, tra tentativi di cooptazione delle menti migliori e repressione del dissenso, tanto Hamas quanto Fatah hanno lavorato più alla replicazione di modelli conosciuti che alla messa in discussione di paradigmi consolidati. Forse anche per questo le giovani generazioni hanno perso fiducia nelle istituzioni, e sognano un partito politico indipendente in grado di rappresentarle. Esprimendo così la necessità di rifondare l’idea stessa di leadership, libera dall’ossessione tecnocratica e securitaria che ha caratterizzato quella attuale, radicata nel consenso e nella legittimazione popolare.
Mai così soli
Se a livello politico interno la situazione è critica, sul piano internazionale e regionale non è mai stata tanto drammatica. Dietro l’annuncio di Abbas c’è dunque anche l’esigenza di rilegittimarsi attraverso l’esercizio della democrazia formale, cercando consensi nella nuova amministrazione statunitense dopo la pagina cupa rappresentata dall’era Trump, avviata con lo spostamento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, e conclusa con la mediazione tra Israele e Marocco per la normalizzazione delle relazioni diplomatiche.
Isolati internazionalmente, i palestinesi non sono mai stati tuttavia altrettanto ininfluenti regionalmente: i recenti Accordi di Abramo siglati da Tel Aviv con Emirati e Qatar hanno rappresentato l’abbandono persino di quel mero esercizio di retorica che per anni è stato il sostegno dei fratelli arabi alla causa palestinese. Ecco quindi che l’esigenza di una guida capace di traghettare il paese fuori dal baratro in cui sembra caduto è più forte che mai.
Ad oggi, non esiste che lo spettro di ciò che un tempo è stato un corpo politico in grado di rappresentare il volere popolare, mettendo al vertice delle priorità la liberazione nazionale, la lotta per i diritti, la libertà e la dignità di un popolo stanco di compromessi. Se siano finalmente arrivati i tempi di ricrearlo, e se sarà possibile farlo attraverso le annunciate elezioni, resta però ancora tutto da dimostrare.