di Manuel D'Antonio and Sara Savina
13 Maggio 2019
La leggenda dei mitici tagliatori di teste del Nagaland, nella terra di mezzo tra India e Myanmar
Il sole stava scomparendo dietro la cima della montagna, dando al cielo un colore rosa-arancio, quando un uomo in uniforme intimò alla nostra jeep di fermarsi.
Eravamo su quel mezzo da così tante ore da averne perso il conto, e un ennesimo posto di blocco sarebbe potuto essere un modo per sgranchirmi un po’ le gambe. Dopo tutto l’automobile aveva posto per 8 passeggeri, 9 a voler esagerare, ma qualsiasi legge, in India, è facilmente aggirabile, e lo stesso vale per quelle della fisica. Sulla nostra jeep c’erano infatti 10 persone più l’autista, per un totale di 11 passeggeri con rispettivi bagagli.
Le ore precedenti le avevo dunque passate con le natiche poggiate sopra metà di un sedile posteriore che aveva perso ogni parvenza di morbidezza, la manovella del finestrino conficcata nel quadricipite sinistro, e il resto degli arti incastrati in modi che non pensavo fossero possibili.
Eravamo tutti ormai così abituati a quella situazione da credere di essere nati con le braccia e le gambe piegate in quel modo. Ma il movimento del braccio del militare è stato un fulmine a ciel sereno, un risveglio della nostra libertà sopita, un promemoria a non perdere mai le speranze.
Ero inoltre sicuro che, senza ombra di dubbio, sarei stato il primo a ricevere delle domande. Ero in un posto così remoto che vede al massimo qualche centinaio di turisti all’anno, quasi tutti indiani. Un turista occidentale era per gli abitanti del Nagaland un evento da ricordare, e questo valeva anche per i militari del posto di blocco. E subito, come avevo previsto, uno di loro si avvicinò al mio finestrino e mi diede il permesso di scendere, facendomi inconsapevolmente riscoprire il piacere della circolazione sanguigna. Il controllo vero e proprio, come sempre, era più che altro una formalità, ed era durato non più di qualche manciata di secondi.
Ancora non lo sapevo ma sarebbe stato l’ultimo, almeno per qualche giorno. Erano ormai tre giorni che ci spostavamo lentamente da una città del Nagaland all’altra, controllo passaporti dopo controllo passaporti.
Questo piccolo stato del nordest dell’India, al confine col Myanmar, ha scelto di aprirsi al turismo solo da pochi mesi, e la zona rimane comunque molto sensibile. In un posto come questo, concetti che dovrebbero essere comuni in tutto il mondo, come il tempo e lo spazio, assumono un altro significato diventando completamente relativi. Per percorrere distanze di poche centinaia di chilometri occorrono giorni, e qualsiasi riferimento temporale va preso con le pinze. E anche se l’autista ripeteva a tutti di essere quasi arrivati al villaggio di Longwa, aspettavamo di vederlo con i nostri occhi prima di crederci.
Ma questa volta sembrava che l’autista avesse ragione, e pochi minuti e la creazione di un nuovo tetris umano dopo, la macchina si è rimessa in cammino per percorrere l’ultimo tratto di strada che ci separava dalla parte centrale del villaggio.
Sono bastati pochi metri per riconsiderare completamente l’accaduto dei minuti precedenti. Se infatti ero fino a quel momento convinto che i militari si fossero limitati a controllare le nostre identità, ora credevo che ci avessero invece trasportato in una realtà completamente diversa.
Fino ad allora avevamo incontrato poche automobili lungo il tragitto, ma da quel momento il nostro divenne l’unico veicolo a motore ad occuparla. Non significa però che la strada fosse deserta. Al contrario, era molto affollata di uomini e donne che la percorrevano prima di scomparire su sentieri che scendevano a valle o salivano in cima alla montagna.
Uomini e donne sembravano non mescolarsi, nel villaggio si viveva in modo molto tradizionale e i doveri degli uni e delle altre erano molto diversi. Se le donne portavano cesti di vimini pieni di legna sulle spalle, gli uomini erano armati con lunghi fucili da caccia o affilate lame rettangolari all’estremità di una canna di bambù.
I tratti dei loro volti ricordavano più abitanti del Sud America che dell’Asia, alcuni di loro portavano piume d’uccello sulla testa, quasi tutte le donne avevano una fascia colorata in testa per raccogliere i lunghi capelli neri. Il portamento degli uomini era piuttosto fiero, molti camminavano in solitaria, alcuni di essi avevano delle fasce colorate intorno alle caviglie, come a voler mostrare un qualche segno di riconoscimento. Alcuni di loro, i più anziani, avevano il volto tatuato.
Le case del villaggio erano quasi tutte fatte di bambù e ricoperte da uno spiovente tetto di paglia. Molte avevano teschi di animali come bufali, capre o montoni, accanto alla porta di ingresso. La struttura del villaggio sembrava non seguire alcuna regola.
Le case parevano essere costruite in verticale sul fianco della montagna, sui cui sentieri uomini, donne e bambini camminavano agilmente. Tutt’intorno animali da fattoria razzolavano in libertà e allegria. Non disturbavano nessuno, e nessuno li disturbava.
Quel luogo mi aveva immediatamente e completamente conquistato, ne ero estremamente affascinato. È bastato scendere dalla jeep e percorrere a bocca aperta la strada principale del villaggio per capire di essere arrivati in un posto di quelli unici, di quelli di cui se ne trovano purtroppo ancora pochi nel mondo.
Longwa è il villaggio principale dei Konyak, una delle sedici tribù che popolano il Nagaland. Essi vivono in una sessantina di villaggi lungo il confine tra l’India e il Myanmar, alcuni su un lato e il resto sull’altro.
Come tutto quello che lo caratterizza, anche il sistema su cui il villaggio si basa è piuttosto antico, anche se è quasi impossibile risalire ad una data di inizio. Usi, storie e tradizioni sono infatti tramandati oralmente, ed è inevitabile che qualcosa si perda nel cammino.
Longwa, così come gli altri villaggi dei Konyak, è governato da un vero e proprio capo villaggio che prende il titolo di Angh. Anche nel 2019, in una zona che è stata prevalentemente chiusa in se stessa per tutta la sua storia a causa di contrasti politici, i Konyak sembrano non curarsi di quello che accade intorno a loro.
Non si sentono né indiani né birmani, sono semplicemente Konyak, e hanno il proprio re, a cui ogni visitatore ha il dovere di presentarsi e porre i propri omaggi una volta raggiunto il villaggio. La loro idea di indipendenza e non appartenenza politica è resa ulteriormente chiara dal fatto che la casa dell’Angh è esattamente a metà tra India e Myanmar.
Il re ha una moglie in ognuno dei villaggi che governa, ma solo una è la regina, e sarà lei a dare alla luce il successore. I figli delle altre mogli saranno però a loro volta degli Angh, e governeranno sui Morung, i distretti in cui i villaggi sono suddivisi.
Le fasce colorate sulle caviglie degli uomini sono indossate solo dagli Angh. Ogni Morung è anche un dormitorio dove ogni Konyak di sesso maschile dormirà fino al raggiungimento dell’età adulta, per sviluppare il senso della vita comunitaria.
Ma per quanto tutto questo sia affascinante, c’è qualcos’altro che fa di Longwa un posto unico al mondo, che lo rende diverso da qualsiasi altro luogo. E questo qualcosa sono proprio quegli uomini anziani dal volto tatuato che avevo intravisto lungo la strada.
A vederlo al giorno d’oggi infatti Longwa sembra avere molti degli aspetti presenti in tutto il mondo, i ragazzi ascoltano musica sullo smartphone e hanno i capelli alla moda. Ma solo qualche decina di anni fa tutto era completamente diverso.
“Abbiamo saputo dell’esistenza degli aerei durante la Seconda Guerra Mondiale, quando alcuni di essi hanno sorvolato il villaggio per dirigersi verso la battaglia”. È una delle affermazioni più sconvolgenti che mi sia mai capitato di ascoltare.
Avevamo avuto la fortuna di essere accompagnati lì da un uomo in grado di tradurre dall’inglese al dialetto konyak, unica lingua conosciuta dai più anziani abitanti di Longwa.
L’anziano che parlava aveva il volto ed il petto completamente tatuati, e un grosso pezzo di bambù gli dilatava il lobo dell’orecchio sinistro. Era accovacciato a terra, e parlava a voce bassa e con gli occhi rivolti in un’altra direzione, come se non ci ritenesse degni del suo sguardo.
Era uno dei circa 30 ex tagliatori di teste dei Konyak, l’ultimo di loro a vestire in modo tradizionale. Indossava solo un lungo pezzo di stoffa sopra le parti intime, e per il resto era completamente nudo. Senza staccare gli occhi da terra, ci racconta che mentre nel mondo era in corso la più grande guerra della storia, e gli aerei di metallo solcavano i cieli del Nagaland, a Longwa si combatteva con le tribù vicine, in una guerra molto più piccola ma per i Konyak non meno importante.
I Konyak di Longwa sono un popolo di guerrieri, la cui dignità era, fino a qualche decennio fa, direttamente proporzionale al numero di teste nemiche che i combattenti riuscivano a riportare con sé dalla battaglia, per essere poi appese sull’uscio delle case.
Proprio nello stesso punto dove ora teschi di animali osservano dalle cavità del cranio tutti i visitatori che passano di lì. Alla prima testa tagliata corrispondeva il primo tatuaggio, eseguito in modo tradizionale in una cerimonia in cui era coinvolto tutto il villaggio. Il numero dei disegni sul corpo aumentava di pari passo con le vittorie in battaglia, e con le teste tagliate.
Non si può dunque provare una certa riverenza, ma allo stesso tempo un forte timore, a sedere in compagnia di un uomo quasi completamente coperto di tatuaggi. Il suo passato non è così lontano dopo tutto, e questo si comprende ancora di più osservando il corpo di quell’uomo, il tono in cui pronuncia le sue parole, che pur incomprensibili sono chiaramente quelle di un guerriero.
E quando ci racconta di come, anni prima, l’ultimo dei villaggi rimasti neutrali decise di allearsi a Longwa quando il loro emissario tornò a rapporto con le budella che penzolavano dal corpo, mostra quasi un pizzico di inquietante nostalgia.
E seppur così fieri, questi uomini sono ormai a malapena una trentina. Con l’abolizione della pratica di tagliare le teste sono venuti meno anche i tatuaggi, i corni nelle orecchie e le collane d’osso.
La maggior parte delle case è ancora costruita in modo tradizionale, con un punto fuoco per gli uomini e uno per le donne, entrambi rigorosamente sul pavimento e al di sotto di ripiani dove viene affumicata la carne. Ma allo stesso tempo sono spuntate molte case in cemento, con un’antenna parabolica e l’energia elettrica.
E se i konyak sono ancora tanti, si distinguono ormai a malapena dalle altre popolazioni asiatiche. E quando i trenta tagliatori di teste non ci saranno più, con essi verranno meno tutte le tradizioni, e Longwa diventerà forse un villaggio come tanti, portatore di un passato che esiste solamente nei musei.
Non saprò mai se l’essere lì e parlare con loro sia a sua volta una causa di questo cambiamento, o ne sia solamente un effetto, ma questo cambiamento è in atto ed inevitabile. E da un lato sarebbe anche molto presuntuoso pretendere di fermare il progresso per mantenere una tradizione che ci affascina.
Qualunque sia la risposta a questo dilemma, aver potuto camminare su quei sentieri, bere il tè con quelle persone, entrare nelle loro case e parlare con loro, è stato come percorrere le pagine di un libro di storia, o forse di una leggenda: la leggenda dei mitici tagliatori di teste del Nagaland.