Turchia, la strategia del sospetto

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11 Aprile 2019

Racconto di una giornata elettorale nel Kurdistan turco

Non mi sono mai sentita tanto insicura in un paese così armato. A dieci anni dalle ultime elezioni locali, sono tornata in Turchia in occasione della nuova tornata elettorale, nel frattempo il livello di militarizzazione è enormemente cresciuto: camionette della Polis dappertutto, posti di blocco, militari armati, ma in borghese, postazioni di osservazione.

Dopo il presunto colpo di stato del 15 luglio 2016, nella Turchia di Erdogan vige la regola del sospetto. Per presunti collegamenti con il terrorismo, infatti, da allora, oltre cinquemila membri dell’HDP (Partito della Democrazia dei Popoli, filocurdo) sono in carcere, insieme ad 8 ex deputati, 59 sindaci e molti amministratori e membri del partito.

L’HDP governava 102 comuni, quando è stata proclamata l’emergenza: 96 sono stati destituiti e sostituiti con kayyum, una sorta di commissari di nomina governativa.

Ma non sono solo stati colpiti gli ambiti di partito, ma anche la gente comune. Quello di Erdogan è un regime e l’obiettivo sembra essere quello di isolare il Kurdistan.

Lo ha confermato la candidata sindaco del piccolo, ma significativo comune di Eruh, paese di montagna – dove agisce la resistenza del PKK (Partito Curdo dei Lavorarori) – di circa 11mila abitanti, a quattro ore d’auto circa da Diyarbakir,
nell’Anatolia sudorientale.

“Negli ultimi due anni e mezzo – ci racconta Cecile Babaoglu accogliendoci in una
delle sale della sede del partito HDP, davanti ad un bicchierino di the che ci riscalda le ossa, data la pioggia torrenziale del giorno delle elezioni – 150mila persone sono state licenziate, oltre 2mila ong e 200 media sono stati banditi, e non solo curdi”.

Cecile indossa una elegante giacca verde brillante, un giusto tocco di colore in una giornata uggiosa, ha 42 anni, è sposata, ha due figli , è stata per anni tecnico anestesista in ospedale finché, un anno fa, è stata licenziata per motivi politici, così come il marito insegnante.

“Vogliono demolire le persone, iniziando con il togliere loro il lavoro – dice – ma le cose non possono andare avanti così, per questo ho scelto di candidarmi”. In lei sembra di sentire la fierezza, l’incrollabile determinazione, la passione del Movimento di Liberazione delle donne del Kurdistan.

Quando infatti le chiediamo se non teme ripercussioni per questa sua scesa in campo, lei ci risponde con decisione di no e che bisogna pensare al grande valore e alla resistenza delle donne che si sta diffondendo dal Rojava in tutto il Medio Oriente.

“Sconfiggeremo l’oscurità che ci viene imposta – ha aggiunto – la nostra rivoluzione è ormai una realtà”.

Ho subito pensato che in un comune piccolo, ex roccaforte del PKK, con una candidata così forte, sarebbe stata probabile un’affermazione dell’HDP. Mi sbagliavo. Ho iniziato a capirlo nel corso della giornata passata nelle vicinanze dei sei seggi allestiti nelle scuole, insieme ad uno dei volontari osservatori internazionali (il monitoraggio elettorale era organizzato da UIKI onlus – Ufficio di informazione del Kurdistan in Italia) giunto ad Eruh insieme a me.

Intanto era impossibile avvicinarsi più di tanto, anzi, era meglio non farsi
notare, vista la quantità di poliziotti e visto che già il giorno precedente, mentre si cercava di arrivare a Siirt, un posto di blocco ci aveva tenuti fermi mezz’ora bersagliandoci di domande.

Anche fare foto non era molto consigliato, tantomeno, è ovvio, dire di essere giornalisti o osservatori. Quello che non abbiamo potuto fare a meno di notare, però, è stato l’elevato numero di giovani uomini che si recava al voto:
persone che non avevano le caratteristiche degli uomini di quelle parti ed in numero troppo elevato.

Dopo aver notato alcuni pullman poco distanti dai seggi abbiamo fatto uno più uno: la fila di bus seguiti dalle camionette della polizia che avevamo visto il giorno precedente lungo la strada e di cui ci eravamo chiesti il significato, trasportava uomini delle forze armate in borghese portati in massa a votare nei diversi comuni
del distretto di Siirt, che Erdogan voleva cercare di fare suoi e dell’Akp.

E con la frode ce l’ha fatta. Il sogno di Cecile, perlomeno quello di diventare sindaca di Eruh, si è infranto, la vittoria è andata alla fine proprio all’Akp.
Ma tutto intorno, a partire da Siirt e Dijarbakir, i curdi si sono ripresi le loro città e là dove ha vinto Erdogan, in molti casi, lo ha fatto con sistemi antidemocratici.

Anche la sua Istanbul (oltre ad Ankara) gli ha voltato le spalle. Il regime del terrore non potrà durare a lungo, la perdita delle grandi città, il suo discorso
in compagnia della sola moglie dal famoso balcone del suo quartier generale, la dice lunga sulla solitudine in cui si trova.