di Andrea Rizzi
13 Settembre 2018
Il passo d’addio di Jean-Claude Juncker alla Commissione europea è zoppicante, e non solo per i problemi di salute del politico lussemburghese. L’Unione Europea è in crisi e anche i suoi vertici sembrano capaci solo di scaricare il proverbiale barile.
STRASBURGO – Nel giorno del simbolico addio di Jean-Claude Juncker (è stato il suo ultimo discorso sullo stato dell’Unione europea al Parlamento in qualità di presidente della Commissione), a rubare la scena nell’emiciclo di Strasburgo sono i due voti più attesi delle ultime settimane: quello sulla procedura d’infrazione ai danni dell’Ungheria di Orban e quello sulla discussa legge sul copyright.
Questo anche perché il discorso dell’ex premier lussemburghese, a dire il vero, non è stato dei più memorabili: pur mostrando ancora una volta una personalità politica riconosciutagli anche dagli avversari e non perdendosi in stucchevoli elenchi di sassolini da togliersi dalla scarpa, Juncker è apparso fisicamente e intellettualmente provato, pronunciando un discorso piuttosto prevedibile, con passaggi alquanto bizzarri e altri retorici, in cui a risaltare per concretezza sono state la proposta di eliminare il cambio dell’ora (ogni Paese potrebbe scegliere se utilizzare quella legale o quella solare tutto l’anno) e la battaglia contro la plastica e il cambiamento climatico nel suo complesso.
Ancora stordita dalla Brexit, indebolita dai nazionalismi e immobilizzata dalla questione migranti in cui ogni sbarco sembra un Giorno della marmotta cui non si viene a capo, l’Unione sta attraversando una crisi esistenziale che nel 2014, all’inizio del mandato Juncker, faceva capolino forse solo nei sogni più entusiastici degli euroscettici.
Il presidente, a cui ha fatto eco un’europarlamentare intervenuta successivamente, ha esplicitamente scaricato il barile sui governi nazionali, chiarendo che Commissione e Parlamento non ci stanno a fare da capri espiatori.
Ed è forse questo il principale messaggio politico – ancorché di moderata rassegnazione – lanciato nel suo ultimo discorso di fronte alla plenaria: o gli Stati membri tornano a dialogare costruttivamente per trovare soluzioni comuni, oppure qualsiasi progresso, dal controllo dei flussi migratori a un corpo di difesa europeo, dalle partnership strategiche alla gestione dei problemi interni all’Unione, rimarrà una beata speranza.
Prima ancora di volgere lo sguardo all’esterno, infatti, di gatte da pelare l’UE ne ha diverse anche in casa. Una su tutte l’Ungheria e i sogni di totalitarismo di Viktor Orban, che continua a farsi un baffo delle norme e dei valori a cui il Paese magiaro ha aderito quasi 15 anni fa calando a piacimento la propria scure su giornali, università e altre organizzazioni o individui scomodi al regime.
Juncker l’ha detto a chiare lettere: se ce ne sono gli estremi, l’articolo 7 (quello che prevede l’apertura di una procedura di infrazione nei confronti di uno Stato membro) va applicato. E il Parlamento l’ha ribadito con il suo voto, premiando in larga maggioranza gli sforzi della deputata olandese Judith Sargentini che ha portato in aula la risoluzione.
In primo luogo, per la prima volta il Parlamento ha chiesto al Consiglio di aprire una procedura d’infrazione (quella aperta nei confronti della Polonia è stata iniziativa della Commissione); in secondo luogo, il voto non coerente del Partito Popolare Europeo ha rivelato un’evidente spaccatura in seno al partito di centro-destra di cui fanno parte – tra gli altri – proprio il partito di Orban, Fidesz, e Forza Italia.
Se gli uomini di Berlusconi – così come quelli di Salvini – hanno convintamente difeso il premier ungherese, il capogruppo del PPE Manfred Weber, dopo lunghe riflessioni, ha concesso libertà di voto dichiarandosi personalmente a favore della risoluzione, e anche il premier austriaco Kurz (sulla stessa linea di Orban per alcuni aspetti delle politiche migratorie) si è detto intenzionato a tutelare i diritti fondanti dell’UE.
A favore hanno votato anche il Movimento 5 Stelle e il PD, con la delegazione di quest’ultimo gongolante per la giornata politicamente trionfale: non solo ha potuto sottolineare ancora una volta l’evidente eterogeneità della coalizione di governo gialloverde, palesata dal voto su Orban, ma ha anche potuto esultare per l’approvazione della “direttiva copyright”, di cui la deputata Silvia Costa era tra le promotrici.
La strada per l’approvazione definitiva è ancora lunga (i vari “rimbalzi” legislativi della macchina europea prevedono i negoziati in Consiglio e un voto finale nuovamente in Parlamento), e districarsi tra i proclami di difesa della libertà e dell’arte europea dei promotori e le accuse di censura e oscurantismo da parte di esperti di rete e colossi digitali non sarà facile, ma i membri del PD, per i quali i successi politici sono ormai merce rara, possono lasciare l’Alsazia con il sorriso sulle labbra.
Una storia ben diversa da quella vista da Angelo Ciocca, europarlamentare della Lega che durante la plenaria ha presentato il libro-parodia “Le avventure di Junckerocchio” accusando l’Unione di essere “una truffa, un progetto fallimentare e velenoso per i cittadini, le imprese e le famiglie”.
Ma forse, in fondo, i moniti –tardivi – di Juncker e le pagliacciate della Lega sono solo due facce della stessa medaglia, utili a capire che il progetto di integrazione europea, così come lo conoscevamo, ha i giorni contati. E che senza azioni decise il continente sarà sempre più terra di conquista per chi lo vuole disgregare.