di Federica Assini, Filippo Trojano and Dario De Biaggio
29 Giugno 2019
Intervista a Simone Amendola
Simone Amendola, cineasta e drammaturgo, scrittore, ha ricevuto diversi riconoscimenti per i suoi lavori, tra cui Premio Ilaria Alpi per il documentario narrativo, il Premio Solinas per la sceneggiatura, il Premio In-Box per la drammaturgia contemporanea. Tra i suoi lavori più conosciuti il doc ‘Alisya nel Paese delle meraviglie’ e lo spettacolo ‘L’uomo nel Diluvio’ che raccontano entrambi, da opposte angolazioni, di migrazioni.
Finalmente il lavoro di 20 anni diventa un volume, che cosa significa questo per te?
Teatro nel diluvio è finalmente carta. Carta mentre tutto attorno è virtuale. Carta che torna ad essere un valore sociale, come si racconta bene in un film francese passato quest’anno al Festival di Venezia (Double Vie). Il libro raccoglie testi scritti tra il 1998 ed il 2018. Nati in momenti diversissimi della vita, in fasi personali e artistiche anche completamente agli opposti.
Sono cinque lavori, di cui i più lontani nel tempo Eravamo e Porta Furba già pubblicati singolarmente, e i più recenti, L’uomo nel diluvio e Nessuno può tenere Baby in un angolo, portati in scena negli ultimi anni in un felice sodalizio artistico con l’attore Valerio Malorni (anche co-autore de L’uomo nel diluvio). Vedere tutti questi testi in un unico volume è chiaramente una cosa bellissima, è contemporaneamente un traguardo ed un trampolino. Potrei dire che è un’occasione in cui si fanno veramente i conti con il concetto di ‘realizzazione personale’: nel senso che mentre si concretizza il lavoro di anni, ci si rende anche un po’ conto di esserne l’autore. Di essere, senza averlo programmato, autore di un unico discorso con cui da oggi in poi si è esposti in maniera nuova al mondo.
Perché la scelta di questo titolo?
Il titolo mutua la parola diluvio dal lavoro che dei cinque è sicuramente più conosciuto, e che probabilmente è il più caratterizzante di questi nostri tempi. Teatro nel diluvio perché piove. E mentre piove noi non smettiamo di fare quello che per noi è importante, convinti che ‘non può piovere per sempre’.
È vero che ad un certo punto hai scelto il teatro, mettendo da parte il cinema? Se questo è accaduto, come è successo?
Il cinema in un certo momento ha messo me da parte e io ho risposto con una discreta botta di creatività. Ad un certo punto (attorno al 2012) è naufragata la produzione di un film di finzione a cui stavo lavorando da due anni, e nel frastuono della delusione e del senso di impotenza mi sono ritrovato con tanto tempo libero a disposizione. Poteva essere soltanto il tempo per leccarsi le ferite invece fortuna ha voluto che sia stato anche il tempo per scrivere e realizzare uno spettacolo (L’uomo nel diluvio) che – possiamo dirlo senza essere smentiti – ha segnato l’immaginario teatrale degli ultimi anni. A Roma sicuramente, ma anche in altri luoghi del paese avendo avuto una lunga tournèe che dal 2013 ancora non si arresta. Lo sprint del teatro mi ha poi permesso di riprendere in mano anche l’altro percorso: nel 2016 ho realizzato il documentario breve ‘Zaza, kurd’ che ha vinto il MigrArti ed è stato presentato a Venezia, ed ora sto lavorando a due progetti diversi di lungometraggi.
Cosa è per te scrivere oggi? Quando ha cominciato a prendere forma?
Scrivere è probabilmente la cosa in cui faccio meno fatica, che mi viene più facile. Che sia narrativa, teatro o cinema. Sono figlio di un poeta e la magia della parola in casa mia si è sempre respirata nell’aria. Questo non significa che per portare a termine i lavori non abbia dovuto combattere contro una certa inerzia personale e una certa reticenza del mondo esterno. Tutto ciò che sono riuscito a fare l’ho fatto con le mie forze, guardando al centro dalla periferia. Dalla Tuscolana, dalla Casilina, dalla Prenestina.
Per superare una certa rabbia, e la castrazione che ne deriva, in questi anni mi sono anche curato con un percorso di psicoterapia, e questo nel libro non solo è raccontato, ma è anche intellegibile tra le pagine. E’ evidente come dal primo monologo Eravamo (scritto a vent’anni) al recente Piccoli pregi, si sia trasformata non solo la scrittura ma anche la disponibilità all’accoglienza. C’è meno io e più noi, sicuramente.
In un modo anche dichiarato inserisci spesso esperienze personali nei tuoi testi senza cadere nel “caro diario”. Oggi è una cosa rara, cosa ci vuole per riuscire a farlo?
Non so, pesco dal personale per raccontare le storie che trovo là fuori, per questo forse non è mai ‘caro diario’. Che sia un benzinaio, un migrante, un tossico o un attore… un personaggio per me è sempre riconducibile anche alle mie esperienze personali. E’ solo un uomo. Uno che come me avrebbe potuto fare di più, fare meglio, essere più fortunato, più ricco, stare meno male, essere più alto, più grasso, meno solo, meno stronzo, più innamorato, più amato…
E poi declino le storie in percorsi che per me sono narrativamente avvincenti, mai in situazioni descrittive. In Piccoli pregi, dove faccio nomi e cognomi di familiari e amici (a cui tra l’altro ho poi chiesto il permesso di rendere pubblico il testo), ad esempio siamo in una sorta di western di periferia tra me ed un arabo (aspirante attentatore) in un vagone della Metro C. E nel racconto l’autobiografia è venuta spontanea, è la sostanza della tensione: la mia vera vita è a rischio.
Una volta hai detto che un attore che interpreta un personaggio non deve esprimere credibilità ma verità, ci spieghi che cosa intendi?
Se ne dicono tante… chissà cosa volevo dire?! Probabilmente intendevo che la credibilità è data per scontata, cioè senza di quella non sta in piedi nessuna interpretazione, mentre la verità è una chimera… e la verità per me è l’unico fine dell’arte. Un artista deve sempre provare ad essere più libero e deve sempre cercare la verità. E’ tutto fin troppo ingessato là fuori per non remargli contro, sempre.
Sembra proprio che in Italia non si riesca ad uscire dal neorealismo. In più oggi sembra esserci una “cattiveria” di fondo a togliere ogni speranza. L’unica alternativa sembra essere un’ imitazione patinata di Fellini che offre solo una grande bruttezza. Cosa ne pensi?
E’ complicato fare un’analisi raffinata, si rischia di generalizzare, perché spesso siamo spettatori solo di una piccolissima parte della produzione artistica. In sostanza vediamo quello che le distribuzioni un anno o due prima hanno deciso che vedremo. Quindi ci si riferisce a film che sono usciti in sala, che sono arrivati al grande pubblico, ma per forza di cose si escludono i tanti lavori che non abbiamo visto. Quello che è certo è che nuove forme di racconto (penso a The Square o a Un affare di famiglia, le ultime due palme d’oro) in questo momento nel mainstream non si vedono tanto in Italia.
Ci sono dei registi di grande talento e degli ottimi film, ma sono pochi i film che a me hanno fatto veramente male, che mi hanno aperto un nuovo spazio mentale con cui guardare il mondo e l’uomo. Forse i film sul web e le serie hanno una complicità. La professionalità è in continua crescita, ma spesso a discapito della poesia, di un tempo più complesso nelle narrazioni. Nelle serie si vedono storie costruite con grande intelligenza, ma molte a mio avviso sono solo apparentemente anti-conformiste, e questo lo penso della stragrande maggioranza delle produzioni americane.
Come è il tuo rapporto con il pubblico? Ci racconti di un commento significativo dopo una rappresentazione?
I commenti che mi fanno un piacere immenso sono di due tipi diversissimi: quelli di chi vede in un mio lavoro un parallelo con un’altra opera che ho amato ma a cui non ho pensato, e quelli di chi dice di aver visto una cosa assolutamente nuova.
Quali sono i tuoi registi teatrali e cinematografici preferiti?
Impossibile rispondere. Del teatro soprattutto amo gli scrittori, Genet, Pirandello, Eduardo. In questi e in altri autori ho scoperto la potenza della drammaturgia, la possibilità di costruire nuovi sistemi di valori nel breve spazio di una storia.
Il cinema è invece dei registi, loro possono indagare l’animo umano. Fare dei nomi significa escludere nomi ancora più grandi. Herzog, Scola, Antonioni, De Palma, Petri. A vent’anni mi ha toccato il cuore Wong Kar Way con Hong Kong Express, oggi per me l’autore più completo in circolazione è Paul Thomas Anderson. Mi sembra l’unico che non ha mai smesso di crescere. Lo seguo dal primo film, il suo cinema è di una meravigliosa complessità. Il suo ultimo film ‘Il filo nascosto’ a tratti mi ha fatto pensare a Kubrick.
Sappiamo del tuo amore per il cinema del messicano Reygadas, ce ne parli?
Reygadas gioca ad un altro sport. Consiglio a tutti di recuperare Nuestro tiempo passato in concorso quest’anno al Festival di Venezia. Quattro ore di arte, bisogna andare a recuperare Guernica di Picasso per provare a raccontarlo. Sregolato, sgrammaticato, umano.
Ora raccontaci qualcosa del tuo rapporto con Valerio Malorni, com è scegliere di lavorare sempre con un unico attore? Questa vostra collaborazione fa pensare a quelle tra grandi attori e registi come Mastroianni e Fellini, Kinski ed Herzog, J. P. Leaud e Truffaut, tra queste quali potrebbero avere lasciato un segno nella tua ricerca?
Quella con Valerio è una collaborazione nata sulla stima reciproca e proseguita su una naturale complementarità. Fare le cose insieme è molto semplice. Ci si intende al volo. Abbiamo storie molto diverse, lui è di Roma Nord io di Roma Sud, lui è della Lazio io della Roma, lui è biondo… ma funzioniamo. Valerio non è solo un attore, come io non sono solo un autore. Lui ha una grande sensibilità narrativa e io sento molto le linee della recitazione. Riusciamo a dialogare su tutti gli aspetti di uno spettacolo. Il nome della compagnia (Amendola/Malorni) è atipico perché non si riferisce a una coppia di attori o di autori, ma è perfettamente a fuoco perché allude ad una visione convergente dell’arte, del teatro, della vita, dello stare al mondo.
Nel cinema è vero i binomi sono stati tanti e importanti, la riflessione che posso fare è forse nel percorso inverso. Posso provare a comprendere loro partendo dalla naturalezza con cui io e Valerio andiamo avanti nella nostra collaborazione. Se Herzog non fosse stato Herzog il mito di Klaus Kinski come lo viviamo forse non esisterebbe… Se Mastroianni non fosse stato Mastroianni forse Fellini non sarebbe stato così libero di essere Fellini.
Molto importante nella tua vita è anche la dimensione didattica, cosa significano per te i laboratori di periferia, andare nelle scuole e stare a contatto con i ragazzi?
Tutto nasce dalla collaborazione con la Cooperativa Parsec attorno al 2006. Mi hanno portato in contesti borderline che da subito devono aver fatto risuonare in me le esperienze della mia adolescenza a Porta Furba. Ho scoperto un grande interesse per certe realtà ed una mia capacità di accorciare agevolmente le distanze. Da uno di quei progetti è nato il mio documentario più fortunato Alisya nel paese delle meraviglie (di cui Olivia Martirano scrisse proprio sul primo numero di Scomodo) e poi altre avventure, anche nella scrittura.
Oggi con Floriana Pinto e la nostra associazione, Blue Desk, di progetti di questo tipo ne facciamo moltissimi, a Centocelle (dove vivo) ma anche in altre periferie della città, e proprio nell’ultimo anno sono tornato a lavorare con Parsec alla realizzazione di un corto con 5 ragazzi in affidamento dal tribunale minorile.
Sono adolescenti con situazioni molto molto complesse… non puoi metterti in testa di cambiargli la vita, ma già iniziare e finire un lavoro e farli fidare di qualcuno ti sembra un traguardo importante. E poi chi altro potrebbe dirti una cosa del tipo: – ‘Il problema non è stata la galera, il problema è quando me so’ innamorato’.
Simone Amendola fa un teatro scomodo? C’è differenza tra portare uno spettacolo in un teatro rinomato e un teatro invece di provincia o un centro sociale?
Simone Amendola prova a fare quello che gli passa per il cuore e per la testa. A volte quel qualcosa coincide con il momento della società, a volte meno, a volte per niente. A volte può essere comodo, a volte scomodo. A tutto ciò c’è arrivato non uscendo la sera quando aveva solo i soldi per l’affitto e non pagando l’affitto quando non aveva nemmeno quelli.
Dai 20 ai 25 anni ho scritto molto per il teatro, poi dopo i 25 anni mi sono rifugiato nei documentari e nella scrittura per il cinema perché ne ero attratto, ma anche perché volevo fare qualcosa che restasse. Soffrivo da morire che di repliche bellissime non ne rimanesse traccia, che le risate e le commozioni di una sera fossero difficili da raccontare. Avevo bisogno di avere le prove che esistevo e il supporto fisico in cui viveva un’opera filmica mi rassicurava.
Poi è tutto cambiato, il web ha mescolato le carte, iscrivi i film ai festival mandando un link, hai i materiali girati su hard disk che rischiano di non funzionare più… e soprattutto qualsiasi cosa tu faccia è google a deciderne l’importanza.
Oggi sono felice che i miei testi siano stampati e che possano essere fisicamente ‘condivisi’, perché sono convinto che siano godibilissimi come testi ancor prima che come materia per gli spettacoli… ma oggi accetto anche che l’emozione di una replica permanga solo nel cuore di quello spettatore, di quella platea, del Teatro India, di quel buco di provincia, di quel centro sociale…