di Edoardo Corradi and Francesco Pagano
1 Ottobre 2018
Reportage dalla casa di Ferdonije Qerkezi, dell’associazione delle madri dei desaparecidos
“Non sono interessata a delle scuse ufficiali da parte dei serbi”, dice Ferdonije Qerkezi, una delle madri le cui famiglie le sono state strappate vie durante la guerra del Kosovo, “voglio solo dei corpi da seppellire. Nel 2005 ho avuto solo quelli dei miei figli Ardian ed Edmon, ma ne mancano tanti”.
Ferdonije Qerkezi è una delle tante vittime della guerra del Kosovo. La sua famiglia non è morta durante gli scontri tra l’UÇK e le allora forze jugoslave, nemmeno sotto i bombardamenti della NATO, ma è letteralmente sparita nel nulla, e da allora non si hanno notizie di loro.
Per questo motivo è stata creata un’associazione delle madri, ossia di tutte coloro che non hanno più i cari e non sanno se considerarli vivi o morti. Ferdonije Qerkezi ha trasformato la sua casa in un museo. Si trova in una villetta a schiera di due piani a Gjakovë/Đakovica, la città che maggiormente ha subito gli effetti della repressione serba e della guerra. A fianco dell’ingresso, una targa ricorda i nomi delle persone scomparse e le loro date di nascita.
Tutti i componenti maschi della famiglia Qerkezi, vennero arrestati dalla polizia serba il 27 marzo del 1999 e nessuno di loro ha mai fatto ritorno. Gli undici uomini della famiglia – Halim Avdurrahim (1946), Artan Halim (1974), Armend Halim (1975), Ardian Halim (1980), Edmond Halim (1984), Vegim Kasim (1980), Shpetim Ymer Ymerga (1976), Skender Hysni Dylhasi (1940), Myrteza Skender Dylhasi (1973), Faton Gani Jetishi (1978) e Shpend Gani Jetishi (1979) – sono tutt’ora scomparsi eccetto Ardian ed Edmon.
Un’intera famiglia spazzata via dalla violenza della guerra. Non solo gli uomini. Ferdonije Qerkezi racconta di come ora lei sia “completamente sola, abbandonata anche dalle donne della famiglia”.
Ci spiega infatti che, con il passare degli anni e il mancato ritorno dei familiari, le donne sposate con i desaparecidos hanno ormai ricreato una nuova famiglia, lasciando sola Ferdonije per dedicarsi ai nuovi parenti.
Una solitudine che ora viene colmata, come ci spiega, “con i tanti visitatori che vengono alla casa-museo, con le scolaresche, con i curiosi che vogliono scoprire di più di quanto successe”.
Saliamo immediatamente al secondo piano della casa, dopo aver lasciato le nostre scarpe all’esterno, proprio sotto la targa commemorativa, e ci rechiamo nella sala da pranzo. Un lungo divano costeggia i muri della stanza, mentre le pareti sono ormai sommerse di fotografie, documenti, ricordi.
Persino una copia della dichiarazione d’indipendenza del Kosovo. Una teca vicino alla porta riporta le foto di Ardian ed Edmon, insieme ai loro vestiti. Ferdonija spiega di averli ricevuti nel 2005, sei anni dopo i tragici eventi. Ha potuto far loro un funerale e dargli una degna sepoltura. Mancano tutti gli altri, e la missione della vita di Ferdonije è di trovare anche loro.
Seduti sul divano della sala, Ferdonije racconta la storia, racconta quello che successe quella tragica notte. Tra le parole, il nome del poliziotto montenegrino Dragan Ragić è quello che più volte viene ripetuto.
Ragić è stato infatti uno degli esecutori materiali dell’arresto, scomparso quando ormai la guerra per i serbi era persa. L’assurda notte vissuta dalla famiglia Qerkezi, e dai loro parenti, è stato un climax di terrore e di ansia.
“La polizia”, racconta Ferdonije, “venne inizialmente per controllare che nella casa non ci fossero rifugiati o membri dell’UÇK”, salvo poi tornare svariate volte per indurre negli inquilini un senso di paura e abbandono. “Più volte Dragan Ragić minacciò di morte gli inquilini dell’abitazione dicendo che avrebbe dovuto tagliare la gola o la testa a tutti gli albanesi. Tornarono ancora una volta, mascherati. Riconoscemmo dagli occhi e dalla voce Dragan. Si finsero dell’UÇK e fecero uscire tutti gli uomini. Alle donne chiesero tutti gli ori, e glieli demmo. Dopo chiesero dei soldi mentre dicevano che agli albanesi avrebbero dovuto tagliare le teste. Alla fine, ci dissero che dovevamo abbandonare la casa e andare in Albania senza far mai più ritorno”.
Il racconto di Ferdonije è spesso interrotto da momenti in cui la voce le si strozza in gola, nonostante gli anni passati la ferita è ancora aperta, e come a lei a tantissime altre donne e famiglie. Vicino alla sala da pranzo, dove abbiamo passato tutto il tempo dell’incontro con Ferdonije, ci sono le camere da letto. Quelle dei figli sono ancora così come sono state lasciate nel 1999. Il cellophane ricopre i loro letti e le lenzuola, mentre vecchi giocattoli sono ancora sul pavimento delle stanze. Niente è cambiato, il tempo sembra essersi fermato in un tragico istante.
Ogni persona che si incontra in Kosovo, sia essa albanese, serba, rom o turca, è stata colpita direttamente dal conflitto. Per questo parlare con i locali di questo argomento non è semplice.
Non si sa fino a che punto la loro storia personale sia tragica, e la domanda sbagliata o posta magari in maniera non troppo delicata secondo la loro sensibilità può far terminare una piacevole conversazione. Che gli effetti della guerra hanno colpito tutti è un’ipotesi corroborata dai numeri. Nel 1999, nel momento in cui terminò la guerra in Kosovo, si stimava che 4500 persone fossero disperse.
Questi si aggiungevano ai 13535 morti durante gli scontri tra le forze di polizia e quelle paramilitari serbe contro l’UÇK, l’Esercito di Liberazione del Kosovo. I numeri, tuttavia, sono solo delle stime. Secondo la Croce Rossa Internazionale, infatti, il numero dei dispersi era nettamente più alto.
Ad oggi, le persone scomparse sono ancora 1659 e il dolore del mancato ritrovamento è ciò che accomuna famiglie albanesi e serbe. Di questi, 1082 sono etnicamente albanesi, 428 sono serbi, 83 appartengono alla minoranza RAE (Rom, Askhali ed Egiziani), 23 sono bosniaci mentre i restanti 43 appartengono ad altre etnie come turchi e gorani, ovvero un’etnia slava di religione musulmana.
Nelle campagne kosovare è comune imbattersi in cimiteri sorti nel più totale isolamento. Luoghi dove ci furono violenti scontri tra le forze di polizia serbe e l’UÇK o, più realisticamente, luoghi di sepoltura collettiva, le fosse comuni. Quelli che sono ancora dispersi potrebbero essere sepolti chissà dove, e la reticenza del governo potrebbe essere data dal cercare un vero e proprio ago nel pagliaio. Tuttavia, è qualcosa che deve essere fatto, per ridare dignità alle famiglie.
Velika Hoča è un piccolo paese di meno di mille abitanti nella regione di Rahovec/Orahovac, interamente abitato da serbi e circondato da albanesi. Si trova nella parte meridionale del Paese, lontano da Mitrovica nord e la regione confinante con la Serbia. Fino ad alcuni anni fa la presenza dei militari internazionali era necessaria per evitare una possibile escalation di tensione.
Ora la KFOR non è più a protezione del villaggio, a differenza invece dei monasteri dove sono ancora presenti. Padre Sava del monastero di Visoki Dečani fa presente come la presenza internazionale sia fondamentale in questo momento per preservare la sicurezza dei tesori architettonici, storici e spirituali ortodossi nel sud del Kosovo. Tornando a Velika Hoča, poco fuori il centro abitato è stato eretto un monumento semicircolare, su cui svetta imponente la bandiera della Serbia. Il monumento è composto di targhe con incisi i nomi dei dispersi di Velika Hoča e poi ritrovati.
Alcune targhe sono ancora vuote, e rappresentano alcuni dei totali desaparecidos serbi. Il giallo acceso dei campi di grano interrompe la monotonia delle campagne kosovare. La vita da contadini, scandita dai duri ritmi di lavoro della terra, porta con sé ancora le ferite della guerra. I visi segnati dal duro lavoro nascondono gli strascichi del conflitto, con la mente al passato mentre la vita continua.
A cercare di far luce sulle sparizioni, e anche a fare da ponte tra le comunità, vi è l’organizzazione non governativa Humanitarian Law Center (Fund za Humanitarno Pravo in serbo e Fondi për të Drejtën Humanitare in albanese) che si occupa del tracciamento dei vari crimini, la richiesta di giuste pene per i perpetratori di tali crimini, la promozione della convivenza comune e la costruzione di un dialogo tra le parti che possa far accettare il lascito della guerra.
Fondato nel 1992 a Belgrado da Nataša Kandić, ha una sua sede anche a Prishtinë/Priština nei locali dell’università. L’attività dello Humanitarian Law Center è tuttavia frenata da un governo che sta mostrando poco interesse nel ritrovare i più di 1600 scomparsi.
Andi Belegu, ricercatore proprio presso lo Humanitarian Law Center, sostiene come la Commissione istituita dal governo kosovaro sulle persone scomparse “non stia giocando alcun ruolo importante nella soluzione del problema e nel ritrovamento dei corpi ancora dispersi” e che la ricerca sia affidata quasi esclusivamente a organizzazioni non governative come la Croce Rossa Internazionale e le singole associazioni familiari.
Ritrovare i dispersi significa chiudere un paragrafo del conflitto che è ancora aperto. Significa anche fare un passo avanti verso una pacificazione o, quantomeno, una convivenza civile. Ferdonije dice che le “interessa soltanto avere dei corpi da seppellire, per non vivere nel dubbio che possano essere ancora vivi”.
Nonostante le grandi difficoltà, tutte le persone che abbiamo incontrato, conosciuto, con cui abbiamo parlato o condiviso momenti e storie, ci salutano tutte con un sorriso. Noi andiamo via, loro rimangono lì, con i loro problemi, la loro vita e i loro fantasmi.
foto di Francesco Pagano
I dati sui desaparecidos in Kosovo
Un webdoc sui desaparecidos serbi durante la guerra in Kosovo