di Andrea Rizzi
16 Novembre 2021
Attivisti senza visti e accordi annacquati: la COP26 è un fiasco. E mentre il clima manda segnali, i grandi del mondo chiudono gli occhi. Al presente e al passato
Salendo sul palco dell’assemblea plenaria che ha aperto la COP26, la conferenza mondiale sul clima di Glasgow, il Principe Carlo è inciampato su un gradino, rischiando seriamente un ben poco principesco capitombolo in mondovisione.
Ad alcuni ha immediatamente ricordato un altro celebre scivolone, quello di Fidel Castro nel 2004, prologo al declino fisico (e politico) dell’affaticato leader rivoluzionario cubano.
Ironicamente – ma non troppo – si può affermare che l’involontaria “citazione” di Carlo sia stato l’atto più rivoluzionario dell’intera conferenza scozzese, risoltasi in un sostanziale nulla di fatto dopo oltre due settimane di negoziati al ribasso.
Il testo finale, ulteriormente indebolito dal prepotente aut aut indo-cinese dell’ultimo minuto che ha portato Alok Sharma alle lacrime, è infatti un brodino di proroghe e greenwashing che lascia aperta la porta a molto del business as usual su cui Glasgow avrebbe dovuto mettere una pietra tombale, e seppellisce invece ogni speranza di centrare l’obiettivo di riscaldamento massimo di 1,5 gradi.
A Glasgow è apparso più chiaro che mai che il futuro del clima (sia in termini di adattamento, sia in termini di mitigazione delle emissioni) si giocherà a suon di dollari, sia quelli che i Paesi ricchi stanzieranno per la propria transizione energetica, sia quelli che destineranno ai Paesi meno sviluppati.
A questo riguardo proprio il principe britannico, durante il suo intervento, ha pronunciato una frase rivelatrice – pur passata largamente inosservata – che evidenzia come l’attuale infrastruttura della lotta globale al cambiamento climatico poggi su presupposti che la condannano al fallimento.
Riferendosi al sud del mondo, Carlo ha affermato: “I Paesi su cui gravano crescenti livelli di debito semplicemente non possono permettersi la transizione ecologica”. Il dettaglio diabolico della frase sta proprio nel concetto di Paesi zavorrati dal debito (“burdened by growing levels of debt”), che ignora deliberatamente l’origine di quel debito. Come se i debiti dei Paesi poveri fossero qualcosa di connaturato, immanente, nato dal nulla o – peggio – causato unicamente dall’incompetenza e dalla corruzione delle élite locali, e non invece frutto di una plurisecolare eredità di colonizzazione militare e una più recente colonizzazione economica, (mal)celata dietro programmi di “aggiustamento strutturale” e altre politiche macroeconomiche imposte da FMI e soci (per non parlare delle sanzioni più o meno dirette inflitte a svariati Paesi).
Ma il Principe Carlo, in questa subdola missione di cancellazione del passato (in primis quello del suo stesso impero) non è da solo: anche il linguaggio ufficiale delle Nazioni Unite e delle organizzazioni collaterali definisce i Paesi che prendono impegni economici come “donatori”, tratteggiando l’immagine di un generoso benefattore che aiuta un subalterno in difficoltà.
La misura della penuria di impegni concreti emersi dalla COP26 è data dalla diffusa esaltazione che ha accompagnato l’annuncio congiunto USA-Cina del 10 novembre . Un annuncio del nulla, in cui le due potenze si “impegnano a impegnarsi”, rigorosamente “in base alle diverse circostanze nazionali” e senza alcuna menzione di questioni chiave come i combustibili fossili.
Così, per evitare figuracce, delegati e politici hanno fatto ampio ricorso a quelli che potremmo definire i “feticci” dell’azione climatica: quegli effimeri risultati, cioè, che possono essere sventolati davanti a stampa ed elettorato per corroborare i proclami trionfali (e giustificare il proprio stipendio).
Un po’ come quando, nel settembre 1938, il primo ministro inglese Neville Chamberlain, appena sceso dall’aereo di ritorno da Monaco di Baviera, sventolò davanti alla stampa il patto di non aggressione firmato da Hitler (è superfluo rammentare come proseguì la storia).
Tipici esempi, per la COP26, sono l’accordo sullo stop alla deforestazione e quello sull’abbandono dal carbone: poco più che dichiarazioni di intenti, senza vere e proprie tabelle di marcia né meccanismi di monitoraggio indipendente, peraltro con obiettivi in parte sovrapponibili a convenzioni precedenti. La BOGA (Beyond Oil and Gas Alliance), poi, è talmente indebolita dall’assenza di attori chiave e svuotata dalle possibili scappatoie dal rasentare la presa in giro. L’Italia, per andare sul sicuro, voleva starne fuori ma – sotto forte pressione mediatica e diplomatica – ha aderito semplicemente come “friend”.
Non ci si poteva aspettare molto di più, del resto, da una COP che è stata da molti definita la meno inclusiva della storia.
Centinaia di delegati dei Paesi meno sviluppati e comunità indigene sono stati esclusi a causa dei costi di partecipazione e addirittura dalla mancata concessione dei visti, e i pochi attivisti a cui è stato concesso il palcoscenico ufficiale hanno rischiato di fungere da meri comprador, dando una verniciata di legittimità al sistema dominante.
Il pulpito della sala plenaria e delle altre (poche) stanze accessibili a media e osservatori, infatti, è stato prevalentemente riservato a una sorta di open-mic show di miliardari che raccontavano di quanto il pianeta appaia delicato visto dall’oblò della loro nave spaziale, di finanzieri che magnificavano le virtù dei mercati del carbonio e il ruolo settore privato nel risolvere la crisi climatica, e di filantropi che – nascosti sotto il tappeto i clamorosi fallimenti precedenti – ci insegnavano come salvare il globo.
Un problema di soldi, si diceva. Non perché i soldi non ci siano, anzi: il mondo non è mai stato così ricco, in termini puramente finanziari.
Il punto è dove finiscono: secondo l’UNDP, per ogni dollaro speso per combattere il cambiamento climatico se ne spendono quattro per i sussidi ai combustibili fossili; più di due, invece, vengono stanziati per la militarizzazione dei confini (ma il rapporto in Nord America è di oltre 1:10). E che dire della tassazione dei super-ricchi? Un disegno di legge di Joe Biden (guarda caso criticato da Elon Musk e affossato dagli stessi senatori democratici), che avrebbe aumentato la tassazione sui profitti dei 700 americani più ricchi, avrebbe permesso al tesoro statunitense di racimolare 345 miliardi di dollari. E stiamo parlando – vale la pena di tenerlo presente – solo di una parziale tassazione degli utili da capitale di un manipolo di magnati di uno solo dei Paesi ricchi.
In Italia, poi, ci pensa il ministro Cingolani a ricordarci a ogni piè sospinto che la transizione costa. Il popolo non può capire, forse glielo potrà spiegare l’esperto di rinascimento ecologico Matteo Renzi, al cui partito è sempre più vicino (sarà forse per la comunanza con Renzi che il ministro non dà molto peso agli esiti dei referendum popolari, e vorrebbe farsi beffe di quello sul nucleare resuscitandolo in Italia).
I popoli di tutto il mondo, però, stanno già morendo e – nel migliore dei casi – subendo le conseguenze economiche del cambiamento climatico, conseguenze che in futuro costeranno molto più care (a governi e privati cittadini) dei pur massicci interventi preventivi che il ministro è tanto restio a promuovere.
In altre parole, ci troviamo di fronte a una vasca che sta per traboccare, ma chiudere il rubinetto richiede uno sforzo. Ci penseremo domani, quando il bagno sarà già allagato.
La metafora, purtroppo, non è lontano dall’essere letterale. E con un pianeta “allagato” (ossia con livelli dei mari più alti, intere città e isole sott’acqua e fenomeni atmosferici sempre più estremi), uno dei tanti problemi destinati ad aumentare esponenzialmente è quello delle migrazioni. Mentre l’Occidente costruisce muri e l’Europa trasforma il Mediterraneo in un cimitero galleggiante, solo nel 2020 si sono registrati 30 milioni di sfollati climatici nel mondo, una cifra destinata a moltiplicarsi negli anni a venire. Come reagirà la nostra società, sempre più fragile e xenofoba, è difficile a dirsi. Ma mentre noi ancora bisticciamo per il costo della transizione, mezzo punto di PIL ed elemosine ai Paesi poveri, la terra inizia a scottarci sotto i piedi, a ricordarci dell’incendio che abbiamo appiccato.
La COP ha fallito e tutto è perduto, dunque? Non è detto. Pur se in Scozia è stato più facile avvistare il mostro di Lochness che impegni concreti di lotta al cambiamento climatico, in assenza d’altro la COP rimane un foro rilevante, in cui tutti i Paesi, compresi i più imperialisti e inquinanti, sono costretti a rendere conto ai più poveri in una condizione di – almeno teorica – parità.
E in cui la pressione concentrata dell’opinione pubblica globale può costringere i leader a dare un certo indirizzo politico alla lotta per la giustizia climatica.
Nella lotta quotidiana, poi, gli impegni politici sono solo una delle forze in gioco: complici la pandemia e le catastrofi degli ultimi anni, la società civile si è destata, e gli attivisti (e certa stampa) stanno svolgendo il prezioso ruolo di cerniera tra la scienza, l’accademia e i cittadini “comuni”, ancora largamente ignari di ciò che sta accadendo. Se gli impegni scritti non rimarranno lettera morta sarà solo perché il popolo continuerà a esigere risultati.
Come il 6 ottobre, giorno del Global Day of Action, quando le strade di Glasgow sono state invase pacificamente da 150.000 persone: le istanze dei manifestanti erano tra le più svariate, tutte – oltre al filo rosso del clima – riconducibili alla giustizia sociale e alla decentralizzazione del potere. Certo, se c’è una cosa che le proteste e le rivoluzioni degli ultimi decenni ci hanno insegnato, è che le piazze non vanno idealizzate. Ma situazioni liminali come quella in cui ci troviamo possono fare breccia nel sistema, aprendo fessure in cui può trovare sbocco l’eterna tensione tra spinte al cambiamento e forze di reazione. Insinuandosi come acqua che poi, solidificandosi, spacca dall’interno una struttura che pareva indistruttibile. Perché, come ha scritto l’antropologa Lisa Stevenson, “a volte è la verità del possibile, e non la realtà, a dover essere trasmessa”.