I muri di Belfast

di

27 Agosto 2018

La questione nord-irlandese, tra marce dei lealisti, ricordi, murales e forme di resistenza non violente

“Se io sono irlandese, perché ti sto parlando in inglese? Perché nella Repubblica d’Irlanda si parla l’inglese?”  mi chiede Michael che continua con: “È tutta una questione di colonialismo e se leggi la narrativa dominante non te ne rendi conto. Bisogna vivere i quartieri popolari delle città nord irlandesi per rendersi conto che i Troubles[1] nacquero da disuguaglianze politiche, sociali ed economiche”.

 

Spesso, nel definire il conflitto che per oltre trent’anni e che anche adesso, in maniera più subdola e silenziosa, continua a segnare i destini del Nord Irlanda, sono state usate parole come cattolici e protestanti, volendo così dare una natura settaria a un conflitto che ha invece radici nel colonialismo, nel prevalere del più forte sul più debole, nelle lotte per i diritti civili.

“Quella del conflitto Nord irlandese è una storia di colonialismo, ed è concettualmente difficile immaginarsi il colonialismo come qualcosa che può essere contestualizzato nel tuo stesso continente. Le colonizzazioni, infatti, le immaginiamo sempre secondo un movimento che si sviluppa secondo direttrici che portano i popoli europei a creare nuovi presidi in terre lontane, ma proviamo per un attimo a immaginarci che i colonizzatori e i colonizzati si trovino a 400km di distanza gli uni dagli altri: avremo così la storia della Gran Bretagna e dell’Irlanda, dell’ Irlanda del Nord. È sbagliato e riduttivo guardare al conflitto nordirlandese come a una guerra settaria tra cattolici e protestanti”, continua ancora Michael.

I meridiani, i paralleli, le coordinate geografiche possono trarre in inganno e il colonialismo può passare in secondo piano, secondo lui. Allo stesso tempo- riflettendoci su-  mi rendo conto che molto probabilmente è vero e che nessuno dei murals che ho fotografato in Nord Irlanda è sull’essere protestanti o cattolici: gli schieramenti religiosi, in Nord Irlanda come in altre realtà del mondo, diventano altri nomi per chiamare disagi e conflitti più profondi e radicati.

Arrivo a Belfast la sera dell’11 luglio. Non è una data a caso ma neppure posso dire di averla scelta appositamente.

L’indomani sarà l’anniversario della battaglia sul fiume Boyne, con cui Guglielmo d’Orange nel 1690 guadagnò il controllo sull’Irlanda, evento molto sentito dalla comunità lealista qui in Nord Irlanda. Nei giorni precedenti a questa data si iniziano a costruire le montagne di pallet- i cosidetti bonfires– cui verrà appiccato il fuoco tra la notte dell’11 e la giornata del 12.

Salgo sul bus, una signora mezza matta mi chiede cosa ci faccio a Belfast proprio in quei giorni e se so che cosa succede in città e in tutta l’Irlanda del Nord, riferendosi chiaramente ai bonfires.

Mi indica il bonfire dal finestrino del bus, mi sporgo e lo vedo lì, altissimo. Non avevo mai visto così tanto pallet tutto in una volta. Prima di questo viaggio non sapevo neppure esattamente in cosa consistesse un bonfire. Per le strade, i ristoranti, i bar e tutti gli esercizi commerciali che di solito restano aperti anche dopo le sei del pomeriggio, sono invece chiusi. Non è tanto un’aria di festa, quella che si respira per le strade di Belfast, è più qualcosa che ricorda il rumore bianco della tensione.

I bonfires, infatti, hanno un significato particolare per gli abitanti del Nord Irlanda: celebrano l’insediarsi della presenza inglese in Irlanda, riaccendono le tensioni mai sopite tra gli irlandesi repubblicani e i lealisti pro Regno Unito.

La mattina del 12 luglio ci alziamo e scendiamo in strada, sul nostro viale è ovunque un trionfo di bandiere inglesi, abiti e capelli arancioni (in memoria di Guglielmo d’Orange). In mano non abbiamo alcuna bandiera, qualcuno ci guarda di traverso. Non è consigliabile stare in giro per strada, neppure gli autobus circolano.

Alla guida dell’unico taxi che riusciamo a fermare quella mattina c’è un autista che non ha nulla a che spartire con la parata dei lealisti, anzi, sembra proprio che faccia parte degli altri, dei repubblicani. Gli chiedo cosa ne pensi di tutte quelle Union Jack per strada, dei roghi, mi risponde: “Mi faccio grasse risate, e comunque ogni 12 luglio cerco di lavorare tutto il giorno”.

Il nostro autista è abbastanza spaventato, non è insolito in questo giorno vedere i festanti ubriachi gettare sassi contro taxi e autobus.

Le strade sono bloccate, l’autista di un altro taxi ci dice che l’unico modo di raggiungere il centro è passare attraverso Sandy Row, quartiere a maggioranza lealista, sede di un negozio di gadget dell’ U.V.F. (acronimo per Ulster Volunteer Force, uno dei gruppi paramilitari lealisti più influenti qui in zona).

Attraversiamo Sandy Row, c’è già gente che beve dalle dieci del mattino. In fondo alla strada, il mural che ritrae Guglielmo D’Orange.

Il centro città è praticamente vuoto, in questo giorno Belfast sembra essere diventata una metafora dell’Ulster che David Trimble, premio Nobel per la pace, aveva definito ‘una casa fredda per i cattolici’.

C’è chi se ne va Dublino, chi a Galway, chi in altre città della Repubblica d’Irlanda. Mi chiedo come ci si senta ad essere cattolici in un giorno così.

L’ Irlanda del Nord mi sembra oggi una casa condivisa da inquilini molto diversi tra di loro. Come in un appartamento con coinquilini troppo rumorosi a volte si può avere il bisogno di staccare la spina ed andare in un posto più tranquillo per qualche ora, così oggi i cattolici vanno verso altre mete. Decidiamo di partire anche noi.

Ogni volta che pensiamo ai muri divisori, la nostra immaginazione va subito in Palestina, alla striscia di Gaza, alle divisioni tra la Cipro greca e la Cipro turca, ai muri di Trump e, la memoria storica, al muro di Berlino.

Così come tendiamo a proiettare lontano da noi il colonialismo, allo stesso modo non ci immaginiamo che una città come Belfast possa essere divisa da un muro e da cancelli. Il muro è quello della pace, i cancelli hanno sei diverse entrate e servono a separare Shankill Road – quartiere a maggioranza lealista e protestante- da Falls Road, il quartiere a maggioranza repubblicana e cattolica. Entrambi i quartieri si trovano a West Belfast.

I cancelli si chiudono alle sei di ogni pomeriggio, e ognuno sta attento a trovarsi nel suo quartiere per quell’ora. Sono cose che non riesci a capire se giri soltanto nel centro di Belfast, bisogna andare verso le zone est, ovest e sud della città.

Ho chiesto a un abitante di Shankill come riescano a regolarsi e a non fare in modo di trovarsi dalla parte sbagliata alla chiusura del cancello, mi ha risposto: “Qui a Belfast West abbiamo il nostro orologio personalizzato, e comunque è molto difficile vedere un cattolico girare nel quartiere dei protestanti e viceversa”.

Il muro, i cancelli a Belfast sono fisici e mentali, servono- si dice- ad arginare il rischio di nuovi attentati e ad evitare che si ripeta il passato. Nella cornice di quei muri e cancelli, le due comunità mandano avanti ognuna la propria narrazione sui Troubles attraverso i murals.

Quelli repubblicani e cattolici sono più colorati, è una narrazione aperta ai parallelismi tra la storia d’Irlanda e quella del resto del mondo: sono frequenti i riferimenti alla Palestina, a Nelson Mandela, Aung San Suu Kyi, Madre Teresa, così come all’Easter Rising del 1916 (quando i repubblicani irlandesi- ricorrendo alle armi- tentarono di ottenere l’indipendenza dal Regno Unito), alla prigionia dei militanti dell’IRA (e non solo) nel carcere di Long Kesh.

I murals dei quartieri a maggioranza protestante e lealista hanno invece come temi la celebrazione della storia inglese, di Guglielmo D’Orange, la battaglia del Boyne e quella della Somme.

Sono murals che celebrano e commemorano i membri di gruppi paramilitari lealisti quali U.D.A. (Ulster Defence Association) e U.V.F. (Ulster Volunteer Force), sembrano poco aperti a ciò che succede nel resto del mondo, fatta eccezione per alcuni pannelli in supporto a Israele.

Un repubblicano ci dice: “Sostanzialmente sostengono la causa israeliana solo perché noi sosteniamo quella palestinese”.

Per le celebrazioni del 12 luglio, la situazione a Belfast resta abbastanza sotto controllo, a Derry (o Londonderry o Foyle, come volete chiamarla) scoppiano cinque giorni di quasi guerra civile, con scontri tra lealisti e repubblicani. Derry/Londonderry/Foyle è insieme a Belfast la città del Nord Irlanda in cui si capisce meglio cosa siano stati i Troubles, è la città del Bloody Sunday, dove tutto ebbe inizio, ed è anche molto vicina al confine con la Repubblica d’Irlanda.

Domenica 30 gennaio 1972 l’esercito britannico aprì il fuoco su una folla che pacificamente stava manifestando per il riconoscimento dei diritti civili. Morirono 14 persone, 12 furono i feriti.

La manifestazione era stata organizzata dalla NICRA (Northern Ireland Civil Rights Association), l’associazione in difesa dei diritti civili fondata nel 1966 dall’avvocato cattolico e repubblicano Kevin Agnew proprio per contrastare le disuguaglianze e discriminazioni di cui era vittima la popolazione cattolica del Nord Irlanda.

I testimoni e giornalisti presenti ai tragici fatti del Bloody Sunday, tra cui il fotografo italiano Fulvio Grimaldi (le cui foto furono decisive per le inchieste degli anni successivi), affermarono che i manifestanti erano disarmati.

Sarà solo nel 2010, con l’inchiesta Saville, che l’allora premier inglese David Cameron ammise che la condotta tenuta in quella circostanza dall’esercito britannico era stata inammisibile ed ingiustificabile.

A raccontarci quel giorno è Neil, che a Derry/Londonderry/Foyle ancora oggi ci vive e guida i turisti spiegando loro cosa significhino i vari murals in giro per la città, a cominciare dal famoso ‘You Are Now Entering Free Derry‘, cui oggi è stato affiancato il simbolo di Hezbollah. Neil con dovizia di particolari ci racconta la storia della sua città, l’etimologia della parola Derry che viene dal gaelico Doire. “Non c’è il corrispettivo gaelico di London” dice ironicamente.

I nomi sono importanti in Nord Irlanda, possono dire tanto sulla parte politica da cui stai: se dici ‘Derry’, allora sei sicuramente per un’Irlanda unita, se dici ‘Londonderry’ allora sei leale al Regno Unito, per evitare discussioni tanti abitanti di Derry/Londonderry preferiscono dire che sono di ‘Foyle’, dal nome del fiume che attraversa la città, che ha una connotazione più neutrale.

I nomi, le definizioni possono decidere da che lato della linea gotica stai: può esserci una grande differenza tra dire Irlanda del Nord e Nord dell’Irlanda, nel primo caso si é fedeli alla corona inglese, nel secondo sei chiaramente un sostenitore della causa dell’Irlanda unita e riconosci quella regione, l’Ulster, come il nord dell’isola d’Irlanda.

Ulster stesso può essere un termine da lealisti. Anche dire ‘le sei contee’ può voler dire qualcosa circa il proprio orientamento politico. Bisogna stare attenti alle scelte lessicali quando si è in Irlanda del Nord, può capitare di mettersi da soli nei guai senza volerlo.

Continuiamo il nostro giro per l’Irlanda del Nord anche nei giorni successivi, in ogni angolo della regione c’è traccia del conflitto che fu e che in parte ancora è: che si tratti di un marciapiede colorato a strisce rosse e blu, di una strada il cui nome é indicato sia in gaelico che in inglese, di bandiere irlandesi e britanniche o nord irlandesi che si alternano a seconda che il quartiere sia a maggioranza lealista o repubblicana: tutto parla di rivalità mai realmente sopite, neppure dopo l’Accordo del Venerdì Santo, firmato il 10 Aprile del 1998, che portò all’inizio del processo di pace in Irlanda del Nord tra lealisti e repubblicani.

Girando per le città del Nord Irlanda, può capitare di chiedersi, guardando i volti delle persone, se si possano scorgere o meno ancora le tracce del conflitto nelle loro espressioni. Nei visi dei più giovani, dai racconti che vengon fatti loro dai genitori o dai parenti a casa, nei volti degli adulti: ogni volta che ne guardi uno ti chiedi se all’epoca dei Troubles fosse abbastanza grande da ricordare qualcosa di quel periodo.

A Belfast, dove torniamo qualche giorno dopo, passeggio per il centro, forse la zona più neutra della città, quella in cui le differenze di credo politico e religioso sembrano dipanarsi salvo poi riuscire a scorgerle, ancora, in qualche piccolo dettaglio: le dita degli autisti dei bus hanno strani tatuaggi con sigle, simboli, motivi che si ripetono e- forse un pò fantasiosamente, forse un pò influenzati dal tatuaggio U.D.A. (sigla del gruppo paramilitare Ulster Defence Association) sulla mano della guardia carceraria che si rifiuta di aiutare Bobby Sands nel film Hunger– ci si chiede se siano simboli di affiliazioni a bande, gruppi paramilitari, o semplici tatuaggi.

Gli stessi simboli ti sembra di scorgerli sulle dita di chi sta davanti o dietro di te nella fila al supermercato, ma c’è poco tempo per provare a decifrarli e comunque nessuno è disposto a dare risposta a questa domanda.

Può capitare di cercare di scorgere quegli stessi simboli un pomeriggio in cui cerchi l’ufficio postale più vicino e Google Maps ti dirotta su Falls Road, ma scorrendo le varie scritte sui murals non trovi nulla che ti ricordi quei simboli. Continui a camminare e così arrivi al muro della pace e ai cancelli che dividono Falls da Shankill, dall’altro lato del cancello i murals con la bandiera palestinese e le scritte in arabo lasciano posto ad altri murals pro Israele: è cosi che capisci di essere passata nel quartiere dei lealisti, sono però quasi le sei del pomeriggio, i cancelli stanno per chiudersi e rischieresti di rimanere bloccata, ed è per questo motivo che decidi di non proseguire la passeggiata.

Tornando indietro ripercorri Falls Road e proprio vicino all’interfaccia tra Shankill e Falls sorge la Divis Tower, che durante i Troubles era diventata sede di un punto di osservazione dell’esercito britannico, accessibile solo tramite elicottero all’apice di quegli anni di sangue.

Divis Tower è uno degli ultimi avamposti prima di defluire verso il centro della città e la City Hall di Belfast. Dalla Divis Tower ci ripasserai qualche giorno dopo, perché sai già che li ti aspetterà Paul, ex militante dell’IRA, per raccontarti cosa è stato vivere quindici anni di carcere durante i Troubles. Paul ti raccont anche la blanket e la dirty protest.

In quegli anni si finiva in carcere senza un’accusa precisa e senza aver subito un regolare processo, era il cosiddetto internment.

I militanti dell’IRA, una volta in carcere, si rifiutavano di indossare la divisa da carcerati, chiedendo che fosse riconosciuto loro lo status di prigioniero politico.

Così si coprivano unicamente con una coperta e ogni volta che andavano in bagno puntualmente venivano picchiati dalle guardie carcerarie. Pian piano smisero di andare in bagno e presero a lanciare le feci contro le pareti delle loro celle, dando così inizio alla dirty protest ma, come in una spirale il cui punto più profondo si sfoca laddove ci si inizia a chiedere chi è che sa di cosa sono capaci tutti vanificato un certo limite, non bastò neppure la dirty protest per farsi ascoltare da Margaret Thatcher e così passarono allo sciopero della fame e della sete, quello che portò alla morte di Bobby Sands nel 1981.

Neppure questa e le altre morti per inedia servirono a far retrocedere di un solo passo Margaret Thatcher.

Bobby Sands prima di morire era stato comunque eletto nel parlamento del Regno Unito per il collegio delle contee di Fermanagh e South Tyrone, tuttavia una legge del Regno Unito promulgata poco dopo impediva ai detenuti di partecipare alle elezioni e fare politica.

Non è semplice non empatizzare con il racconto di Paul, mantenersi distanti e non esprimere giudizi nella consapevolezza che c’è ancora l’altra campana, quella lealista, da ascoltare. Parliamo ancora di tante altre cose con Paul, dei suoi figli, delle scuole che ha scelto per loro mentre ci mostra i murals per le strade di Falls, dove è cresciuto e vive ancora. Ci porta davanti alla chiesa dove sono stati discussi gli accordi del venerdì santo, lì parliamo della Brexit, della paura che questa riporti al confine rigido tra Irlanda e Regno Unito, del timore che il partito lealista D.U.P. attualmente detentore della maggioranza nel parlamento nord irlandese possa fare di tutto per compromettere l’avanzamento del processo di pace permesso dagli accordi del venerdì santo.

Non c’è tempo per continuare la nostra chiacchierata perché Falls Road è quasi finita e dall’altro lato a Shankill ci aspetta Mark, che durante gli anni del conflitto stava dall’altra parte, anche se non si capisce bene quale.

Gli chiedo subito se fosse membro del gruppo paramilitare U.V.F. e lui fa quasi finta di non capire a cosa mi sto riferendo, lasciandomi tra l’incredulo e la sensazione che mi stia raccontando una bugia. “Sono un membro dell’esercito britannico, vittima per ben tre volte di attacchi terroristici dell’IRA” mi dice, mostrandomi le cicatrici ai polsi e alle gambe.

Su un polpaccio, ha un enorme tatuaggio, e tanti altri sono coperti dalla tuta in acetato che indossa: con diffidenza prendo per vero il suo status di ex membro dell’esercito britannico, quei tatuaggi mi fanno pensare ad altro, ma non esattamente a cosa.

Con Mark il registro della narrazione cambia completamente, con Paul non abbiamo sentito una sola volta la parola ‘cattolici’, molto spesso ‘repubblicani’ contro ‘lealisti’. Mark, invece, ci tiene a farci sapere che su Shankill ci sono solo protestanti, negozi protestanti, pub protestanti, chiese protestanti, tutto protestante. “C’è un muro che ci divide, cattolici e protestanti, e cancelli che si chiudono alle sei del pomeriggio per separarci. Solo l’11% degli abitanti di Shankill sarebbe favorevole alla rimozione di quel muro e dei cancelli” mi dice.

I murals di Shankill Road sono diversi da quelli di Falls, commemorano i morti in seguito ad attacchi dell’IRA, alcune volte azzardano paragoni tra IRA e ISIS, a voler sottointendere che si tratti dello stesso genere di terrorismo. Murals che raffigurano uomini armati, membri di gruppi paramilitari: è difficile credere alle parole di Mark, quando ci dice che i lealisti hanno imbracciato le armi solo per difendersi, ed è ancora più difficile credere alla sua buona fede quando ci dice che è necessario lavorare affinché le nuove generazioni non vivano nuovamente i conflitti del passato.

Come si fa a credergli, quando tutti i murals, i pannelli lì intorno parlano di sangue, conflitti, armi, odio? Come si può credere alla sua sinossi. che incessantemente cerca dimostrare come fossero solo ed esclusivamente i protestanti ad avere delle buone ragioni durante il conflitto?

La narrazione di Mark non tiene conto di tutte le morti subite dai repubblicani per mano dell’U.V.F., dell’U.D.A., degli Shankill Butchers. Venti anni dopo la fine del conflitto, sembra di assistere al monologo di un sordo. Intanto mi guardo intorno, guardo alle vetrine dei negozi chiusi su Shankill, che sembra quasi un quartiere fantasma: per strada non c’è nessuno, le saracinesche abbassate nonostante siano solo le cinque del pomeriggio, ovunque bandiere del Regno Unito e di gruppi paramilitari, qualche bandiera israeliana si intravede tra le tabelle dei negozi per casalinghi.

Le case sono ornate da un tripudio di bandiere inglesi, i colori rosso, blu e bianco si ripetono anche nelle ceramiche delle decorazioni in giardino. Alle finestre di quelle case non c’è però nessuno.

Se su Falls cercano in tanti di farsi conoscere, di raccontare la loro storia e la loro esperienza durante i Troubles, qui è persino difficile incrociare qualcuno.

Ti chiedi di cosa vivano dal momento che tutti i negozi sono chiusi e su cosa si basi la vita sociale in quel quartiere, sono le sei del pomeriggio ed è tempo di tornare di nuovo in centro, onde evitare di restar chiusi dietro i cancelli.

Qualche giorno dopo, una ragazza turca che a Shankill ci aveva abitato prima di trasferirsi su Falls Road, mi dice che lei- come altri- era persino costretta a pagare il pizzo all’U.F.F. (Ulster Freedom Fighters) per poter vivere in quel quartiere. Non so se sia vero, ma comunque nessuno è in grado di confermare o smentire questa affermazione.

Durante l’incontro con Paul e Mark, mi sono segnata i nomi scritti sulle loro tute: Coiste, su quella di Paul, ‘Epic’ su quella di Mark. Da una rapida ricerca su internet scopro che sono entrambe associazioni che lavorano per il recupero e la reintegrazione in società degli ex prigionieri politici, di parte repubblicana e lealista.

Mi piacerebbe saperne di più sul lavoro svolto da ambo le parti da entrambe le associazioni, così le contatto. Epic non mi risponde, ma Coiste mi fissa subito un appuntamento con Michael per il giorno dopo.

Michael è un ex membro dell’IRA che oggi lavora per il reinserimento in società di altri prigionieri politici come lui, sono circa 25mila in tutto il Nord Irlanda. Mi dà appuntamento nella sede di Coiste su Falls Road, dove appena entrata lo sento parlare in gaelico con un collega che gioca con un anti stress a forma di Pikachu. E’ un sincretismo abbastanza strano: ex prigionieri politici, di cultura, impegnati nel sociale, che giocano con Pikachu.

Michael è stato sedici anni in carcere, è entrato quando suo figlio era appena nato e ne è uscito quando era già un uomo, mi dice.

Appena uscito dal carcere è stato molto difficile per lui trovare un lavoro, ha seguito dei corsi ed è diventato un insegnante.

Ci sono ben cinque pagine della legislazione inglese che regolano lo status degli ex prigionieri politici, non solo dell’IRA ma anche della parte lealista, e che riguardano la libertà di movimento, servizi come le assicurazioni sanitarie o quelle sulle auto che possono essere legalmente negati in qualsiasi momento a un ex prigioniero politico.

Michael lavora perché i diritti di queste persone siano garantiti quanto più possibile, come ex membro dell’IRA è anche lui soggetto a queste restrizioni e per esempio non può andare negli Stai Uniti, in Canada e in Nuova Zelanda.

Michael è il coordinatore di Coiste per il Nord Irlanda, gli chiedo di cosa si occupa con l’associazione e mi dice che non solo lavora per il reinserimento in società degli ex prigionieri politici dell’IRA ma anche per la promozione del dialogo con i loro ex nemici, i membri dell’esercito inglese e dei gruppi paramilitari lealisti.

Per gli ex prigionieri politici esisteva anche un sistema di finanziamenti europei, racconta Michael, che è però finito due anni fa. L’interesse di Michael e della sua associazione è quello di far sì che i punti programmatici su cui si basano gli accordi del venerdì santo siano pienamente rispettati, Brexit o non Brexit, questione sulla quale si pronuncia con un perentorio “Non voglio la Brexit” che non lascia spazio a dubbi e ad ulteriori domande.

Più volte, mentre parla, gli guardo le mani e penso a quante persone ci avrà ucciso, di come per me qualche minuto prima ci abbia preparato del tè e di come invece in passato ci abbia ucciso delle persone. Penso a quanto siano stupide quelle riflessioni che facciamo ogni volta che vediamo il volto di un presunto assassino e diciamo ‘sembra una buona persona’ o ‘sembra cattivo’.

Quando ti trovi davanti persone come Michael, indipendentemente dai delitti di cui si sono macchiati, capisci che queste distinzioni non hanno senso, che una persona può essere contemporaneamente chi ti offre tutti i biscotti che vuoi e al tempo stesso progettare attentati contro altre persone.

Penso che in tutto questo ciò che conta sia avere una motivazione, uno scopo, è questo ciò che decide le azioni umane e crea rapporti di consequenzialità tra di loro. Preparo un tè con i biscotti per accogliere un ospite, pianifico attentati contro membri dell’esercito britannico perché il mio obiettivo è avere il Nord Irlanda libero dagli inglesi: da qui tutto il resto consegue.

Michael non sembra una persona che cerca di fare apologia di se stesso, non li chiama mai attentati ma azioni, mi dice: “Lo so che quello che abbiamo fatto è terribile”, e forse è un pò inibito dal parlare liberamente: le cose migliorano quando apprende che comunque vengo da una terra in cui si bruciano i bambini e si sciolgono le donne nell’acido, la mia soglia di impressionabilità è pertanto abbastanza bassa.

Così si libera, racconta episodi come l’attentato davanti alla pescheria del signor Frizell, in cui perse la vita anche un membro dell’IRA, con dovizia di particolari, di come quella bomba loro l’avessero piazzata per uccidere quelli dell’U.V.F. che si riunivano nell’appartamento sopra alla pescheria del signor Frizell.

Quella bomba scoppiò in anticipo uccidendo così il signor Frizell, un bambino e anche il tizio dell’IRA che l’aveva piazzata lì. Mark qualche giorno prima aveva dato una versione completamente diversa dell’accaduto, intendendo che l’IRA intenzionalmente avesse voluto uccidere il signor Frizell.

A Micheal chiedo anche se sa chi sia Mark, perché ancora quei tatuaggi non mi convincono, e scopro di averci visto giusto: Mark era membro dell’U.D.R. (Ulster Defence Regiment, gruppo sciolto in seguito agli accordi del venerdì santo) un gruppo paramilitare lealista che solo in un secondo momento era stato accorpato all’esercito britannico. Gli chiedo anche se sa qualcosa del pizzo nei quartieri lealisti, ma non ne sa nulla. A quanto pare questo quesito è destinato a rimanere irrisolto.

Dopo un’ora abbondante di conversazione in cui parliamo di colonialismo di approcci differenti all’analisi del conflitto nord irlandese, dell’istruzione nel Nord dell’Irland, ci congediamo perché Michael ha un altro impegno.

Su un foglio bianco indica la strada per il cimitero dove è sepolto Bobby Sands, non è molto distante da lì: traccia una linea verticale, poi una curva, poi di nuovo una verticale e poi una a sinistra e dice: “Bobby is just here”. Già, Bobby- come lo chiama lui- è qui, come se non fosse mai morto o come se fosse morto solo pochi minuti prima.

[1] The Troubles è l’appellativo con cui è conosciuto il conflitto etno- nazionalista nordirlandese, che ha avuto luogo tra la fine degli anni sessanta e la fine degli anni novanta. I Troubles non sono stati circoscritti ai confini della sola Irlanda del Nord,  ma hanno portato morte e violenza anche in Gran Bretagna e nella Repubblica d’Irlanda.