Il generale

di

5 Febbraio 2019

Un errore giudiziario, un libro inchiesta di Lorenzo Tondo

Un aereo militare atterra all’aeroporto di Fiumicino, a Roma, la notte dell’8 giugno 2016.
A bordo, in manette, c’è quello che per gli inquirenti della procura di Palermo che guidano l’inchiesta Glauco è il più importante trafficante d’esseri umani.

Arrestato a Karthoum, in Sudan, grazie a un’operazione internazionale che ha coinvolto oltre alle autorità locali anche agenti dell’intelligence britannica, arriva Medhanie Yehdego Mered. O almeno dovrebbe essere lui, proprio lui, il famigerato ‘Generale’.

Il suo nome diventa un’ossessione per gli inquirenti italiani dopo il naufragio del 3 ottobre 2013. Un’altra Italia, un’altra Europa, vien da pensare.

Furono 368, tutte eritree, le vittime di quel naufragio avvenuto a mezzo miglio di costa dall’isola di Lampedusa. Il governo Letta e le autorità in omaggio alla sfilata di bare, l’istituzione di Mare Nostrum che ancora oggi rimane un esempio positivo di salvataggio di vite umane, l’istituzione del 3 ottobre come giornata nazionale delle vittime delle migrazioni.

Che già detto così, è terribilmente ipocrita. Perché la gente moriva prima del 3 ottobre e continua a morire dopo il 2013, perché – un po’ come è successo per il piccolo Aylan nel 2015 – le frontiere si allentano a seconda del cordoglio di turno, anche se non cambia nulla.

Quel viaggio l’aveva organizzato il clan di Medhanie Yehdego Mered. Lui e i suoi aguzzini diventano l’obiettivo di una grande inchiesta, la Glauco appunto, con una task force dedicata e sostenuta da altri stati europei.

Denaro, aspettative. Ed ecco che, dopo tre anni di ricerche, finalmente, Medhanie Yehdego Mered è nelle mani della giustizia italiana. Da esibire come un trofeo. Nulla può e deve rovinare questo trionfo.

Mentre è facile immaginare che vengano ignorate le solite voci dei disfattisti che sottolineano come i trafficanti vivono e si nutrono del racket che gli è permesso dall’assurda politica delle frontiere chiuse a qualsiasi tentativo legale di attraversarle (almeno per gli ultimi della terra), meno apprezzabile è l’autismo che la procura di Palermo mostra di fronte alle prime crepe.

Lorenzo Tondo, che lavora in Sicilia per il The Guardian, è uno dei primi a sollevare dubbi. Sostenuto da altri colleghi e, soprattutto, da alcuni superstiti del naufragio del 3 ottobre 2013. Ai quali, mentre Tondo insiste a volerci vedere chiaro, pian piano di aggiungono altri testi che in passato hanno incontrato il vero ‘Generale’ e che ne sconfessano subito l’identificazione.

Da quel momento inizia un’inchiesta ostinata di Lorenzo Tondo, che non molla, che si aliena qualsiasi supporto della procura di Palermo che, anzi, finisce per infilarlo nelle indagini, con un tono vagamente minaccioso.

Tondo viene intercettato, ma non molla. Sta dietro alla storia, ricostruisce i pezzi e le connessioni, fino ad arrivare a una certezza: la persona arrestata non è Medhanie Yehdego Mered, ma bensì Medhanie Berhe, arrestato a Karthoum, torturato dalla polizia sudanese, estradato per una mandato di cattura che non lo riguarda.

Un’inchiesta, quella di Tondo, che oggi è diventata un libro, Il Generale, edito da La nave di Teseo, che ricostruisce una vicenda kafkiana e non ancora finita, come non è finita l’odissea umana e giudiziaria di un innocente.

Mentre il The Guardian, fin dall’inizio, si fida del suo collaboratore e lo lascia lavorare, in Italia la vicenda sparisce dai media mainstream, e resiste solo nel lavoro di bravi colleghi.

Un libro che parla di tanti temi, dalla solitudine del giornalista che fa davvero il suo lavoro (dolore che spiega anche un largo utilizzo della prima persona da parte dell’autore), fino al suo coinvolgimento diretto nelle pressioni di una Procura che a un certo punto sembra solo interessata a non perdere la faccia.

Nella vita di  Medhanie Berhe si intrecciano caso e contesto. Alla fine, pur di non fare passi indietro, quando si dimostra che il vero Generale era agli arresti a Dubai mentre veniva catturato a Karthoum il suo omonimo, l’accusa cambia e si cerca – comunque – una condanna che appaghi.

Appaga chi ha investito in una tecnica di lotta agli scafisti che voleva essere come quella della lotta alla mafia, senza affrontare il vero problema, che sono le frontiere chiuse. Appaga chi, senza 3 ottobre che tenga, ha reso l’opinione pubblica avida di trofei.

Questa inchiesta, invece, ha fatto il suo lavoro. Non ha tenuto conto del contesto e delle pressioni, ma si è limitata a dire che il re è nudo. Ed è pure un’altra persona.