5 Giugno 2019
In meno di una settimana, due enormi cortei femministi hanno attraversato il centro di Buenos Aires
Il 28 maggio la Campagna nazionale per l’aborto sicuro, legale e gratuito ha presentato al Congresso argentino (per l’ottava volta) il progetto di legge sulla legalizzazione dell’aborto.
Nel frattempo, una marea verde – il colore simbolo della battaglia per l’aborto legale – occupava tutta la piazza davanti alla sede delle due Camere, a Buenos Aires, scandendo slogan per l’autodeterminazione dei corpi.
Le migliaia di persone in presidio hanno cantato, ballato e urlato, fino a quando, ben oltre le otto di sera, dal palco montato per l’occasione una voce ha gridato Nos vemos!, Ci vediamo!
Ci vediamo, sì: perché questo entusiasmo non si ferma qui, ma pervade quotidianamente le strade, gli eventi, i dibattiti.
La legalizzazione dell’aborto è un tema costantemente all’ordine del giorno a Buenos Aires, grazie alla lotta che da anni viene portata avanti dalle donne argentine. Una lotta che attraversa tutte le generazioni, e questo la piazza lo mostra bene: donne di tutte le età alzano i panuelos verdi al cielo, indirizzati contro il palazzo dove il 9 agosto dell’anno scorso il Senato ha fermato il progetto di legge per la legalizzazione dell’aborto, confermando la normativa attualmente in vigore, che considera l’aborto un reato penale.
La donna che pratica un aborto in Argentina rischia fino a quattro anni di carcere, così come chi la aiuta. Esistono alcune eccezioni: è possibile interrompere una gravidanza conseguente a stupro, o nei casi in cui portarla avanti costituisca un rischio per la salute della donna.
Ma queste eccezioni, benché presenti, risultano spesso troppo legate alla discrezionalità: sono molti i medici che non hanno interrotto una gravidanza, nonostante si trovassero di fronte a casi di violenze sessuali o di gravidanze a rischio.
E anche nei casi di gravidanze di persone minorenni, costrette a partorire, come successo nella provincia di Tucuman, dove a una bambina di 11 anni, violentata dal compagno della nonna, è stato praticato un cesareo, senza prendere in considerazione l’aborto.
Non a caso, ninas, no madre, bambine, non madri, è uno degli slogan più scanditi in piazza. Non solo: la presenza di numerosi obiettori pregiudica il diritto di una donna ad abortire, qualora si trovi in uno dei due casi in cui l’interruzione di gravidanza non risulti punibile. E infine: questa legislazione taglia fuori tutte quelle donne che, per innumerevoli motivi, diversi da quelli previsti nell’impianto normativo, non desiderano portare a termine la gravidanza, lasciandole sole e impedendo loro di essere seguite.
Una situazione non più tollerabile come hanno urlato le donne argentine, convinte a non lasciare che “i dinosauri” – come vengono chiamati i senatori contrari alla depenalizzazione – decidano sulla vita di milioni di persone.
Tante le anime presenti in piazza, unite da questa battaglia. Tantissime le adolescenti, vere protagoniste di questa giornata. “Sono troppo piccola per lottare con un panuelo al polso, ma non per portare a termine una gravidanza?”, recitava il cartello portato da una dodicenne, ferma mentre un’amica le colora la guancia con tinta verde.
La lotta si mischia all’allegria di trovarsi, ancora una volta, così tante, tutte insieme. E quando verso sera tutte alzano i panuelos verdi contro il Congresso, molte giovanissime si arrampicano sulle recinzioni del palazzo, urlando e rivendicando il diritto di vivere in uno stato diverso, che tuteli le loro decisioni, e le loro vite.
Si respira la forza di una battaglia trasversale, dove l’unica divisione è quella economica: “Sopravvivere a un aborto è privilegio di classe”, recita il cartello portato da una ragazza. Si riferisce alle tante cliniche private che portano avanti interruzioni di gravidanze: luoghi dove si possono recare solo le donne di una certa estrazione sociale.
L’aborto infatti interessa tutte, anche chi non lo dice, come urla dal palco una donna transgnder, che porta la voce di quelli che in piazza vengono chiamati ‘corpi dissidenti’: “Tutti i corpi gestanti abortiscono. Solo che chi ha i soldi, lo fa in cliniche private, senza che ci sia alcun giudizio o violenza ospedaliera. Chi non li ha, deve ricorrere alla clandestinità, rischiando la vita. E’ ora che lo stato capisca che siamo di fronte a un tema di salute pubblica! Non possiamo morire di aborto!”.
“L’aborto legale, sicuro e gratuito è una domanda popolare e di massa”, afferma la Campagna nazionale per l’aborto, lanciata pubblicamente il 28 maggio del 2005, in occasione del Giorno internazionale di azione per la salute delle donne. Un movimento che oggi raccoglie l’adesione di oltre 300 gruppi tra organizzazioni, collettivi, sindacati, cooperative, e che si fa portavoce ufficiale del progetto di legge e della sua presentazione alle istituzioni.
“I movimenti di donne, lesbiche, travestite e transgender sono sempre più dinamici, protagonisti attivi della vita politica della società”, affermano dal palco le integranti della Campagna.
Un’affermazione che è tornata a palesarsi solo pochi giorni dopo, il 3 giugno, quando il verde si è mischiato al viola, il colore del movimento Ni Una Menos, che dal 3 giugno 2015 ogni anno si riversa nelle strade argentine contro la violenza machista. Una violenza che si esprime in diverse forme, come ribadito dalla piazza della quinta marcia del movimento femminista.
“Contro l’asfissia economica e la violenza machista, scendiamo nelle strade”: questo lo slogan che ha lanciato il corteo rabbioso, poderoso e determinato che ha sfilato da Congreso a Plaza de Mayo.
Tante le anime, unite dalla lotta: contro la violenza. In tutte le sue forme.
“Da quando siamo scese in piazza nel 2015, mancano 2417 compagne”, recita un cartello. Più di 2000 donne uccise in meno di 4 anni. Una ogni 18 ore, secondo i dati diffusi dal Correpi.
Una situazione che media e classe politica inquadrando nel campo della cronaca nera, e che al contrario Ni Una Menos sta denunciando da anni, prendendosi le strade e le piazze del paese, e sottolineando il forte legame tra violenza machista e capitalismo. “Libere, vive e senza debito!”, si legge sui cartelli. E’ una “diagnosi femminista” –usando le parole del movimento – quella che Ni Una Menos fornisce dell’attuale situazione dell’Argentina e, allargando lo sguardo, dell’intero sistema mondo.
“La violenza esplode nelle case, nei quartieri, sui nostri corpi. E’ la violenza economica, della disoccupazione che rende le persone sempre più vulnerabili. E’ la violenza della povertà, che sfratta le persone dalle case. E’ la violenza del potere, che vuole dettare legge sopra i nostri corpi dissidenti. E’ la violenza che obbliga le bambine a partorire, che impedisce l’aborto libero”, evidenzia Ni Una Menos, sottolineando come la crisi in cui versa il paese sia in realtà l’attacco sferrato dal modello neoliberista ad alcuni settori della popolazione: le donne, in particolare, le prime colpite dai licenziamenti, le prime su cui si riversa il lavoro di cura sempre più gravoso di fronte a tagli sociali sempre più massicci.
“L’inflazione ci obbliga a indebitarci per sopravvivere. In questa crisi ci sono dei settori che non si impoveriscono: sono la chiesa, che pretende di sottomettere la nostra libertà. Sono gli speculatori finanziari, che si alimentano della nostra disperazione”.
E’ contro questo sistema che Ni Una Menos scende di nuovo in piazza, “dove già abbiamo sperimentato la potenza di stare insieme”. Insieme nelle diversità: questa è la forza di questo movimento, e ieri lo si è visto. Lavoratrici dei trasporti pubblici, casalinghe, trans, donne indigene, afrodiscendenti, migranti, prostitute: tutte hanno sfilato insieme fino a Plaza de Mayo, dove si è chiusa la marcia.
“Siamo donne indigene, siamo femministe, e siamo qui per lottare contro la violenza del sistema patriarcale e delle sue istituzioni”: così dal palco in piazza la rappresentante del movimento delle donne indigene, sottolineando come l’oppressione dei popoli originari e l’avvelenamento e il depredamento della terra facciano parte del comune disegno neoliberale, funzionale ai grandi poteri economici.
Una voce a cui fa eco quella della rappresentante del movimento delle donne afrodiscendenti, che pone in luce il razzismo insito nella società capitalista, costruita sui corpi neri, violentati, sfruttati, e poi invisibilizzati.
“Basta travesticidi! Il sistema patriarcale legittima, con il suo silenzio, la violenza contro i corpi che non si inseriscono nei binari da lui tracciati. La violenza contro i corpi dissidenti assume molte forme: siamo escluse dal mondo del lavoro, dal dibattito politico, dal mondo mediatico. Siamo invisibili, così come le nostri morti. Ma siamo qui ancora una volta per urlare: Ni Una Trans Meno!”: così una rappresentante del movimento Trans e Travesti.
“Siamo qui come lavoratrici del sesso per dire basta alla violenza delle politiche neoliberiste di Macri e del suo governo, che precarizza la vita di tutto il popolo. Queste politiche si traducono in una maggiore repressione – afferma Georgina Orellano, rappresentante sindacale di AMMAR (Asociacion Mujeres Meretrices in Argentina) -, che per noi vuol dire spesso violenza e abusi. Rifiutiamo questo modello, e la violenza al suo servizio!”.
Dopo gli interventi dei distinti gruppi, il corteo si è chiuso con un panuelazo collettivo: tutti i panuelos verdi per l’aborto libero, sicuro e gratuito, sono stati sventolati all’unisono. “Sono ancora troppe le donne che muoiono per aborti clandestini”, affermano le integranti della
Campagna per l’aborto, mettendo l’accento anche sull’importanza dell’ESI, l’educazione sessuale integrale: piano di studio previsto nelle scuole, ma non supportato dallo stato. “E’ con l’educazione che si cambia la società: un’educazione paritaria, che rispetti tutti i corpi, che non imponga una visione egemonica. Al momento l’ESI, teoricamente prevista da una legge nazionale, viene garantita nella pratica solo da noi femministe”.
Il movimento femminista sceso nelle strade di Buenos Aires in questa settimana ha mostrato, ancora una volta, la forza costruttiva di una società diversa, libera dal disciplinamento machista, patriarcale, razzista e classista del capitalismo. “Non stiamo più in silenzio”, si grida dalla piazza. Un urlo che serve all’intera società.