Essere vegani non è né una moda, né una dieta. Essere vegani vuol dire, prima di tutto, abbracciare una filosofia.
Perché chi sceglie di essere vegano ha deciso di non mangiare più dei ‘qualcuno’ che la nostra società ha trasformato in dei «qualcosa» non solo per mettere fine a una barbarie, ma per salvaguardare l’architettura sociale, ambientale ed economica del nostro futuro.
Tuttavia, nonostante questo stile di vita abbia alle spalle centinaia di anni di riflessione sull’etica e l’ambientalismo, in molti oggi decidono di diventare vegani solo per nobilitarsi e sentirsi migliori degli altri. Ma per inseguire un vero cambiamento epocale è necessario un nuovo tipo di veganesimo,
filosoficamente orientato e più integrato nella società. Lontano dal fanatismo e dal controllo militaresco dei frigoriferi, e più tollerante nei confronti di chi non ha ancora fatto questa scelta.
Caro Leonardo Il tuo nuovo libro ha un titolo molto chiaro, semplice e diretto Vegan. Un manifesto filosofico. Leggendolo ci si rende subito conto che non è un libro solo per i vegani, ma un testo che vuole dialogare soprattutto con chi questa scelta non l’ha ancora fatta. Dai primi paragrafi fai capire ai lettori l’importanza del portato filosofico, scientifico e soprattutto etico del veganesimo. Cosa c’entrano filosofia e scienza con la scelta vegana?
Dici bene, per me vegan non è una categoria etica ma una strumentazione filosofica: cosa significa approcciare i comportamenti alla luce di un paradigma basato più sulla sottrazione che sulla aggiunta. In questo senso parto dai vegani “classici”, per così dire, ma per rivolgermi rapidamente a chiunque voglia capire cosa possa significare applicare un insegnamento come quello di Calvino nella Lezioni Americane al tema della leggerezza: togliere invece che continuare a lasciar tracce umane in ogni sfera dell’essere. Questa idea che sia necessario lasciar tracce è bella, ma sbagliata: è necessario scomparire, come nel buddismo. Traduco e mi spiego: vegan significa reinterpretare il futuro minimizzando il nostro impatto sulle cose del mondo (animali e loro dolore compreso, of course)
Essere vegan è importante non solo per gli animali ma per tutto il pianeta vegetali compresi. Nel libro ci parli di una battaglia comune, un cambiamento collettivo, orientato a un progetto di umanità futura, cosa intendi?
Di fatto Vegan è la parte divulgativa e pratica di un mio lavoro precedente più complesso, Fragile umanità (Einaudi, 2017), in cui spiego che la variazione sistematica dei comportamenti in atto di alcuni individui potrebbe essere la cifra stilistica ed espressiva di una nuova specie umanoide: quella postumana contemporanea. Non è fantascienza ma un esperimento mentale basato sul caso biologica della speciazione: i cambi alimentari, ma anche più in generale la non
violenza come attitudine primaria, potrebbero segnare non un salto etico ma antropologico per l’evoluzione della specie Homo Sapiens. La battaglia, dici bene, è comune perché o ci evolviamo tutti o muoviamo tutti, dati ecologici e proiezioni demografiche alla mano.
Ho trovato estremamente interessante parlare di come essere vegani non significhi solamente mangiare tofu e non vestirsi di pelle ma un vero e proprio sguardo diverso sul mondo. Essere vegani come critica all’antropocentrismo, essere vegani per ridare dignità di soggetti a entità (animali) che nella nostra società sono considerati oggetti. Che relazione c’è tra il tuo modo di pensare l’antispecismo, la critica all’antropocentrismo e capitalismo? Nel testo più volte critichi in modo radicale il sistema economico, poche le critiche alla tecnologia che pervade le nostre esistenze, anzi verrebbe da pensare leggendoti che sei abbastanza fiducioso nello sviluppo tecnologico futuro, ma come mettere in relazione pacificamente veganesimo, critica radicale al capitalismo e tecnologia?
Si, certo. Il mio approccio all’antispecismo, lo chiamo “debole”, è solo morale ma in Vegan traduco politicamente questa visione: essere fiducioso nel progresso tecnologico ed essere anticapitalista non è contraddittorio, pensa a certe frange dell’accelerazionismo o a filosofie speculative come la ooo (l’ontologia orientata agli oggetti); in realtà “vegan” racconta una dieta solo da una prospettiva limitata, mentre invece è una categoria politica che riguarda l’uomo, non gli animali o la natura, ma un umano simile a quello di cui parlando filosofi come Preciado, libero dalle categorie, utopico, deluzianamente indistinto. Una roba irrealizzabile, insomma, di quelle che però la filosofia deve usare per dare senso all’utopia: a cosa serve aumentare l’orizzonte degli eventi? A camminare nella giusta direzione.
Non posso non chiederti della parte propositiva e pragmatica del testo, dove proponi il veganesimo come un’idea “seria, potente e concreta” ce ne vuoi parlare?
Anche se nel dibattito tra Foucault e Chomsky io sono sempre stato con Foucault per qualche strana ragione biografica sono finito a laurearmi sul secondo, a cercare di capire la sua critica sul senso nefasto di una decostruzione senza proposta conseguente. Non possiamo fare, perché è da comodisti e irresponsabili, ciò che hanno fatto generazioni di anarchici, anticapitalisti, talvolta antispecisti, ovvero raccontare ciò che non va senza mai dire cosa dovremmo fare. Queste persone scrivono brutti libri, perché brutto è un mondo contro qualcosa e mai a favore di niente. Evidentemente la contingenza distrugge e sporca il mio progetto abolizionista e utopico, ma operare nel “piuttosto” come diceva Aristotele è essenziale: cosa possiamo fare, cosa sperare, cosa conoscere? Ci ricorda qualcosa, immagino, e così che le cose funzionano da Kant in avanti: il veganesimo impone pratiche quotidiane, economiche e politiche, a partire da oggi e in
assenza di possibilità radicali deve costringere anche a fare la cosa migliore che possiamo fare. Penso a un mondo sempre meno basato sulla sofferenza animale, più adeguato nelle relazioni ecologiche, attento alla distribuzione delle risorse alimentari: chi è troppo radicale per apprezzare tutto ciò è solo troppo scemo per capire come funziona la realtà.
Vorrei tornare alla cosa che forse mi interessa di più da antropologo che è la critica all’antropocentrismo, ovvero ricondurre a soggetti gli animali che ci circondano e toglierli da dove il capitalismo li ha rinchiusi, nel mondo degli oggetti. Come sai non tutte le culture umane hanno relegato gli animali in una sfera senza emozioni e sentimenti, le popolazioni indigene sparse per il pianeta che sono sopravvissute all’avanzata dell’Occidente anche se sicuramente non vegane hanno un rapporto intimo e personale con gli animali che cacciano e in generale hanno una grande conoscenza del mondo animale e vegetale che li circonda. Personalmente anche soltanto la morte del mio cane e la scelta di seppellirlo mi ha ricondotto a un rapporto più profondo con la morte animale. Cosa succederebbe se tutti anche in Occidente dovessero avere a che fare con la morte degli esseri-soggetti che mangiano quotidianamente? Come ci sentiremmo se fossimo noi gli esseri-oggetti allevati per essere divorati da una specie “superiore”?
In generale dovremmo avere un rinnovato rapporto con la morte, come dice il mio amico Davide Sisto nei suoi libri di filosofia. Capire che siamo esseri danzanti su cimiteri del passato, che il pianeta è un accumulo di macerie, che tutto ciò che vive, vive perché qualcuno è morto e morirà, in futuro, perché altro dovrà vivere. Dovremmo, dici bene, confrontarci quotidianamente con l’alterità mortale, animale e vegetale: e forse aveva ragione Deleuze che sosteneva che c’è più animalismo in un cacciatore che in un consumatore da supermercato, o in chi sente abbaiare il cane e si infastidisce invece che dire solo “che carino”. Eppure la morte dell’animale deve diventare vita, anche noi siamo allevati da una specie superiore: si chiama denaro. Quindi su questo punto mi tranquillizzerei, facciamo vite migliori degli animali ma fanno comunque abbastanza schifo. Se attraverso la caducità della vita altrui recuperassimo un senso di unità nel dolore, molto del progetto anti-antropocentrico andrebbe a completarsi. Detto di passaggio, c’è più verità morale in un indigeno che uccide la sua preda che in un vegano metropolitano in un bistrot di New York (ma è ancora troppo presto, e non siamo pronti per parlarne).
Ultima domanda, come pensi si possa attuare questa rivoluzione –processo-mutazione culturale vegana e sovversiva in un mondo dove Homo sapiens (animale tra altri animali) si è costruito culturalmente come superiore agli altri animali?
In nessun modo, verrà da sé. Il mare cederà, e così il cielo. La terra tremerà, le risorse mancheranno, il cibo scarseggerà: siamo già ecologici, siamo già postumani, siamo già vegani. Almeno se vogliamo continuare a utilizzare il presente, “siamo”, altrimenti possiamo dire “eravamo”: perché se continuiamo così, volente o nolente, non ci aspetta che il vuoto. Ma anche a quello, a proposito di sottrazione, non siamo ancora preparati.