Pablo se va. Gracias Pablo

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10 Maggio 2021

Pablo Iglesias se va. Se ne va dalla politica di partito e di governo perché la sua partecipazione alle elezioni per la Comunidad de Madrid del 4 maggio non ha smosso l’elettorato verso Unidas Podemos. Un segno più di pochi punti, una sconfitta per mano del Partido Popular e la presenza fascista di Vox, falangisti di matrice, laddove il leader di Podemos ormai consumato dagli attacchi personali sperava di dare una scossa. Lo stesso Iglesias aveva lasciato la vice presidenza del governo per partecipare alla competizione, indicando anche la nuova leader per la sua creatura politica: Yolanda Diaz, attuale ministra del Lavoro e nuova vice presidente del governo Sanchez.

Iglesias se ne va e la destra e molta stampa che gli ha voluto male, o che mal digerisce le origini di quel fare politica, festeggia, schernisce, insulta, cerca piccole e insulse rivincite.

Oratore eccellente, capace di affascinare e incantare, pronto di battuta e magistrale nelle interviste, seguitissime, del programma televisivo La Tuerka, Iglesias era un giovane professore dell’Università di Madrid quando scoppiarono le bombe dell’11 marzo del 2004. Ero a Madrid per Radio Popolare e ricordo tutto con nitidezza: il 13 marzo iniziò a circolare sui telefonini, ancora poco Smart, un SMS che resterà nella storia di Spagna e della comunicazione.

“¿Aznar de rositas? ¿Lo llaman jornada de reflexión y Urdazi trabajando? Hoy 13M, a las 18h. Sede PP, c/Génova 13. Sin partidos. Silencio por la verdad. ¡Pásalo!”.

Urdaci era il direttore dei servizi informativi della televisione di stato. Le bombe arrivavano a pochi giorni dalle elezioni, l’ordine di scuderia del PP di Aznar era stato quello di scaricare tutto su Eta, da subito e contro ogni evidenza e la televisione di stato non tacque nemmeno nel giorno del silenzio. E così il 13 marzo, vigilia appunto delle elezioni, l’Sms girò e ci ritrovammo a raccontare una folla inaspettata e autoconvocata sotto la sede della destra spagnola, Calle Genova 13. I momenti in cui la società civile si presenta spontanea sono sempre particolari, hanno una forza che si esprime e un potenziale che si intuisce e quella sera fu così, da pelle d’oca.

Fu la fine dell’Aznaridad, come la definiva il geniale Manuel Vazquez Montalban: una cappa plumbea che spariva dopo due mandati di ferreo e asfittico mandato del Bigote, il baffetto che trascinò la Spagna in guerra e che a livello interno aveva il diretto controllo di tutto: magistratura, forze di polizia, egemonia nel partito, informazione. L’uomo che aveva attaccato frontalmente e in chiave repressiva prima la sinistra basca, poi tutto il nazionalismo, illegalizzato partiti, chiuso giornali, permesso la tortura (come tutti gli altri presidenti prima e dopo di lui) con il controllo totale del potere giudiziario. Aznar arrivava da Alianza Popular, fondata da Manuel Fraga Iribarne, ministro del caudillo Franco (!), che – conviene sempre ricordarlo – morì nel suo letto e non esposto a testa in giù in una piazza della capitale.

Quel messaggio di testo che convocò la società civile al grido di Queremos saber la verdad, vogliamo sapere la verità, nacque dentro la facoltà di Scienze politiche, dove c’era anche Pablo Iglesias, allora venticinquenne e se vogliamo fissare una data significativa di una storia di movimento e politica di un leader indiscusso della Spagna contemporanea possiamo azzardare a fissarla lì. Lo ammise lo stesso Iglesias in una intervista con Ikaki Gabilondo, mostro sacro del giornalismo iberico nella famosa trasmissione, seguitissima, di interviste che si chiamava la Tuerka.

L’ho guardata spesso la Tuerka, soprattutto le mirabili interviste con i grandi nomi della politica e della società spagnola che conduceva Pablo Iglesias: sempre stato abilissimo con le parole, ma anche con la conoscenza della storia. Lo hanno deriso per il citazionismo, eppure possiamo definire il suo stile oratorio più vicino a quello dei grandi parlatori del Latino America, cui era molto legato soprattutto al Venezuela e alla Bolivia, un legame che fu portato in primo piano nelle prime grandi operazioni di discredito, di macchina del fango in cui accusavano l’embrionale nuova forza popolare di essere finanziata da Hugo Chavez.

Ma andiamo con ordine, perché dobbiamo passare dal Movimento del 15-M che tutti conoscemmo come il movimento degli Indignados. Iglesias che, provincialismo mainstream giornalistico italiano… ebbene sì sfilò a Genova nel 2001, e i suoi fedelissimi intercettarono quella sommatoria rivendicativa che si accampò per settimane nelle piazze, organizzò marce, solidarizzò con i minatori delle Asturie in cammino, con chi difendeva politiche migratorie decenti, con quanti muovevano decisamente verso una politica di partecipazione. Podemos nasce da lì. Da un esercizio orizzontale senza leader, dalle assemblee fiume in cui potevano esprimersi, in una rivincita contro una partitocrazia blindata da due fazioni, PP e Psoe, che viene scardinata. La Spagna bipolare si apre. Dopo Podemos arriverà un tentativo di imitazione goffo e di destra, Ciudadanos, nato in catalogna per distruggere il nazionalismo identitario catalano.

Gli occhiali dei miopi commentatori del Bel Paese cercarono di far capire all’opinione pubblica che Podemos era una specie di operazione in salsa grillina. Su questo c’è da puntualizzare: le origini politiche e identitarie di Podemos, che rinnegò tatticamente la distinzione destra/sinistra erano connotate in maniera decisiva: citando Gramsci, leggendo il programma economico, promettendo lotta contro i fascismi. Tutt’altro dagli opportunismi di Grillo e pentastellati. Una cosa, però, di base si può accumunare; la voglia di aprire un sistema chiuso dei delegati dal voto elettorale. Aprire un circuito non solo alla parola, ma anche alla vita reale delle persone, quelle con gli sfratti, i pensionati poveri, una sanità da riformare, il salario minimo da alzare, una disoccupazione sempre record in Spagna. E d’altro canto anche la prima geometria di rete dei grillini, di per sé, rappresenta una delle più grandi occasioni sprecate nella storia politica italiana degli ultimi decenni. Un’ottima intuizione, una strumentalità perversa.

Ma torniamo a Iglesias. Pronto a schierarsi non a favore del nazionalismo catalano, ma per un’opzione di dibattito politico, fatto inconcepibile per i partiti che fondano il proprio discorso sull’unità territoriale, nonostante le realtà regionali stesse dei partiti siano organismi ben più strutturati di quelli che possiamo immaginare in Italia. La Spagna nasce divisa e viene unificata nel centralismo solo successivamente, quando i nobili vengono trasformati nella classe dirigente di una potenza che ha il cuore a Madrid. Le poche eccezioni sono da sempre mal tollerate, nonostante le singole Comunità autonome mantengano presupposti amministrativi e dij governo superiori a quelli delle nostre regioni, ma pur sempre obbligate a versare un soldo all’autorità centrale, che molto spesso non ricambia in servizi.

Iglesias è capace di affrontare da politico i discorsi di nazionalismo e di lotta armata, un vero scandalo, è capace di portare nell’agone politico parole schiette e dure e scontri aspri all’insegna della coerenza. Podemos cresce e diviene in pochissimo tempo primo partito nelle inchieste del Cis, il centro di inchiesta sociale.

Il programma si ammorbidisce piano piano: gli economisti di fiducia vengono cambiati, per governare non puoi usare sempre toni da opposizione. La marcia verso il governo è inesorabile fino alla grande occasione della mozione di censura contro Mariano Rajoy, a capo di due mandati di governo con un Partido popular fiaccato da Ciudadanos a destra (Vox sarebbe arrivata solo dopo) e dagli scandali di corruzione, tanti, in cui finisce anche il suo nome. Pedro Sanchez e Pablo Iglesias si abbracciano quando passa la mozione di censura, che in Spagna funziona con effetto immediato. Chi viene censurato deve lasciare il governo nelle mani di chi l’ha censurato, in questo caso di Sanchez, che costruisce un governo delle sinistre.

Tutto questo racconto si svolge in un periodo elettorale tormentatissimo, con gli spagnoli chiamati a votare a distanza ravvicinata perché le maggioranze non si formano.

Arriviamo alla fine. Iglesias era stanco, dicono le fonti di El Pais, giornale filo Psoe acerrimo nemico del politico. Iglesias voleva lasciare. Dicono che le continue minacce, personali, gli attacchi della stampa manovrata, l’insulto e il suo modo di fare politica all’attacco, nonostante tentativi di moderarsi molto evidenti, abbia stancato. O che si sia stancato. Che la polemica per una casa grande e con piscina, che gli è costato il referendum interno, gli sia valsa una certa impopolarità.

Ma la sera del 4 maggio, nel mesto discorso in cui ha dato le dimissioni da ogni incarico, la Spagna ha perso una personalità di un leader – quindi con molti pregi e molti difetti – che è riuscito insieme a una manciata di amici e compagni di politica a scardinare un sistema partitico e a riportare parole inimmaginabili nel dibattito politico spagnolo.

Il Corriere della Sera in un commento di Aldo Cazzullo titola su Iglesias e la rivoluzione che non è riuscito a fare. Parole al vento: da una stanza universitaria a quella della vicepresidenza del governo, passando per momenti in cui Podemos fu primo partito, sono dati che non si cancellano. C’è questa teoria del superomismo che ci viene venduta, come se i leader fossero solo quelli che non sbagliano un colpo, che curano la propria immagine, che sono così astuti da riuscire ad uscirne sempre vincenti. Detto poi in un Paese come il nostro, in cui a ogni diretta elettorale tutti hanno vinto e nessuno ha perso, o dove c’è chi ha detto lascio la politica, Matteo Renzi, ed è sempre a cercare riflettori e a tramare crisi.

Un occhio più attento, ce ne sono diversi per fortuna, può e sa riconoscere i passi da gigante di un leader e di un partito a sua immagine e somiglianza, riconosce i difetti e li legge nella diaspora dei suoi primi collaboratori che lo lasciarono, così come segue la parabola forse inevitabile nei programmi sociali che accompagnano chi fa l’opposizione e poi arriva al governo. Ma tracciare oggi un epitaffio di Iglesias è cosa errata. Chissà come si trasformerà.

E forse è meglio riflettere su quanto, lui e i suoi elettori ed elettrici, i dirigenti e le assemblee, hanno alzato l’asticella dei diritti del lavoro, del welfare, anche dentro le contraddizioni e gli sbagli.

Ecco cosa rappresenta Pablo Iglesias fino ad oggi, aspettando che ci stupisca o meno.

Il prodotto di una esigenza sociale, l’incarnazione di un sogno, un percorso inaspettato, il tentativo di portare parole chiave nei bilanci di stato, la riconferma che ogni carismatico non può che essere innamorato di sé. Anche la delusione, anche le incazzature. Ma anche la sua capacità di capire di non voler farsi logorare, di capire che il vespro porta alla sera e al tramonto e poter così decidere di lasciare in una assunzione di responsabilità chiara.

Se questo non è rivoluzionario.