Pixel sgranati. Documentare l’asilo in Irlanda

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5 Novembre 2019

Un’intervista di Paola Rivetti all’artista irlandese Vukašin Nedeljković

 

intervista tratta da il lavoro culturale

 

Vukašin Nedeljković è un artista irlandese originario di Belgrado, ex-Yugoslavia. Arrivato in Irlanda nel 2007, ha fatto domanda di asilo politico ed è stato inserito nel direct provision system, ovvero il sistema di ricezione richiedenti asilo in vigore nell’isola dal 1999.

Pensato come misura emergenziale, Direct Provision (DP) prevede la sistemazione di famiglie e individui in centri localizzati in aree isolate, dove spesso non possono cucinare o ricevere visite. I richiedenti asilo vivono per anni – anche più di dieci – in questi centri in attesa dei documenti; non hanno accesso al sistema scolastico, al mercato del lavoro, alle misure di sostegno al reddito.
I centri di ricezione sono gestiti da imprese private e da multinazionali che ne traggono un grande profitto. Ai richiedenti asilo viene corrisposta la cifra di 38 euro e 80 centesimi alla settimana.

Entrato nel sistema, Vukašin Nedeljković ha cominciato a documentare le condizioni di vita nei centri. Oggi considerato uno dei più importanti artisti sulla scena irlandese, ha recentemente raccolto e pubblicato il suo lavoro nel libro Asylum Archive (2018).

Nedeljković ha inoltre preso parte a diverse mostre collettive e personali in Irlanda e all’estero. È un membro di MASI, the Movement of Asylum Seekers in Ireland che lotta per la fine del sistema di DP e contro la brutalità dei confini europei.

Da dove arriva l’impulso a documentare il sistema di Direct Provision (DP)?

Mi sono laureato in Fotografia a Belgrado nel 2003. Nel 2007 sono arrivato in Irlanda e ho fatto domanda di asilo. Sono quindi entrato nel sistema di DP. DP è un’esperienza orribile e molto difficile. Sei precario. Ti fanno vivere in uno stato di esclusione sociale e povertà estrema. Allora ricevevamo 19 euro e 10 centesimi alla settimana. Avevo portato con me una piccola macchina fotografica Olympus da Belgrado. Ho cominciato a scattare foto della mia stanza e della mensa. All’inizio, fotografavo anche le persone. Poi, continuando a vivere in Irlanda, ho sentito parlare delle Magdalene Laundries, delle Industrial School, delle case Mother and Baby: erano tutti sistemi carcerari. Ho cominciato a cercare delle immagini di quei posti ma ne ho trovate pochissime. Allora mi sono detto: “aspetta un attimo; sono testimone di un altro sistema carcercario, e lo voglio documentare: così nessuno potrà dire che non sapeva come le persone che cercavano protezione erano trattate”. All’inizio era un progetto individuale. Nel 2009 ho avuto i miei documenti e mi sono iscritto a un Master dell’Istituto di Arte, Design e Tecnologia di Dun Laoghaire: tutto è cambiato. Avevo un tutor molto bravo, che mi ha incoraggiato a sviluppare il progetto che  diventato Asylum Archive. Ora è un progetto collettivo, che include tutte le persone che hanno avuto esperienze traumatiche di violenza o rimozione. Chi ha vissuto in DP contribuisce al progetto. Si tratta del nostro archivio, non del mio.

Hibernian Hotel, Abbeyleix, 2017. Credit: Asylum Archive

Perché “archivio” e non “progetto”, “collezione” o “documentazione”?

Mi rifaccio a Stuart Hall. Durante la mia vita in DP, ho cambiato quattro diversi centri: Kilmacud House a Dublino, New Ross nella contea di Wexford, Ballyhaunis nella contea di Mayo, e poi Ballaghaderreen nella contea di Roscommon. Ero “mobile”, nel senso che potevo essere mosso senza il mio consenso, ero altamente precario.
Stuart Hall pensa all’archivio come qualcosa di instabile, in costruzione e in movimento. Questa definizione catturava bene la mia condizione di vita di allora e il mio lavoro; e cattura anche il mio futuro: io lavorerò a questo archivio per il resto della mia vita, quindi sarà sempre in costruzione.
Ci sono voluti 10-12 anni per documentare tutti i centri di ricezione, senza fondi e senza una macchina. Ma l’archivio esiste: raccoglie tutte le foto in un solo posto. È democratico perché è anche disponibile online.

Il tuo lavoro, di fatto, produce storia. Asylum Archive documenta una storia che altrimenti non esisterebbe.  

Recentemente, a una conferenza, Mary McAuliffe rifletteva sul come gli archivi ufficiali non sempre siano corretti o raccontino una “storia vera”. Per esempio, sul sito della Reception and Integration Agency, che amministra i centri di ricezione, ci sono delle foto dei centri: sono foto di bei posti, puliti, spaziosi. Le mie fotografie ritraggono posti brutti e sporchi. Io volevo creare un archivio di materiale che fosse accurato. McAuliffe ha anche sottolineato come Asylum Archive documenti il sistema di DP senza estetizzarlo o romanticizzarlo: è come sembra. Helen O’Donoghue, a capo del dipartimento di educazione del Museo di Arte Moderna irlandese, ha notato come il mio focus sulle pareti esterne delle strutture di ricezione lasci chi guarda le mie foto libero di immaginare gli abusi che avvengono all’interno.

Lough Muckno, Castleblayney, 2017. Credit: Asylum Archive

Una delle caratteristiche delle tue fotografie è che non ci sono umani ma solo oggetti nello spazio. Per quale ragione?

Perché sono stato una persona vulnerabile nel sistema di DP. Quando stavo a Ballyhaunis, ho avuto la possibilità di digitalizzare le mie fotografie e iniziare un nuovo progetto. Ho prodotto una nuova storia su mia madre, che è venuta a mancare mentre io ero in DP. Non ho quindi potuto partecipare al suo funerale, non avendo i documenti per viaggiare.
Questo progetto era sostenuto dall’Istituto di Tecnologia e da FOMAX, un’agenzia per lo sviluppo delle arti. Quando si è trattato di esporre il mio lavoro, ho scoperto che avevano cambiato la mia storia per farla diventare quella del “povero” rifugiato. Avevano “aggiustato” il mio lavoro per farlo rientrare in un canone narrativo preciso. Mi avevano derubato della volontà politica di resistere e combattere contro il sistema di DP: era impossibile solidarizzare con me, perché in quella storia ero stato ridotto a un individuo da compatire.
Eppure, quello che io vedevo al centro di Ballyhaunis era un’altra realtà: la gente aveva una volontà di ferro. La domenica si faceva festa e ci si vestiva a festa, quello che si può fare con 19 euro a settimana. Era un centro di resistenza e di resilienza.
Quella storia non era la mia storia. Cosa potevo fare? L’essere vulnerabile è insopportabile. Un giorno mi sentivo coraggioso e mi dicevo che avrei denunciato chi aveva cambiato la mia storia e lo avrei fatto sull’Irish Times. Il giorno dopo tremavo al pensiero delle possibili conseguenze che denunciare delle istituzioni irlandesi avrebbe potuto avere sulla mia richiesta di asilo. Non potevo essere deportato, dovevo restare qui.
Le storie dei migranti sono sfruttate. Devono rappresentare sofferenza, morte, cadaveri. A me, invece, interessa altro: le tracce, i fantasmi, i resti che lasciano le persone che passano nei centri di ricezione o che vengono deportate. Questo ha un costo in termini di “successo” del mio lavoro, proprio perché chi cura le mostre vuole vedere i corpi sofferenti dei migranti.

Pezzo di fucile giocattolo, trovato a Magee Barracks, Kildare, 2013. Credit: Asylum Archive

Come è stato accolto il tuo lavoro in Irlanda nel corso degli anni?

Ho condotto una residenza artistica presso i Fire Station Studios a Dublino. Gli studios ospitano degli artisti meravigliosi, quindi c’era un certo via-vai di curatori d’arte. La curatrice del Project Art Centre di Dublino era interessata al mio lavoro. Sapeva che in passato avevo utilizzato del materiale audio: erano stralci di interviste a persone che vivevano in DP come me. Aveva visto quel lavoro nel 2008, quando sono stato premiato al Claremorris Open, mostra curata da Lizzie Carey-Thomas, la ex-curarice del Tate di Londra.
Ma il problema era che ogni volta che intendevo riproporre quel lavoro dovevo chiedere il permesso alle persone intervistate, che nel frattempo avevano lasciato il centro e che non erano più rintracciabili. La curatrice voleva che riproponessi quel materiale audio ugualmente. Lo avrei fatto, senza il permesso degli intervistati? No. La curatrice era delusa, e cominciò a lamentarsi del fatto che le fotografie erano di bassa qualità perché non usavo una macchina abbastanza buona. Io non capivo come si potesse parlare di pixel di fronte alla storia di persone che avevano rischiato tutto per cercare un po’ di protezione in Irlanda, dove non l’avevano trovata. La loro insicurezza si rifletteva, in qualche modo, nella precarietà del mio lavoro, in quei pixel sgranati.
A volte è difficile stare ad ascoltare certe richieste. Ma il mio lavoro deve andare avanti perché voglio raccontare la storia del sistema di DP. In questo credo di essere un attivista, più che un artista. Abbiamo capacità di scelta, volontà politica e racconteremo noi la nostra storia. Invece di portare avanti il nome di questa o quella ONG, combatteremo le nostre battaglie.

Come si svolge il tuo lavoro, quali sono le sfide e le difficoltà che incontri?

Nel passato ho ricevuto dei fondi, ma tendenzialmente mi baso sui miei fondi personali, che sono limitati. Vuol dire che devo trovare fonti di reddito alternative ed essere aiutato da amici e compagni. Il mio amico Hamid, per esempio, che viveva con me in DP, si è offerto di accompagnarmi con la macchina a documentare i centri fuori Dublino, facendomi quindi risparmiare sui trasporti.
Quando ho ricevuto fondi, li ho usati per pubblicare il mio libro. Ci sarà una seconda edizione, perché ho intenzione di includere le emergency accommodation che si stanno diffondendo in alternativa ai centri di DP. Le emergency accommodation sono hotel e B&B, quindi meno visibili; il governo vi alloggia non solo richiedenti asilo ma anche famiglie irlandesi in difficoltà o senza abitazione. Sono la risposta del governo alle proteste anti-centri di DP e agli attacchi incendiari contro i centri di DP in diverse parti di Irlanda. Sono luoghi segreti, in pratica, dove le persone vivono in condizioni di sovraffollamento, segregazione, precarietà assoluta – quando c’è la stagione turistica le famiglie vengono spostate perché gli hotel hanno bisogno delle stanze – e persino malnutrizione.
L’Hotel East End di Portarlington ha una capacità di 12 persone, ma oggi ce ne sono 40. Per ogni persona, i proprietari dell’hotel ricevono 100 euro a notte. Si tratta di un buon profitto, spesso aumentato dal risparmio sul cibo. A Navan Road, qui a Dublino, le persone sono letteralmente affamate.
Dobbiamo chiudere i centri di DP e le emergency accommodation, e lavorare sul creare le condizioni affinché le persone possano esprimere i loro talenti. Ci sarà sempre una emergency accommodation che il governo aprirà senza che io lo scopra; ma il mio compito è più ampio ed è quello di raccontare questa storia, documentarla perché non si possa dire che non si sapeva.