Joe Biden e l’American Jobs Plan

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7 Aprile 2021

Cemento, cobalto e soluzionismo tecnologico: la beata illusione del megastimolo

Tra i difetti della nuova amministrazione statunitense certamente non c’è l’inerzia. Tra l’auspicabile revoca di alcuni discussi provvedimenti trumpiani e meno auspicabili attacchi missilistici e sanzionatori a ricordare che i democratici in politica estera sanno essere tanto feroci e scriteriati quanto i repubblicani (se non di più), Joe Biden ha già messo la firma su vari dossier pesanti.

Uno dei più gravosi – dal punto di vista politico e soprattutto economico – è quello del nuovo piano di stimolo economico, denominato American Jobs Plan (da non confondere con l’American Rescue Plan legato alla crisi pandemica), che mira a rilanciare l’economia partendo dalle infrastrutture. Il programma, annunciato in pompa magna mercoledì scorso a Pittsburgh, prevede un colossale intervento dello Stato pari a 2 mila miliardi di dollari in 8 anni tra investimenti diretti e agevolazioni fiscali.

Un piano ricco di buone intenzioni che, tuttavia, non si discosta sensibilmente dai classici paradigmi del capitalismo americano.

E che, alla prova dei fatti, rischia di avere effetti catastrofici sulla lotta alle disuguaglianze e al cambiamento climatico. Ma quali sono gli aspetti positivi e quelli meno lusinghieri del piano di Biden?

PRO

Gli aspetti positivi del megapacchetto di stimolo si possono ricondurre idealmente a tre grandi macrosettori: economico, sociale e ambientale.

Pur se è quest’ultimo che vogliamo soffermarci, è incoraggiante notare come il neopresidente riconosca la necessità di uno Stato meno schiavo del “mercato”, più interventista dal punto di vista economico e infrastrutturale dopo decenni di stagnazione (era dagli anni ’60 che un governo USA non si prendeva un simile impegno) e più vicino, non solo retoricamente, alle fasce più discriminate della popolazione; anche e soprattutto quegli home care workers, per la maggior parte donne afroamericane, che – come direbbe Giovanni Toti – non contribuiscono direttamente allo sforzo produttivo del Paese. Un programma quasi keynesiano da finanziare con un deficit di bilancio prevalentemente a spese delle grandi corporation, che saranno assoggettate a un regime fiscale più pesante (dal 21% al 28%).

E pur se l’aumento della tassazione sulle imprese verrà certamente respinto o fortemente ridimensionato dal Congresso, la via indicata dalla nuova amministrazione è chiara: il neoliberismo spinto e la deregolamentazione selvaggia di Trump sono storia passata e alle grandi multinazionali non basterà più promettere posti di lavoro da quattro spiccioli.

Simile è la logica applicata alle politiche ambientali: Biden riconosce la necessità di fare molto di più – e molto meglio – di quanto si sia fatto finora e, ben lungi dal negazionismo del predecessore e dagli sterili sussidi di Barack Obama (che lui stesso, a dire il vero, ha contribuito a elaborare), è determinato a prendere di petto il cambiamento climatico.

I considerevoli investimenti previsti dall’America Jobs Plan saranno mirati all’ammodernamento delle infrastrutture e a una transizione energetica volta al graduale abbandono dei combustibili fossili in favore delle energie rinnovabili, in particolare l’eolico offshore.

Le cifre stanziate a questo fine fanno impallidire persino quelle messe sul piatto da Obama dopo la crisi del 2008: il piano – tra le altre cose – prevede 174 miliardi di dollari di agevolazioni e incentivi destinati a stimolare la produzione e l’acquisto di veicoli elettrici e a rendere più capillare la rete di punti di rifornimento (l’obiettivo è di arrivare a 500.000 stazioni di ricarica entro il 2030), ma anche 85 miliardi per rinnovare i trasporti pubblici e 80 miliardi per le ferrovie.

Per alimentare l’elettrificazione dei trasporti e portare a compimento la transizione energetica, ovviamente, serviranno nuove centrali e infrastrutture, alle quali sarebbero assegnati 100 miliardi.

Altri 580 servirebbero invece a sostenere industria e manifatturiero, in particolare nell’ottica di ridurne le emissioni.

Kallis, G. Degrowth. Agenda Publishing, 2018

CONTRO

Ci perdoneranno Biden e i suoi estimatori, ma questa seconda parte dell’analisi sarà molto più corposa di quella relativa ai “pro”. Cambiano i tempi, cambiano le amministrazioni e cambia lentamente persino la società civile, ma gli Stati Uniti non riescono proprio a divincolarsi dalla filosofia egemonica di cui sono al tempo artefici e vittime: quella della crescita del PIL a tutti i costi.

Al di là dei dettagli, infatti, come alcuni osservatori hanno prontamente fatto notare questo piano non fa altro che inondare di quattrini pressoché tutti i settori dell’economia, inseguendo la chimera ecomodernista secondo cui crescita economica e protezione dell’ambiente potrebbero andare a braccetto, se non addirittura beneficiare l’una dell’altra (la prima producendo nuove tecnologie “verdi” su vasta scala, la seconda offrendo posti di lavoro prima inesistenti). Del resto “spendere denaro è politicamente più facile che approvare leggi per il taglio delle emissioni”, sottolinea David Popp, professore di pubblica amministrazione della Syracuse University.

Non è certo un segreto, però, che il PIL non sia affatto un indicatore affidabile del reale progresso umano, e soprattutto come il processo di crescita economica – anche a fronte di innovazioni tecnologiche – rimanga sostanzialmente un processo di estrazione e trasformazione materiale che presuppone un’insostenibile onere ambientale e sociale, in particolare nel Sud del mondo.

Anche ammesso – e non concesso – che le nuove tecnologie possano davvero salvare capra e cavoli, allo stato attuale è improbabile che a salvarci siano le auto elettriche, su cui Biden e il suo entourage vogliono puntare forte a suon di incentivi.

Questo perché la teoria secondo la quale l’impatto ambientale delle auto elettriche sarebbe nettamente inferiore a quello delle auto a benzina o diesel, come è stato ampiamente dimostrato, è frutto di un sillogismo estremamente limitato: un’auto che consuma efficientemente elettricità dev’essere per forza meglio dell’alternativa che brucia combustibili fossili.

Il che, già di per sé, non è per nulla scontato, in particolare in Paesi come gli Stati Uniti dove il 20% dell’elettricità è ancora prodotta da centrali a carbone (per non parlare di Cina o Australia, il cui mix energetico è ancor più sbilanciato verso il carbone).

Anche lasciando da parte i carburanti, però, il problema sta a monte, ossia nella fabbricazione: un veicolo elettrico può richiedere una quantità di rame fino a cinque volte superiore rispetto a un veicolo convenzionale, per non parlare di minerali relativamente rari quali litio, coltan e cobalto indispensabili per il pacco batteria.

Prendendo quest’ultimo a titolo di esempio, le batterie delle auto fagocitano già quasi la metà del cobalto estratto a livello globale, il 60% del quale proviene dalla Repubblica Democratica del Congo. I problemi ambientali, economici e sociali causati dall’estrattivismo in Paesi africani, asiatici e sudamericani sono ampiamente documentati (il triste caso dell’uccisione dell’ambasciatore Attanasio e del carabiniere Iacovacci ha recentemente attirato l’attenzione mediatica italiana proprio sulla complessa realtà congolese) e la moltiplicazione per 30 della domanda di cobalto prevista per il prossimo decennio non potrà che ingigantire l’impronta ecologica di queste materie prime ed esacerbare le sciagure dei Paesi esportatori, dall’inquinamento ambientale al foraggiamento delle reti clientelari locali. Un copione coloniale che si ripete: quello dello sfruttamento occidentale ai danni di Paesi ricchi di risorse ma poveri di solide istituzioni democratiche e di un articolato tessuto imprenditoriale.

Con annessa esternalizzazione (dal centro industrializzato alla periferia “sacrificale”) delle ripercussioni ambientali e sociali.

Un’altra arma a doppio taglio è quella dei fondi alla ricerca: l’incremento dei finanziamenti alla ricerca scientifica (compresa – pare – la ricerca di base) è indubbiamente una buona notizia, ma c’è il rischio che funga da alibi per rimandare cambiamenti improcrastinabili: una parte dell’establishment statunitense, non solo tra i negazionisti del cambiamento climatico, è convinta che il riscaldamento globale e altre forme di degradazione ambientale possano essere mitigati (se non totalmente sovvertiti) affidandosi alla bioingegneria, alla cosiddetta “cattura” della CO2 e ad altre tecnologie d’avanguardia.

Tecnologie che potrebbero non essere attuabili su larga scala, se attuabili potrebbero essere inefficaci, e se efficaci potrebbero esserlo “troppo”, con effetti collaterali potenzialmente incontrollabili. Un pericoloso “soluzionismo tecnologico” che verrà annaffiato, tra gli altri, dai 35 miliardi di dollari destinati alla generica voce “climate tecnology” del nuovo maxi-programma di stimolo. Per non parlare dei 50 miliardi destinati esclusivamente all’industria (cruciale dal punto di vista geopolitico) dei semiconduttori, anch’essi enormi divoratori di minerali e terre rare.

Un dato rivelatore del piano di Biden è l’enfasi sull’adattamento (infra)strutturale, dal consolidamento dei viadotti alla ristrutturazione degli edifici pubblici e privati. In sostanza, la nuova amministrazione USA riconosce eccome – a differenza di quella precedente – il pericolo del cambiamento climatico, ma piuttosto che combatterlo seriamente (se si eccettuano le velleità geoigegneristiche di cui sopra) sembra volersi rassegnare a rafforzare le proprie difese in vista dei cataclismi futuri.

Che è un po’ come se, trovandosi di fronte a una vasca che trabocca, ci si affannasse ad accumulare stracci per asciugare l’acqua invece di chiudere il rubinetto. A tal proposito vale la pena di ricordare un altro aspetto poco edificante: gli Stati Uniti, secondo stime attendibili, sono stati la fonte di oltre un quarto dell’anidride carbonica emessa a livello globale tra il 1850 e il 2015 (va tenuto presente che lo “smaltimento” dei gas rilasciati nell’atmosfera può richiedere secoli), il che li rende – insieme all’Unione Europea, che ha contribuito con un ulteriore 25% – i principali responsabili dei fenomeni climatici estremi (uragani, inondazioni, piogge acide, desertificazione, innalzamento del livello dei mari e così via) a cui assistiamo con sempre maggior frequenza. Insomma, ce la siamo spassata per secoli e ora che arriva la tempesta ci barrichiamo nella nostra illusoria fortezza; e se intanto nel mondo c’è chi non potrà rinforzare la propria architrave o alzare barriere a protezione della linea di costa, peggio per lui.

In definitiva, il proverbiale “elefante nella stanza” del piano di Biden (oltre all’elefante inteso come partito Repubblicano, che al Congresso spegnerà molte delle beate speranze dei Democratici così come ha fatto naufragare numerosi provvedimenti di Obama in passato) è evidente: gli USA pensano ossessivamente a crescere quando il pianeta, anche tramite dolorose esperienze quali il Covid e i crescenti conflitti per le risorse, ci invita chiaramente a fermarci e rivalutare – senza vuoti utopismi ma anche senza paraocchi – i nostri paradigmi socioeconomici, i nostri modelli di sviluppo e i nostri stili di vita. Il piano, ad esempio, non sembra fare alcuna menzione di una possibile “transizione alimentare” che porti a ridurre il consumo di carne e di conseguenza il relativo, devastante impatto ambientale (secondo recenti studi i sistemi alimentari sono responsabili di oltre un terzo delle emissioni a livello globale, in buona parte dovute all’allevamento di bovini).

E tanto meno affronta questioni meno “pesanti” in termini di emissioni assolute, ma immensamente più ingombranti in termini geopolitici, quale l’impronta ecologica dell’ipertrofico esercito statunitense: con le sue basi sparse in ogni continente e la sua compulsiva attività bellica da “poliziotto del mondo” (ultima in ordine di tempo la notizia delle Forze Speciali inviate in Mozambico per addestrare i marine locali nella lotta contro l’ISIS), il Dipartimento della Difesa è il più grande singolo “contaminatore” del pianeta, anche considerando le più grandi multinazionali: se fosse uno Stato, sarebbe il 55° al mondo per quantità di emissioni.

Insomma, il nuovo piano di Biden ispira molta più preoccupazione che fiducia.

E se egli effetti deleteri (cementificazione, stimolo del consumismo, devastazioni ambientali, appropriazione di risorse, arricchimento di regimi antidemocratici e così via) sono pressoché inevitabili, i passi avanti – trattandosi di un programma di massima che sarà certamente “annacquato” dal passaggio al Congresso – sono tutt’altro che certi. A maggior ragione considerando che, mentre Obama sull’onda della crisi del 2008 aveva privilegiato i cosiddetti progetti shovel ready (cioè di pronta attuazione), il nuovo piano di stimolo punterà anche su progetti ancora in fase preliminare, che potrebbero dunque richiedere tempi lunghi prima di dare risultati tangibili. La strada per l’inferno, come si sa, è lastricata di buone intenzioni (un’espressione che, alla luce dell’incombente riscaldamento globale, suona sempre meno metaforica), e il pur volenteroso piano di Joe Biden, lontano anni luce dalla rivoluzione sociale, materiale e soprattutto culturale di cui il mondo avrebbe bisogno, rischia di essere poco più che un esercizio di wishful thinking.