Una notte lunga 12 anni

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19 Gennaio 2019

Estate 1973, Uruguay. Il piccolo paese cade negli artigli della dittatura di Bordaberry: per tre uomini è l’inizio di un viaggio all’inferno

UNA NOTTE LUNGA 12 ANNI, di Alvaro Brechner , con Antonio De La Torre, Alfonso Tort e Chico Darin. Candidato dall’Uruguay a miglior film straniero agli Oscar 2019. Nelle sale.

 

Vi prego, non perdete questo questo film, non perdetelo. Perché non è un semplicemente un intenso, intensissimo prison movie, ne’ un film su una terribile dittatura militare sudamericana di cui sappiamo poco.

No, il centro di gravità e la bellezza, la profonda emozione di questa pellicola indie che lascia letteralmente senza fiato, stanno in una frase di chi  l’ha girato. “Una notte lunga 12 anni”, ha detto infatti  Brechner, ci svela soprattutto quanto, nell’ora più buia, possiamo essere forti. Inaspettatamente.

Estate 1973, Uruguay. Il piccolo paese cade negli artigli della dittatura di Bordaberry. Tre guerriglieri Tupamaros, Jose’ Pepe Mujica, Mauricio Rosencroft ed Eleuterio Fernandez Huidibro, nomi di battaglia Pepe, Rosso e Gneto, vengono violentemente sequestrati ma non uccisi.

No, per loro e’ stata decisa una sorte anche peggiore: i tre diventano ostaggi, moriranno  se gli altri Tupamaros ancora liberi compieranno azioni contro il regime. Nel frattempo, per un periodo non quantificato,  sono trasferiti in punti diversi del paese senza che possano mai capire dove sono, rigorosamente separati l’uno dall’altro, senza alcun contatto con il mondo esterno, lettere, quaderni, giornali, radio e anche i militari a cui sono affidati hanno l’ordine di non parlare mai con loro.

In una parola, il governo  cerca deliberatamente di farli impazzire sprofondandoli in un silenzio e in un buio inumano, privandoli di ogni diritto e libertà del corpo, dell’anima e del cervello.

Il film inizia quando i prigionieri incappucciati  si ritrovano richiusi in tre silos esposti alle intemperie, in un luogo imprecisato. In un altro caso sono chiusi in anfratti di roccia. In un altro ancora l’unica fonte di luce viene oscurata per più di un anno. Sarebbe più’ umano fucilarli, esclama un medico militare che verrà in contatto con loro.

Eppure, proprio durante la discesa nell’inferno, scandita dal lento passaggio dei giorni che saranno più di 4mila, Pepe, Rosso e Gneto, ridotti all’osso, sporchi, trattati in un modo talmente feroce che non si può neppure immaginare, riescono improvvisamente  a comunicare attraverso le pareti, battendo le nocche delle dita, a capire che sono ancora vivi, si affezionano agli insetti, giocano persino a scacchi da un silos all’altro. Uno di loro, il poeta, otterrà della carta perché accetterà di aiutare un soldato che non sa scrivere lettere d’amore alla donna che vuole conquistare.

Pepe, invece, a serio rischio di paranoia, già preda di allucinazioni, grazie anche all’aiuto della madre che lo scuote violentemente, ricorderà di aver carpito un mucchio di informazioni sui secondini che li sorvegliano. e questo gli servirà sia dal punto di vista materiale che morale.

Insomma, per quanto la  crudeltà dei carnefici tolga il fiato lungo questo film. l’emozione ha la meglio, scena dopo scena, capiamo che i tre guerriglieri non impazziscono, come sarebbe stato naturale in condizioni così estreme,  ma anzi, ci dimostrano che le potenzialità umane non vanno mai sottovalutate.

E proprio quando tutto sembra perduto.  Certo, qui ci troviamo davanti a uomini di una caratura non comune, che poco prima di essere liberati, quando ormai saranno in carceri comuni con altri detenuti, si preoccupano di pulire per chi verrà dopo e augurano il meglio ai loro carcerieri. Ci troviamo davanti a chi diverrà il presidente dell’Uruguay, chi il ministro della Difesa e a chi un celebre scrittore e poeta conosciuto in tutto il Sudamerica.

Ma l’incredibile storia di questi tre rehenes, soprattutto, ci farà compiere un viaggio esperenziale nell’interiorità dell’essere umano,  che riesce a sconfiggere il Moloch con la sola forza della fantasia, dell’ironia, della capacità di mantenere la dignità. E  con la scoperta della comunicazione, con gli altri e con se stessi,  come necessità insopprimibile e primordiale.

Del resto, quando Brechner è andato dall’ex presidente  Mujica e gli ha detto che voleva fare un film per spiegare come avevano fatto a resistere in quelle condizioni, che il suo racconto avrebbe riguardato l’individuo e non solo il periodo storico della dittatura, il grande Pepe gli ha confessato che si sveglia spesso rimpiangendo il carcere e gli ha detto, scioccandolo: “Non ho mai più avuto tanto tempo per essere me stesso. Non sarei quello che sono se non avessi vissuto quei dodici anni”. Hasta la victoria siempre, companeros.

Una piccola grande annotazione: la colonna sonora. Ascoltatela con attenzione, punteggia e commenta ogni svolta del film. E quando sentirete partire la voce di Silvia Perez Cruz, magnifica cantante catalana, in un’incredibile versione di The Sound of Silence, capirete dove siete arrivati. .