Afghanistan senza pace e senza giustizia

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2 Ottobre 2019

I civili, oltre a essere l’obiettivo di questa guerra infinita, si trovano sotto attacco in particolare nel tentativo di difendere i diritti umani

L’Afghanistan è un paese ai margini dei diritti umani. Michel Forst, Relatore Speciale per le Nazioni Unite sulla situazione dei difensori dei diritti umani, nel suo report annuale 2018 dice chiaramente che il contesto di insicurezza e instabilità del paese ha un enorme impatto sull’operatività e la libertà d’azione di attiviste e attivisti, costantemente sotto minaccia e oggetto di continui attacchi, intimidazioni e violenze sia da parte di attori non statali – talebani, Daesh, Al-Qaeda, signori della guerra e gruppi conservatori; sia da parte di attori statali e forze governative.

Di diritti umani in Afghanistan si muore. Nessuna categoria si salva: l’Afghan Journalists Safety Committee – AJSC parla di 89 casi di intimidazioni o violenze (di cui 11 omicidi) contro giornalisti e stampa nei primi sei mesi del 2018; l’International Center for No Profit Law – ICNPL ha registrato nel 2015 la chiusura di almeno 113 ong o associazioni locali che sono sottoposte a ferree regole di rendicontazione del Ministero dell’Economia, ancora in vigore. Per non parlare degli attentati che spesso hanno avuto di mira il lavoro e il personale umanitario colpendo aree di Kabul (Green Zone) e delle provincie dove risiedono e lavorano.

E quello che colpisce più amaramente è che il Governo sostenuto dalla nostra comunità internazionale, stando alle dichiarazioni di Amnesty International , non solo non ha mai intrapreso misure a protezione di attivisti e attiviste a rischio, spesso sminuiti e accusati di aver inventato storie, ma è a sua volta responsabile di intimidazioni e attacchi. Come quelli messi in atto dalle forze di polizia locali nel nome della sicurezza durante manifestazioni pubbliche e di piazza contro corruzione e ingiustizia sociale.

Le donne, già vittime di patriarcato e fondamentalismo religioso, rappresentano la categoria più a rischio: subiscono stigmatizzazioni sociali, umiliazioni, abusi e violenze all’insegna di una radicata impunità perché le denunce, quando presenti, non vengono prese in considerazione e non sono prese in carico. Lo sanno bene le attiviste con cui siamo in contatto con continuità da quasi venti anni: Bilquis Roshan, senatrice della provincia di Farah, Malalai Joya, attivista indipendente ed ex parlamentare, Selay Ghaffar, portavoce del partito laico di Hambastaghì, Weeda Ahmad, fondatrice dell’Associazione sociale degli afgani che cercano giustizia (Social Association of Afghan Justice Seekers – SAAJS). Tutte conducono vite difficili, all’insegna del sacrificio e si dicono consapevoli di dover “fare per sé” e autotutelarsi.

“Nessuno nel paese ha preso sul serio le trattative di pace con i talebani che non sono un gruppo
monolitico come un tempo, ma divisi per bande: tra queste c’è ci tratta con gli USA, chi con i russi, chi con gli iraniani, chi con il Pakistan, chi con la Cina. Non sono un caso le visite dei barbuti a Mosca, Teheran e Pechino subito dopo il dietrofront di Trump” sostiene l’attivista ed ex parlamentare Malalai Joya, ancora costretta alla clandestinità. E continua, instancabilmente “I colloqui potrebbero portare a nuove guerre civili sull’altare e il prezzo più alto sarebbe pagato dalle donne i cui diritti sarebbero di nuovo oggetto di baratto nel corso del dialogo intra-afghano che dovrebbe seguire in via ipotetica all’accordo bilaterale USA con gli studenti coranici”.

Lungi dall’essere stato un processo condotto “dagli afghani e per gli afghani” il dialogo promosso e sostenuto anche dalla comunità internazionale è diventato sempre più opaco con il tempo fino a trasformarsi in due accordi distinti, quasi svincolati l’uno dall’altro: il primo, blindatissimo e riservato, tra talebani e Usa, il secondo tra talebani e forze sociopolitiche afghane ipotetico e subordinato al buon esito del primo.

E la guerra nei mesi del negoziato è stata feroce: tutti gli attori in gioco hanno infatti utilizzato la pressione militare per rafforzare la propria posizione. A confermare il trend di violenza, i risultati dell’inchiesta condotta dalla BBC che designa lo scorso agosto come il mese peggiore con una media di 74 morti al giorno a causa degli attentati. Nel 2018 l’ONU ha registrato un record di civili uccisi in Afghanistan: oltre 10mila persone, il bilancio annuale più pesante dal 2009. E le responsabilità, come si legge dal rapporto annuale della Missione di assistenza dell’Onu nel Paese UNAMA, non sono imputabili solo ad attacchi e attentati suicidi da parte di gruppi armati tra cui i talebani e lo stato islamico, ma anche all’aumento delle incursioni aeree della coalizione a guida USA.

Il costo umanitario del conflitto a partire dal 2001 è stato altissimo, le vittime sono oltre 140mila persone, tra cui almeno 26mila civili. Un dato drammatico che per essere colto nella sua interezza va necessariamente accostato a quello non meno significativo della spesa di partecipazione alle missioni militari a guida NATO. Il costo ufficiale della missione militare italiana in Afghanistan è stimato pari a oltre 7,8 miliardi in 16 anni, a fronte di 280 milioni investiti in iniziative di cooperazione civile, la più costosa campagna nella storia del nostro paese (fonte MIL€X – Osservatorio sulle Spese Militari Italiane).

“A Kabul, prima dei quarant’anni di guerre che l’hanno attraversata, abitavano un milione e mezzo di persone, ora gli abitanti sono sette milioni. Scappano dai combattimenti che non cessano in ogni provincia del paese, cercano qualcosa da fare per sfamare la famiglia, un riparo” racconta un’attivista dell’Associazione Rivoluzionaria delle donne afghane – Rawa all’ultima delegazione organizzata dal Coordinamento italiano a sostegno delle donne in Afghanistan – CISDA in occasione dell’8 marzo.

Migliaia di civili hanno perso la vita, molti altri sono stati costretti ad abbandonare il proprio paese. Gli afghani rappresentano una delle popolazioni in fuga più numerosa al mondo -al momento i rifugiati afghani sono più di 2,6 milioni. Ciononostante, il 2 ottobre del 2016 è stato siglato il Joint Forward on Migration, l’accordo tra l’Unione Europea e le autorità di Kabul per il rimpatrio di circa 80mila richiedenti asilo basato sull’assunto che l’Afghanistan è ormai un Paese fuori pericolo, quindi in grado di gestire i propri migranti.

Ancora una volta, e a spese dei più fragili, l’Europa esternalizza la questione di migranti e richiedenti asilo.

“Tra bombe, rapimenti e persecuzioni la vita in Afghanistan è piena di pericoli, ed è crudele e immorale mandare lì delle persone” ha affermato Charmain Mohamed, Head of Refugee and Migrant Rights di Amnesty International.

Il Jwfm è stato la prima occasione dall’introduzione della Convenzione di Ginevra in cui l’Ue ha optato per il rimpatrio forzato di migranti con una nazione in guerra in aperta violazione del principio detto di non refoulement (non respingimento) secondo cui a un rifugiato non può essere impedito l’ingresso sul territorio né può esso essere deportato, espulso o trasferito verso territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate.

Per effetto della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, tra l’altro, il divieto di refoulement si applica indipendentemente dal fatto che la persona sia stata riconosciuta rifugiata; dunque, in sostanza, è un divieto di qualsiasi forma di allontanamento forzato verso un paese non
sicuro.

Dopo Somalia, Sud Sudan e Siria, l’Afghanistan detiene il quarto posto per corruzione nella classifica mondiale stilata da Transparency International.

La giustizia è il tassello mancante, il minimo comune denominatore che alimenta e tiene insieme attivisti e attiviste per i diritti umani. Il nodo mai affrontato per costruire basi solide al processo di ricostruzione promosso dalla comunità internazionale. In ballo, con la sospensione dei negoziati, la possibilità che il Tribunale Internazionale dell’Aja riveda il suo diniego e deliberi di avviare le indagini per i gravi crimini nel paese della guerra infinita.