Haiti, tra rivolta e rivoluzione

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6 Novembre 2019

Un movimento che, da rappresentante della società civile, sta precipitando nella violenza, è chiamato a un passo decisivo

Haiti, due mesi di Peyi lock, come si dice in Creolo lingua dalle mille immagini, il paese bloccato, paralizzato. La capitale Port-au-Prince è teatro quasi quotidianamente di manifestazioni organizzate e spontanee, a volte pacifiche, ma che possono degenerare velocemente in atti di violenza cruda, saccheggi e distruzione.

Uscire di casa non è semplice, specialmente per chi abita nei quartieri dove non c’è tregua da settimane. Alcune scuole aprono nei giorni in cui non sono previste manifestazioni ufficiali, ma nel terrore che professori e studenti vengano minacciati, altre sembrano averci rinunciato. Gli esercizi commerciali alzano le saracinesche a singhiozzo, alcuni hanno murato le finestre per proteggersi dal lancio delle bottiglie molotov.

Code infinite circondano i distributori di carburante e di metano, introvabili per lunghi periodi. Colpi d’arma da fuoco vengono esplosi ogni notte senza soluzione di continuità, accompagnano il sonno. Le strade principali che collegano la capitale ai dipartimenti sono costellate dalle barricate, quasi sempre in fiamme, a volte invalicabili, spesso controllate da bande armate che approfittano della situazione di anarchia per derubare gli automobilisti e i passeggeri dei mezzi pubblici, o per svaligiare i camion che trasportano merci e materiali.

Nelle provincie i beni di prima necessità iniziano ad essere rari, troppo cari per la popolazione locale. L’approvvigionamento di carburante è stato completamente sospeso nei mesi passati ed è ora in balia del mercato nero. Le banche quando aprono razionano il contante che inizia a scarseggiare.

Queste sono le conseguenze dell’ultima ondata di proteste, la cui istanza sono le dimissioni del presidente Jovenel Moïse in carica dal 2017 dopo travagliate elezioni, dove meno del 20% della popolazione ha votato anche a causa di intimidazioni e minacce.

La situazione di crisi è diventata cronica in settembre, ma il suo inizio è datato luglio 2018, quando il presidente aveva annunciato il taglio delle sovvenzioni pubbliche al carburante, come richiesto dall’FMI per poter patteggiare 96 milioni di dollari di aiuti e prestiti a basso interesse.

Questo avrebbe determinato un aumento del 50% del prezzo del carburante, colpendo al cuore uno dei pochi settori dell’economia haitiana che, se pur in gran parte informale, funziona e dal quale dipendono la maggior parte delle attività di sostentamento delle persone. In seguito a una rivolta di massa della popolazione Jovenel Moïse ha ritirato il provvedimento. Proprio il carburante resta però il fil rouge della crisi, che si è ampliata a seguito dall’esplosione di un enorme scandalo di corruzione legato alla gestione dei fondi Petrocaribe.

L’affaire Petrocaraibe deve il suo nome ad un fondo promosso e lanciato nel 2005 da Hugo Chavez per risollevare le economie più deboli dei paesi dei Caraibi. Il Venezuela vendeva a 17 paesi prodotti petroliferi a prezzi vantaggiosi in cambio dell’impegno dei governi beneficiari ad utilizzare il risparmio ottenuto, il 60% di quanto acquistato, in opere ed infrastrutture pubbliche, concedendo una sorta di prestito per lo sviluppo, da restituire al Venezuela in 25 anni ad un tasso d’interesse dell’1%. Dal 2008 Haiti ha così ricevuto 4 miliardi di dollari, gestiti nell’ombra da quattro diverse presidenze.

Ad agosto 2018 il regista haitiano Gilbert Mirambeau ha pubblicato sulla sua pagina Twitter una fotografia che lo ritrae bendato mentre brandisce un cartello con la frase destinata a diventare il mantra delle proteste: #KòtKòbPetroCaribea, che fine hanno fatto i petrodollari?

Questa è la genesi del movimento dei Petrochallengers, composto soprattutto da giovani, studenti ed esponenti della diaspora che, in un paese dove il confine tra potere esecutivo e giudiziario è permeabile e lo stato di diritto non è pienamente assicurato, era apparso ai diversi osservatori come una felice novità: espressione di una nuova borghesia lontana dagli interessi delle grandi famiglie del settore privato che con la loro influenza economica controllano il paese.

Un fresco impegno civile, coraggioso attivismo che aveva trovato slancio e coesione dando voce all’indignazione popolare e chiedendo democraticamente giustizia e trasparenza. Ma già durante il secondo sollevamento popolare, a novembre 2018, questo movimento apartitico è stato soverchiato dalla violenza, dall’opportunismo di alcuni partiti di opposizione che ne hanno sfruttato le rivendicazioni per trarre beneficio dall’instabilità politica.

Diversi personaggi di questa sfera sono infatti sospettati di armare e pagare gang di banditi per mobilitare ed istigare le masse dei quartieri popolari perché sfoghino tutta la loro rabbia, incanalando il dissenso contro il governo in carica.

Questa è la genesi del peyi lock, ma picchi di violenza si sono ripetuti a febbraio, giugno e da settembre fino ad oggi. Le cause scatenanti più immediate sono due. Da una parte la pubblicazione a gennaio e a maggio dei rapporti di un’indagine della Corte dei Conti haitiana, realizzata proprio in seguito alle richieste dei Petrochallegers, che ha evidenziato le responsabilità di diversi politici ed imprese nella questione Petrocaraibe, compresi Jovenel Moïse e il suo predecessore alla presidenza Michel Martelly, nelle mani dei quali il 75% dei fondi venezuelani si sarebbero volatilizzati tra clientelismo, appalti truccati ed opere infrastrutturali incompiute.

Dall’altra parte c’è il costante impoverimento della popolazione sulla quale incidono i blocchi ad intermittenza della distribuzione del carburante e l’aumento del suo costo dovuto alla chiusura del programma sussidiato da Caracas, che ha obbligato Haiti ad accedere al libero mercato per l’acquisto dei prodotti petroliferi, senza avere le possibilità economiche per calmierarne il prezzo.

A oggi la richiesta di dimissioni del presidente proviene a gran voce da tutti i settori della società civile. A scendere in strada non sono più solo i sostenitori dell’opposizione, ora anche gli artisti, la Chiesa cattolica, i poliziotti, i professionisti della sanità.

Ma non è che la punta dell’iceberg: dietro questa rivendicazione soffoca uno dei paesi più corrotti e diseguali del mondo, dove 6 dei suoi 11 milioni di abitanti vive con meno di 2 dollari Usa al giorno. L’inflazione è cresciuta del 20% solo ad agosto, il gourde, la moneta locale, ha perso un terzo del suo valore nell’ultimo anno. L’insicurezza alimentare è cronica, mancano servizi pubblici e infrastrutture di base, l’accesso ad acqua ed elettricità sta diventano un lusso. Il sistema giudiziario si sta dissolvendo lasciando l’impunità dominare nel disordine. La sicurezza è minata da un’ottantina di bande armate (76 per l’esattezza secondo le informazioni fornite dalla Commissione nazionale del disarmo, dello smantellamento e della reintegrazione -CNDDR) che controllano intere zone del territorio.

L’ordine pubblico, che non può più contare sull’appoggio della (criticata) missione Onu di peacekeeping MIUSTAH (poi MINUJUSTH) da poco conclusa, è affidato a 20mila poliziotti malpagati recentemente messi sotto accusa da Amnesty per uso eccessivo della forza contro i manifestanti.

Diversi hotel, ristoranti e aziende chiudono o lasciano a casa i propri dipendenti, il settore del turismo è completamente bruciato. I posti di lavoro del fragile sistema formale vengono progressivamente decimati.

Certo i costi della rivolta sono alti, e sono e saranno sempre i più poveri a pagare le conseguenze: sale a 42 il conto delle morti negli scontri da settembre ad oggi, 19 delle quali sono vittime dirette della polizia, ciò che è distrutto difficilmente verrà ricostruito. In una sorta di circolo vizioso, la mancanza di prospettive e l’impoverimento generalizzato creano nuova miseria, disperazione, instabilità, ed alimentano la paura e la rabbia.

Ma in un paese intriso di violenza strutturale come Haiti è difficile immaginare un’altra forma di espressione: chi urla non ha niente da perdere e non conosce un altro linguaggio, chi dovrebbe ascoltare è sordo. Il presidente si è rivolto alla nazione con sporadici messaggi televisivi preregistrati che non contengono risposte ma solo un tassativo rifiuto di dimettersi, la comunità internazionale con in testa le Nazioni Unite, l’OEA e il CORE GROUP non sembra prendere posizione in questa vicenda haitiana, forse spaventata dall’alternativa di un’opposizione politica che ai loro occhi appare frammentata, poco affidabile e radicale.

La questione è se la rivolta potrà erigersi a rivoluzione, se dietro al prezzo che Haiti sta pagando ci sono un sogno, una speranza, un piano, una logica, che porteranno giustizia e vero cambiamento, oppure se sangue e distruzione non saranno altro che la cornice di una manovra gattopardiana di chi in fondo è già parte del sistema contro cui si sta lottando.

*le opinioni di questo articolo sono espresse a titolo personale

foto di Hector Retamal/AFP/Getty Images