Soufra, storia di donne, zaatar e libertà

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8 Ottobre 2019

Nel campo profughi palestinese di Borj el Barajneh, Maryam guida un gruppo di giovani cuoche verso l’emancipazione e la libertà.

Che sapore ha la speranza? Che colore hanno i sogni? Che profumo ha la libertà di perseguire ciò in cui si crede?

Mariam vive a Borj el Barajneh, il campo profughi palestinese più affollato di Beirut. Cinquantamila persone in meno di un chilometro quadrato, uno spazio ristrettissimo ormai inglobato dall’urbanizzazione sfrenata e sregolata della capitale libanese, che riflette anch’essa la divisione in comunità religiose del paese. A nord-ovest, il ricco quartiere sunnita di Hamra, a nord-est, il borghese e cristianissimo Ashrafiye. A sud, i sobborghi lasciati a loro stessi, il quartier generale di Hezbollah, i campi profughi palestinesi, rifugio di profughi siriani ed esuli del mondo.

Nonostante l’urbanizzazione della città tutt’intorno, la popolazione di Borj el Barajneh vive in un mondo a parte, separata e segregata nel tempo e nello spazio.
La telecamera a mano nei vicoli del campo non lascia spazio all’immaginazione: scheletri di palazzi incompleti e ammassati gli uni sugli altri, grovigli di fili elettrici, luce naturale che a malapena filtra, pozzanghere e un morso allo stomaco che accompagna gli spettatori durante tutto il documentario.

Eppure, la vita brulica a Borj el Barajneh. Si cucina su un fornello elettrico, si aspetta che torni l’elettricità, si nasce, si vive, si cresce come tutti gli altri, certo con meno possibilità e più difficoltà, ma con eguale, se non rafforzata, speranza.

In questo universo di umanità, da un gruppo di donne della comunità di Maryam nasce un’idea: realizzare una società di catering di cibo tradizionale palestinese. Un modo tutto sommato semplice per provare a migliorare la propria condizione facendo qualcosa che piace fare, cucinare. Le inquadrature sono un susseguirsi di pizzette di zaatar, involtini di foglie di cavolo, torte e insalate, pentoloni che vengono gentilmente ma decisamente rovesciati e piatti accuratamente decorati. Donne che sorridono mentre, indaffarate, preparano sacchetti e porzioni. Sembra bellissimo, e soprattutto facile.

Quando Maryam e la sua compagnia, “Soufra” (‘tavola imbandita’, in arabo), vincono un finanziamento – frutto di un crowdfunding dai quattro angoli del mondo – per comprare un ‘food truck’, un camper allestito con cucina, e poter vendere le loro prelibatezze in giro per la città, la felicità sembra dietro l’angolo.
Una ad una, le ragazze si raccontano davanti alla telecamera. C’è chi ha sempre avuto il sogno di diventare una chef, chi cerca un modo per emanciparsi e poter contribuire al sostentamento della famiglia, chi vuole poter abbellire la casa e comprare vestiti nuovi ai propri figli, e chi, come Maryam, si è sempre sentita responsabile di tutto quel che le succedeva intorno. “La guerra mi ha insegnato a vivere. A capire quali sono le cose importanti”, racconta. E poi, un food truck è ancora un’idea originale, a Beirut. Maryam passa in rassegna cataloghi, consulta designers, sbircia furgoni per le strade. Si prende cura delle ragazze, assegna ruoli e controlla che il cibo sia buono e bello.

Eppure, basta vivere dal lato sbagliato della strada, del mondo, perché tutto, anche un’idea semplice come un catering, sia dannatamente complicato, se non impossibile.

I palestinesi in Libano sono cittadini di serie C. Pur essendo presenti nel paese da ormai settant’anni, cioè dai tempi della Nakba, ed avendo ormai raggiunto il numero di circa 475,000 (UNRWA, 2019) sono completamente e intenzionalmente esclusi dalla vita sociale del paese, per timore, secondo il governo libanese, di stravolgere il precario equilibrio confessionale che tiene alla bell’e meglio unito il paese. Ai palestinesi è precluso l’esercizio di infiniti diritti sociali, economici, civili. Non possono professare più di 39 professioni – riservate per legge solo ai libanesi – né possono ottenere facilmente permessi di lavoro, e possedere proprietà private, come le case diroccate in cui vivono confinati da decenni, e neppure possono ristrutturarle. Di certo, in un campo profughi non è possibile registrare una società.

“I palestinesi in Libano non hanno un piano B. Il loro piano B è continuare a ripetere il piano A, finché non si realizza. Non si possono permettere di darsi per vinti, perché altrimenti non riuscirebbero ad ottenere nulla”, racconta Ayman Bouz, legale di Soufra.

Nascere e vivere nella discriminazione diventa una dimensione esistenziale, a Borj el Barajneh. Anche quando Soufra raggiunge i banchi del famoso “Souq el Tayeb”, il mercato biologico più chic di Beirut downtown, o i tavoli di “Tawlet”, ristorante ‘bene’ di Mar Mikhael che fa della cucina ‘tradizionale’ il suo manifesto, non ci si scorda da dove si viene. “E’ stato bello essere stati accolte come persone normali”, è il primo pensiero di Ghada.

Ma se arrendersi non è un opzione, ci vuole tanta, tanta pazienza a portare avanti un sogno a Borj el Barajneh. Ci si scontra con una burocrazia il cui problema non è tanto Soufra, quanto un intero, ipocrita sistema che non consente ai palestinesi e alle palestinesi di vivere la normalità.
Chi è Maryam allora? Un’eroina o una donna normale, convinta delle sue idee e capacità? E cosa rappresenta Soufra per tutte loro? Una realizzazione personale o una dimostrazione alla comunità tutta che inseguire i sogni non è solo possibile ma anche necessario?

In una Beirut dai colori pastello e dai quartieri curati, che nasconde il prezzo sociale del suo benessere per pochi, la storia di Soufra e della cura con cui è preparato ogni fagottino di zaatar è la storia di chi crede che un sistema ingiusto vada combattuto finché la realtà, e forse un giorno la storia, le darà ragione.

Il documentario sarà proiettato Venerdì 11 ottobre 2019 al Cinema Odeon, Via Mascarella, 3, Bologna, nell’ambito del Terra di Tutti Festival, del quale Q Code Mag è media partner