2 Aprile 2019
Intervista alla giornalista siro-americana Alia Malek, un libro che racconta la rivoluzione in Siria e la storia di una famiglia che ne ha attraversato gli eventi
Giornalista e avvocata, Alia Malek è nata negli Stati Uniti da genitori siriani. Dopo gli studi in legge presso alcune delle più importanti università degli Usa, ha lavorato nella difesa dei diritti civili, prima di conseguire un master in Giornalismo presso la Columbia University. Ha pubblicato per testate come Al Jazeera America, The New Yorker, The New York Times e The Nation. Nel 2016 ha vinto lo Hiett Prize.
Nel 2011, dopo l’insurrezione siriana, decide di tornare e di vivere a Damasco per raccontare le speranze e la lotta di una società, dove è rimasta fino al 2013. Il paese che era la nostra casa, edito adesso in Italia da Enrico Damiani Editore, è il libro che racconta quell’esperienza.
Cosa si aspettava di trovare tornando in Siria nel 2011, quanto le erano chiare le dinamiche del regime?
Per me quello che è successo a mia nonna è stata una metafora della Siria: io avevo 6 anni quando lei è stata colpita da un ictus che l’ha bloccata pur lasciandola cosciente: un’anima viva in un corpo inutile.
Per me questo rispecchiava esattamente la situazione siriana: un popolo vivo con del potenziale, ma congelato e paralizzato in una società che non sapeva come fornire al suo popolo l’opportunità e gli strumenti per riuscire ad esprimersi ed essere loro stessi. Io ho capito le dinamiche, meglio di chi stava guardando la situazione in Siria partendo solo dal 2011 e che ha erroneamente valutato la reazione della popolazione e le sue scelte usando come riferimento una società libera. Ma le dinamiche dovevano essere lette diversamente, altrimenti era impossibile dare un senso a quello che stava succedendo: chi non ha vissuto sotto un totalitarismo non può capire che un popolo che è sempre stato minacciato dallo stato non può reagire nello stesso modo di un popolo libero.
Quante volte si è sentita ripetere che in fondo al regime non c’erano alternative e che alla fine il regime garantiva stabilità? Quanto crede che sia ancora un retaggio di una visione colonialista l’approccio che blocca milioni di individui nel mondo arabo al dilemma dittatura o caos, dittatura o morte?
L’ho sentito ripetere spesso: dai siriani e non siriani, e soprattutto dal regime che doveva giustificare la sua presenza. In Medio Oriente, i governi dittatoriali hanno legittimato la propria esistenza davanti al mondo occidentale sostenendo che l’alternativa sarebbe stata il terrorismo, e così l’Occidente ha sopportato tanti crimini contro i diritti umani. E’ un punto di vista colonialista dire che la scelta è tra la dittatura e la morte: avrebbero potuto allearsi al popolo siriano e invece hanno scelto di essere alleati della stabilità.
Crede che essere a metà tra due mondi e due identità l’abbia aiutata nel racconto di quanto accadeva in Siria?
Certamente può essere, ma non è scontato che lo sia.
Cosa sente di replicare a tutti coloro che limitano la rivoluzione siriana a una cospirazione esterna contro Assad e il suo sistema di potere?
Pensare che i Siriani siano stati manipolati significherebbe attribuire loro un’incapacità di agire, scegliere e pensare. Sia che questa idea possa venire dalla sinistra o dalla destra. Non voglio ovviamente escludere che tutti gli altri paesi abbiano consapevolmente giocato un pessimo ruolo.
Quale può essere il modo migliore, se sarà mai possibile, di dare giustizia a tutte le vittime? Come potrà ristabilirsi un rapporto di fiducia tra una generazione che ha provato a prendersi il suo futuro e un mondo che è rimasto a guardare?
Dobbiamo ritenere responsabile regime e opposizione. C’è bisogno di giustizia, per tutte le vittime, quelle uccise o derubate della loro dignità, sia dalla parte del regime che dalla parte dell’opposizione. Non c’è mai stato un gran rapporto di fiducia tra mondo arabo e democrazia occidentale. C’era però fede in ideali comuni ai paesi occidentali, quali la libertà o i diritti umani.
Tra pochi anni si valuteranno, dopo un ventennio, i risultati della ‘guerra al terrorismo’ iniziata nel 2001. Che ne pensa?
La guerra al terrorismo viene dall’idea dell’American Exceptionalism, dall’idea che hanno gli Stati Uniti di avere un ruolo principale da giocare nel mondo, di avere la responsabilità di plasmare il mondo a propria immagine, un po’ come l’idea francese di una missione di civilizzazione. E – dall’altra parte – dall’idea che la sofferenza americana sia eccezionale e più importante rispetto alla sofferenza degli altri.
Il potere di Assad ha vinto, tecnicamente, sul piano militare. Ma cosa resta, nella società siriana, della rivoluzione?
Prima della rivoluzione sia i siriani sia i non siriani credevano che forse il figlio di Assad sarebbe stato diverso, che forse il regime sarebbe cambiato, invece poi tutto il modo ha visto la vera faccia del regime. Per ora hanno esaurito il popolo siriano, però è chiarissimo che adesso il regime non ha niente da offrire, come è chiaro che è rimasto non per la forza delle sue idee ma per il potere militare. Quando il popolo siriano sarà in grado di riorganizzarsi, sarà probabilmente molto più capace di gestire il suo futuro. Forse ingenuamente, ha creduto che i governi del mondo non avrebbero scelto un regime che ha perpetrato tutti i suoi crimini in maniera così esplicita, mentre prima agivano nell’ombra e quindi la comunità internazionale era legittimata a non chiedere, ma arrivati ad un certo punto l’evidenza non si poteva più negare.
Quanto, come giornalisti, abbiamo fallito nel raccontare questa rivoluzione?
Il problema è come viene praticato il giornalismo. L’idea che qualsiasi giornalista possa capire qualsiasi conflitto, raccontare e interpretare per tutti noi quello che sta succedendo, è a mio avviso sbagliato. Soprattutto con il Medio Oriente siamo stati abituati a delle spiegazioni su cosa stia avvenendo là con paradigmi molto semplici e superficiali, ogni tanto mi sembra venga trattato come fosse un altro pianeta. Quello che muove la storia e le società sono sempre le stesse dinamiche, ogni posto ha poi una sua specificità e un proprio contesto. Sul Medio Oriente viene meno un’analisi lucida, critica e obiettiva perché adombrata sempre da semplificazioni, come quelle religiose a quelle etniche.