«Alba del 13 giugno 1830, momento breve e netto in cui la luce del giorno esplode sopra la conca profonda. Sono le cinque del mattino. Di fronte alla flotta formidabile che spezza la linea dell’orizzonte, si mostra la Città Imprendibile, biancore irreale, sfavillio di azzurro e grigi. […] Davanti la flotta francese scivola lentamente sull’acqua disegnando un balletto fastoso, dalle prime luci dell’aurora al mezzodì abbagliante. […] Quel 13 giugno 1830 il faccia a faccia dura due, tre ore e anche più, fino ai bagliori che precedono il meriggio. Quasi che gli invasori fossero destinati a diventare degli amanti! […] E il silenzio di quel mattino supremo precede la lunga sequenza delle grida e delle uccisioni che riempiranno i decenni a venire.»
(Assia Djebar, L’amore e la guerra, Ibis, trad. D. Marin, E. Salvadori)
È Assia Djebar, una delle più importanti scrittici algerine, scomparsa nel 2015, a raccontarci poeticamente dell’inizio della colonizzazione francese dell’Algeria, una colonizzazione durata 132 anni, che di poetico e di umano avrà ben poco.
Seppur sotto formale dominio ottomano, l’Algeria del 1830 era ormai da tre secoli uno Stato sostanzialmente indipendente, governata da diversi capi locali che opposero una strenua resistenza all’esercito francese, soprattutto nelle zone interne del paese. Tra questi, l’emiro Abd al-Qader, figura carismatica, a metà tra un leader politico e un capo spirituale, eroe nazionale algerino, costretto ad arrendersi definitivamente nel 1847.
La presenza francese in Algeria, da subito, mostrò il suo volto: saccheggi, devastazioni, uccisioni arbitrarie, massacro di intere tribù, come quella degli Uled Riah, la cui popolazione, nascostasi in delle caverne, venne “affumicata” per ordine del colonnello Pélissier.
Nel 1833, solo tre anni dopo l’inizio della colonizzazione, una commissione francese descriveva così la situazione nella nuova colonia:
«In base a meri sospetti e senza processo abbiamo giustiziato persone le cui colpe successivamente risultavano più che dubbiose… […]; sulla base di un sospetto abbiamo massacrato intere popolazioni […]. In una parola, abbiamo superato la barbarie dei barbari che eravamo venuti a civilizzare.»
(in Voci e silenzi postcoloniali. Frantz Fanon, Assia Djebar e noi, Renate Siebert, Carocci) (1).
Nel 1881, venne emanato il Code de l’indigénat, rimasto in vigore fino al 1944, che sostanzialmente divideva la popolazione presente in Algeria in “cittadini” e “indigeni”, palesando quella virulenta infezione razzista che è alla base di ogni impresa di tipo coloniale. Nel 1889, tutti gli stranieri presenti sul territorio, ma anche gli ebrei d’Algeria, acquisirono lo status di cittadini francesi, mentre gli algerini di fede musulmana vennero definiti genericamente soggetti francesi, manodopera a basso costo per i coloni bianchi.
«La Francia assume sempre più le sembianze di un boia mostruoso. […] È perché la Francia non riconosce all’algerino lo status d’uomo, è perché lo ha sempre trattato come una razza inferiore, è perché nelle sue scuole ha insegnato questa concezione odiosamente razzista.»
(Frantz Fanon, La rivoluzione algerina e la liberazione dell’Africa. Scritti politici (1957-1960), Ombre corte, edizione italiana a cura di G. Proglio)(2).
La disumanizzazione degli “indigeni” avviene sempre attraverso la loro interdizione al racconto, affinché rimangano oggetti senza nome della narrazione della potenza coloniale, e non assurgano mai al ruolo di soggetti della loro storia.
Kamel Daoud, giornalista e scrittore algerino contemporaneo, in Il caso Mersault (Bompiani, trad. Y.Melauouah) (3), ha provato a “risarcire” quelle vittime anonime e dimenticate. Romanzo complesso, quello di Daoud, una sorta di riscrittura de Lo straniero di Albert Camus, pubblicato nel 1942, in cui però adesso il protagonista è l’anonimo arabo ucciso sulla spiaggia dal francese Mersault. La storia è narrata dal punto di vista della vittima, che finalmente ha un nome, Moussa, il suo assassino, invece, non ha più diritto di parola.
Il protagonista narratore è il fratello di Moussa che, nell’Algeria degli anni ’90, in un bar di Orano, racconta ad un muto interlocutore la storia della sua vita, quella del fratello e della loro madre:
«Il fatto è che si tratta di una storia risalente a più di mezzo secolo fa. Subito dopo, se ne era parlato molto. E se ne parla ancora, ma tutti menzionano solo un morto – ed è vergognoso, capisci, perché di morti ce ne sono stati due. Sì, due. Il motivo di questa omissione? Il primo sapeva raccontare, tanto che è riuscito a far dimenticare il suo crimine, mentre il secondo era un povero analfabeta […] un anonimo che non ha fatto in tempo nemmeno ad aver un nome. […] Di lui non resta niente. Resto solo io a parlare al suo posto, seduto in questo bar in attesa di condoglianze che nessuno mi farà. […] Chi è Moussa? È mio fratello. A questo voglio arrivare. A raccontarti ciò che Moussa non ha mai potuto raccontare. […] Pensa, è uno dei libri più letti al mondo, mio fratello sarebbe potuto diventare famoso se il tuo autore gli avesse dato un nome H’med o Kaddour o Hammou, solo un nome, per la miseria! […] Invece no, non gli ha dato un nome perché altrimenti mio fratello avrebbe rappresentato per l’assassino un problema di coscienza: non è facile uccidere un uomo che ha un nome.»
Di morti anonimi e dimenticati, nel periodo coloniale, ce ne saranno migliaia. L’8 maggio 1945, mentre in Europa si festeggiava la vittoria contro la Germania nazista, nelle cittadine di Sétif e Ghelma, in Algeria, nella regione della Cabilia, le rivolte popolari, scoppiate per rivendicare l’indipendenza dal dominio coloniale francese, vengono soffocate nel sangue:
«i nostri 45 mila morti da Sétif a Ghelma ammucchiati
brillano come pomidori che nutrono al sole formiche.»
(Canti anonimi della resistenza algerina, in Poeti e narratori d’Algeria, Editori Riuniti, a cura di R. Dal Sasso)
Bombardamenti, spedizioni punitive, una vera e propria strage che fa da sfondo al romanzo Nedjma, di Yacine Kateb (Jaka Book, trad. G. Mascetti), una pietra miliare della letteratura algerina. Nedjma (stella), donna-mito, nata da un adulterio e da un delitto, è la protagonista del romanzo, ed è anche incarnazione dell’Algeria. Desiderata e violentata, vittima dei soprusi coloniali, sembra dover trarre forza proprio dalla sofferenza e dal sangue, per avviare la costruzione di una nuova società:
«Questa è la via dei Vandali. È una strada d’Algeri o di Costantina, di Sétif o di Ghelma […]. Questa è la strada di Nedjma, mia stella, l’unica arteria dove voglio morire. È una strada sempre al crepuscolo, le case perdono il loro biancore come fosse sangue, con la violenza degli atomi al momento dell’esplosione… Qui sono stesi all’ombra i cadaveri che la polizia non vuole vedere; ma l’ombra s’è messa in cammino sotto l’unica luce del giorno, e il mucchio di morti rimane in vita, percorso da un’ultima onda di sangue.»
«La rivoluzione è per definizione nemica delle mezze misure. Il processo rivoluzionario è irreversibile. L’indipendenza non è una concessione e non dipende dal governo francese.» (2). Così scriveva Frantz Fanon nel 1957, e la rivoluzione algerina, infatti, dopo il massacro di Sétif, fu inarrestabile. A metà degli anni ’50, dalla fusione di due gruppi politici, nacque il FLN (Fronte di Liberazione Nazionale) che, dal 1954 al 1962, portò avanti una lunga battaglia contro l’esercito francese per l’indipendenza del paese.
Alla rivoluzione algerina parteciperanno attivamente anche le donne, con azioni di sabotaggio e altre operazioni clandestine. Finalmente “fuori casa”, “svelate”, anche per poter passare inosservate nei quartieri francesi delle città, le algerine, negli anni della rivoluzione, proveranno a scrollarsi di dosso l’oppressione coloniale ma anche quella del patriarcato.
Il velo delle donne è frustrante per gli uomini europei, lo sguardo coloniale non accetta limitazioni, e si fissa morbosamente sul corpo femminile, vuole vedere per imporre la sua autorità: “svelare” è conquistare. La donna incarna l’intera Algeria: “prendiamoci le donne, e verrà anche il resto”, questo è il motto del governo francese, all’apparire dei primi movimenti rivoluzionari. All’opposto, la donna con il suo velo, per gli algerini, è emblema del rifiuto dell’egemonia coloniale, “perde la sua soggettività e individualità e assurge a simbolo della nazione” (1): le donne algerine sono intrappolate.
Il fermento rivoluzionario di quegli anni si scontra così anche con la società tradizionale algerina. Sono soprattutto le nuove generazioni a comprendere che la rivoluzione, perché sia vera e duratura, deve abbattere anche le strutture patriarcali della società; la decolonizzazione deve entrare nelle case, rompere l’immobilismo. Questo conflitto generazionale e di genere è raccontato in diversi romanzi algerini, tra questi, Un’estate africana di Mohammed Dib (Aiep editore, trad. M Abbrescia, F. Doriguzzi), scritto nel 1959. In un’estate come tante, con caldo soffocante e luce accecante, lo scrittore “origlia” i dialoghi dei vari personaggi, ora in una casa borghese, ora in una casa contadina.
Sullo sfondo della rivoluzione, la giovane Zakya sente che il suo mondo sta mutando, ma suo padre e sua madre hanno deciso per lei il solito destino di moglie e madre.
« “Mamma, non rispondi, vuol dire che allora ho ragione. Sono sicura che mi capisci: sono terribilmente inquieta, non so perché. Ho l’impressione che l’esistenza mi abbia già fatto appassire […] Mettere su famiglia, avere dei figli? Perché? Per chi? Non per me, io non ne voglio. Perché mettere al mondo altri esseri viventi che non sapranno che fare della propria vita?” […]
Yamna stringe a sé la figlia.
“Calmati, tesoro, calmati.”
“Non ci riesco. Mi fa così male la tranquillità!”
Yamna tace e riflette.
“Non capisco più i giovani della tua età […]. Una volta, a una donna non veniva neppure in mente di fare obiezioni sul matrimonio, non succedeva mai, e non poteva succedere! E del resto chi chiedeva il suo parere? […] Ci vuole un po’ di pazienza mia cara. Tu no…” […]
“È con questa saggezza che ci paralizzate. Non ci resta che abituarci a non respirare, poi dire che l’aria non esiste. Dimenticare il male, dimenticare la fatalità alla quale siamo destinati: è tutto quello che sai propormi? Mio Dio!”»
Anche il romanzo autobiografico Gente in Cammino (Giunti, trad. C. M Tresso), della scrittrice Malika Mokedemme, prende il via dagli anni ’50. In casa di Leyla, giovane protagonista del racconto, entrano nuovi oggetti, il frigorifero, ma soprattutto la radio che, con La voce dell’Algeria combattente, emittente del FLN, sarà strumento essenziale per la diffusione delle idee rivoluzionarie e indipendentiste. Leyla, costretta a badare ai suoi fratelli minori, è turbata dalle continue gravidanze della madre, e lotta con suo padre per poter continuare gli studi. I conflitti familiari, a scuola diventano “conflitti” coloniali. Nella giovane Leyla cresce quel senso di alienazione e di straniamento causato dall’imposizione della lingua e della cultura francese per tentare di sradicare e annientare la memoria e la storia algerine:
«La vita della piccola scolara, Leyla, era piena di menzogne e di contraddizioni. L’arabo, sua lingua materna […] lei non la scriveva. A scuola, studiava francese. […] quanto le sarebbe piaciuto imparare a leggere scrivere anche l’arabo! A scuola le infliggevano ostentatamente una nazionalità francese, antenati gallici. […] La bambina viveva nel deserto, ai piedi del Barga, la sua duna, e a scuola le si chiedeva di disegnare uno chalet montano o una casa di campagna. Cose che lei non aveva mai visto. Che aberrazione! Questo la riempiva di una strana sensazione d’irrealtà che le faceva tintinnare in testa tanti campanelli dissonanti… […] ma la sua casa araba, piccola e bianca conchiglia arenata sulla riva del mare di sabbia? Ma le sue palme, lunghi richiami verdi lanciati verso il cielo, che non videro mai il verde ai loro piedi? […] Ma l’incendio dei tramonti, che le consumava in petto la paura, che dallo ksar quietava ogni rumore e nel quale, dall’alto del minareto lontano, si avvitava la voce gutturale del muezzin? Tutto questo, nessuno chiedeva a Leyla di raccontarlo, come se quest’altra vita non esistesse. […] dentro di lei nasceva già una dualità, con le sue gioie agrodolci, con i suoi dolorosi conflitti, con i suoi piccoli e perfidi desideri di rivincita.»
La situazione in Algeria era ormai fuori controllo, e i coloni lamentavano uno scarso aiuto militare da parte del governo francese nel sedare le rivolte. Nel 1959 venne eletto, come presidente della Quinta Repubblica francese, Charles De Gaulle che, dopo un primo periodo di pieno appoggio alla politica coloniale, cambiò radicalmente rotta e si espresse favorevolmente per l’autodeterminazione dell’Algeria. Due anni dopo iniziarono anche le trattative segrete tra il governo francese e il governo provvisorio della Repubblica algerina di Fehrat Abbas, creato dal FLN nel 1958, e con base a Tunisi.
I coloni e i pied-noirs giudicarono questo nuovo atteggiamento del governo francese come un tradimento. Nel 1960, venne creata l’OAS (Organisation de l’Armée Secrète), una organizzazione paramilitare che si opponeva all’indipendenza algerina e i cui membri furono autori, nei due anni successivi, di numerosi e cruenti attentati terroristici in Algeria e in Francia.
In questo nuovo periodo di terrore è ambientato il romanzo Uno sguardo ferito (Mesogea, trad. C. Pastura) dello scrittore Rabah Belamri. Quella raccontata è una doppia tragedia, personale e collettiva. Il giovane Hassan, protagonista del libro, perde gradualmente la vista, anche a causa dei metodi arcaici utilizzati dalla sua famiglia per curarlo; attorno a lui, tortura e morte si moltiplicano:
«Giorni e notti erano scanditi dal crepitio delle armi automatiche e dall’urlo delle sirene delle ambulanze. I “commandos Delta” [Formazioni armate dell’OAS] erano scatenati, totalmente in preda a una follia assassina. Dalle alture della città si sparava sui quartieri arabi. Si mitragliavano i camion pieni di operai di ritorno dai cantieri. Si abbattevano a bruciapelo i bambini che continuavano a giocare sui marciapiedi. Si torturava negli scantinati e si gettavano in strada i corpi mutilati. Si svaligiano gli uffici postali. Si appiccava il fuoco agli uffici pubblici.»
Il romanzo si svolge nel 1962, pochi mesi prima dell’indipendenza algerina, proprio quando gli scontri divennero più cruenti. Hassan, troppo giovane e malato, durante le visite in ospedale per tentare di curare la sua cecità, può solo mettere in atto la sua “resistenza passiva”, rifiutandosi di rispondere al medico in lingua francese. Il silenzio, come spiega bene Ian Chambers, è una delle armi dei colonizzati: «Rifiutarsi di rispondere equivale a negare il linguaggio in cui si viene interpellati.» (1).
Nelle ultime pagine del libro, l’entusiasmo per l’indipendenza finalmente conquistata viene subito offuscato da nuove violenze e vendette, come se la Storia dell’Algeria non potesse sfuggire al suo destino di sangue.
Nel già citato romanzo Il caso Mersault, la madre di Moussa incarna proprio l’Algeria del periodo post-indipendenza. Donna opprimente, “affezionata al dolore e al lutto”, spinge suo figlio a cercare vendetta per l’omicidio del fratello. Per placare la sua follia, il protagonista narratore, fratello di Moussa, ucciderà un “francese qualunque”, uno a caso, ancora una volta un “senza nome”.
Subito dopo il 1962, il paese fu scosso da lotte interne tra le diverse fazioni, che alla fine porteranno a designare Ahmed Ben Bella come primo presidente dell’Algeria indipendente. Nei successivi tre anni di governo, Ben Bella portò avanti riforme di tipo socialista ma, nel 1965, il vicepresidente e ministro della difesa, Houari Boumedienne, diede luogo ad un “raddrizzamento rivoluzionario”, un colpo di Stato, destituendo il presidente, colpevole di non essere stato in grado di attuare una gestione di Stato simile a quella del socialismo sovietico.
L’indipendenza è il primo passo per la decolonizzazione, ma non è sempre sufficiente alla reale creazione di una “umanità nuova”, decolonizzata nel pensiero. Le politiche di nazionalizzazione attuate dal nuovo governo, spesso, non fecero altro che cedere alle élite militari autoctone i privilegi della vecchia borghesia coloniale, anche se, ad esempio, la nazionalizzazione petrolifera del 1971, portò una decisiva e significativa crescita economica del paese. Inoltre, l’imposizione della politica del partito unico ancora una volta non teneva conto della complessità della Storia algerina, e soprattutto non fu in grado di iniziare quel processo di elaborazione e digestione delle pratiche coloniali, atto irrinunciabile per la realizzazione di società realmente democratiche:
«regimi aggrappati al mito semplificante e totalitario “dell’unico”: partito unico, religione unica, memoria unica, lingua unica, etnia dominante unica. E, generalmente, sesso unico (maschile dominante).» (1)
Il romanzo Il ripudio (Edizioni Lavoro, trad. T. Colusso e T. Maraini), dello scrittore Rachid Boudjedra, scritto nel 1969, racconta dell’Algeria degli anni post-indipendenza. Rachid, il protagonista, è profondamente malato, schizofrenico, esattamente come il suo paese divenuto ormai solo un “immenso ospedale”. Il ripudio subito della giovane madre porta Rachid, eroe negativo e dissacrante, a ripudiare suo padre e tutto il mondo patriarcale, ipocrita e decadente. Il protagonista si muove tra sangue, orge e fumatori di kif, in una Algeria in cui fa ritorno quella “fauna rosa” espulsa nel 1962, gli europei, con i loro progetti di cooperazione di tipo neocoloniale.
Raccontare la sua storia alla giovane compagna sembra l’unica efficace terapia per Rachid, e forse per tanti altri algerini: “svuotarsi di quella follia discorsiva” per tentare di ritrovare una coscienza di sé in una continuità spazio-temporale.
Nel 1978, alla morte di Houari Boumedienne, salì al potere Chadli Benjedid che diede il via ad una politica di tipo liberista, smembrando gli apparati statali e, in buona sostanza, vanificando gli sforzi dei precedenti governi in campo economico. Nel 1984, venne introdotto, inoltre, il Codice della famiglia che considerava la donna algerina una “minorenne a vita”, soggetta alle decisioni del padre e poi del marito.
Il crollo del prezzo del petrolio, a metà degli anni ’80, fece letteralmente implodere l’economia algerina, costringendo il governo a introdurre una politica di austerità, che sarà la causa dell’inizio delle rivolte del 1988, rivolte represse violentemente dall’esercito.
In Camping (Nottetempo, trad. M. P. Ottieri), di Abdelkader Djemaï, viene raccontata, attraverso gli occhi di un bambino di undici anni, l’estate che precedette gli scontri del 1988, scontri che anticiperanno anche lo scoppio della guerra civile. La tranquilla vacanza al mare in campeggio, che ricorda molto l’atmosfera delle vacanze italiane anni Ottanta, sarà il preludio di qualcosa di terrificante, il cui nero presagio aleggia tra le pagine del libro.
«Anche le pile per le radioline, le lavatrici, i fornelli elettrici e i frigoriferi erano tutti d’importazione. Li si trovava per somme ragionevoli nei negozi dello stato, alcuni dei quali sarebbero stati incendiati nel corso dei tumulti dell’ottobre 1988. Senza che ce lo aspettassimo, la città, il paese ci caddero sulla testa dal venticinquesimo piano. Mi ricordo la carreggiata, i marciapiedi disseminati di pacchi di detersivo sventrati, le vetrine infrante. […] Presto avrei compiuto dodici anni. Era la seconda vacanza della mia vita. E l’ultima. L’estate che seguì fu un’estate di cenere.»
Anche Le tempeste dell’isola degli uccelli (Jouvence, trad. J. Guardi), dello scrittore Gilali Kellas, scritto nel 1988, parte proprio dagli eventi di quell’anno. Il narratore è un giornalista che, arrestato dalle forze dell’ordine, dalla sua cella racconta la lunga Storia algerina partendo dal 1492, anno della caduta dell’Andalusia, passando poi per il periodo ottomano, quello coloniale e quello post-indipendenza. Lo scrittore sottolinea così come gli eventi storici vadano sempre interpretati come parti di un’unica sequenza, e non come momenti a sé stanti. Kellas narra delle torture da lui subite, del suicidio, della scomparsa e dell’emigrazione di intellettuali e scrittori, avvenimenti che faranno parte, a lungo, della Storia del paese:
«il filo che unisce tutti questi casi di scomparsa è che le vittime “praticavano la politica”, così dicono mormorando gli abitanti della città. […] Mi hanno arrestato e condotto in uno strano nascondiglio a occhi bendati e mani legate. Elettricità. Messo a sedere su bottiglie insaponate. […] le accuse sono chiare. Sono un giornalista che ha superato i limiti della sua professione, vietato parlare al “popolo”.»
Gli scontri del 1988 spinsero il governo a promulgare una nuova costituzione che mise fine al partito unico, e aprì la strada al multipartitismo. Le elezioni del 1991 videro la netta vittoria del FIS (Fronte Islamico di Salvezza) ma, già nel 1992, un colpo di Stato militare riportò il potere nelle mani del “Supremo Comitato di Stato”, tra i cui membri vi erano un militare e militanti del FLN. Iniziò una lunga stagione di censura, arresti e torture ai danni dei membri del FIS. L’immediata risposta dei movimenti islamici fu la creazione di gruppi armati, anche tra loro contrapposti, tra questi, il MIA (Movimento Islamico Armato), vicino al FIS, e il GIA (Gruppo Islamico Armato), formato in gran parte da ex combattenti anti-sovietici in Afghanistan. L’Algeria fu scossa da numerosi scontri tra esercito e gruppi armati, ma anche da feroci atti terroristici dei movimenti islamici ai danni di intellettuali laici e giornalisti, molti dei quali decisero di lasciare il Paese.
In questo periodo, scrivere diventa un’urgenza, anche per tentare di comprendere ciò che accade nella vita reale. Molti degli scrittori decideranno di scrivere in arabo, come Kellas, altri di continuare a scrivere in francese. Come afferma Jolanda Guardi, per alcuni intellettuali algerini la “castrazione del senso”, causata dalla violenza “insensata” di quegli anni, è impossibile da narrare in arabo, mentre, per altri, l’arabo è l’unica lingua in grado di esprimerla (Cfr. Dire il dolore, in “Afriche & Orienti”, 4/2004 – 1/2005,). La questione della lingua torna cruciale; il francese, la lingua dell’oppressione coloniale, ma anche “bottino di guerra”, come l’aveva definita Kateb Yacine, adesso è lingua “proibita”, la lingua del tradimento per i movimenti terroristici di matrice islamica.
In La donna fatta a pezzi (in Nel cuore della notte algerina, Giunti, trad. C. M. Tresso e M. Rivalta) di Assia Djebar, nel 1994, Atika, una giovane insegnante di francese al liceo di Algeri, viene sgozzata davanti ai suoi alunni mentre narra alla sua classe proprio Una donna fatta a pezzi, una delle storie de Le mille e una notte. La professeur, come viene chiamata da uno dei terroristi che irrompono in aula, è colpevole di aver scelto “più lingue”, di voler essere “permeabile” a più lingue e più culture; la sua voce continua a raccontare, nonostante la sua testa sia stata tagliata.
«Sarò professoressa di francese. Ma vedrete, con allievi veramente bilingui, il francese mi servirà per andare e tornare: in tutti gli spazi e in diversi idiomi.»
La guerra civile durerà fino al 2002, straziando il popolo algerino, e “inseguendo” gli scrittori anche in esilio. Ad esempio, i romanzi di Amara Lakhous o di Amor Dekhis, scritti in italiano, e che sembrano non aver nulla a che fare con la storia algerina, come afferma Paola Rotolo nel suo lavoro di dottorato, nascondono, invece, l’indicibile “tra le pieghe della scrittura”: il trauma causato dalla violenza, ma anche quel senso di colpa verso chi è rimasto in patria. La nausea, l’angoscia, le ulcere che affliggono i vari personaggi, e anche la presenza nei romanzi di animali feroci, non sono altro che il riflesso di quel mostro creato e alimentato negli anni dalla violenza coloniale, dalla violenza di Stato e da quella del terrorismo.
Dal 1999 Abdelaziz Bouteflika, ex membro del FLN, è presidente dell’Algeria. Nonostante la fine della guerra civile, il Paese pare non aver trovato ancora una reale “liberazione”. Nel 2001 i grandi movimenti di piazza in Cabilia, altra grande questione irrisolta, sono stati repressi nel sangue, come quelli della “primavera araba” del 2011. A metà settembre di quest’anno, il presidente francese, Emmauel Macron, ha ammesso, per la prima volta, le torture da parte dell’esercito francese sul popolo algerino durante il periodo coloniale. E se ci sono voluti quasi duecento anni per questa ammissione, che ancora non può chiamarsi giustizia, ancora lungo è il percorso dell’Algeria verso una reale pacificazione e un governo democratico. La narrazione rimane, come al solito, il solo antidoto alla disumanizzazione, alla trappola della violenza e dell’unico. «L’ultima salvezza è nei libri che raccontano» (3), che raccontano le storie in più lingue.