di Laura Filios
25 Novembre 2019
Intervista a José Ricardo Basílio, membro Mst della Direzione statale del Cearà
In un paese – il Brasile – dove non è mai stata varata una vera e propria riforma agraria, dove si stima che l’1% dei proprietari terrieri possieda circa la metà dei terreni agricoli, mentre il 70% della produzione per il consumo interno proviene da agricoltori familiari, il ruolo del Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra (Mst) è sempre stato centrale.
L’Mst, dal 1984, occupa aziende agricole abbandonate e latifondi improduttivi per garantire ai piccoli produttori una sussistenza minima. Attivo ormai da più di 35 anni, oggi è presente in 24 stati federali e rappresenta circa 400mila famiglie di contadini.
José Ricardo Basílio, membro Mst della Direzione statale del Cearà spiega come le politiche neoliberiste del presidente Jair Bolsonaro stiano cercando di asfissiare le lotte del Movimento e la loro strategia per resistere durante questa «congiuntura storica estremamente negativa».
«Dopo il golpe illegittimo – per il Movimento di questo si tratta quando si parla della destituzione dell’ex presidente Dilma Rousseff – il Brasile si sta aprendo a un’economia che rispetta sempre meno i beni della Natura: flora, fauna, risorse minerarie. In questo momento le multinazionali sono in una posizione di forza e hanno un potenziale di crescita maggiore rispetto a quello che potevano avere con il governo precedente. La politica ha preso un altro corso e sta remando contro a tutto ciò che è stato fatto negli ultimi anni».
Joao Pedro Stedile, leader Mst, già nel 2013 parlava del patto tra capitale finanziario e “fazendeiros”, i grandi proprietari terrieri. All’epoca alla guida del Brasile c’era ancora Dilma, succeduta a Lula da due anni. Che differenza c’è tra il governo Bolsonaro e i suoi predecessori del Partito dei Lavoratori (Pt)?
Non neghiamo che il processo di trasformazione dell’agricoltura in agribusiness fosse già in atto. La differenza è che adesso ha subìto un’accelerazione ed è portato avanti da un governo che è estremamente conservatore, razzista, antidemocratico, antipopolare, contro i diritti umani. Se è vero che nel 2013 l’alleanza tra latifondo e finanza esisteva già e che i governi precedenti avevano fatto accordi che consegnavano parte dei beni naturali del Brasile alle multinazioni – e il Movimento si è sempre dichiarato contrario – è altrettanto vero che ora Bolsonaro è completamente asservito al capitale internazionale e in particolare agli Stati Uniti. I latifondisti continuano ad essere i nostri nemici ma il rinsaldamento dell’alleanza tra finanza, “fazendeiros” e, ora, anche potere giudiziario accresce di molto la loro forza. Il favore e il sostegno del governo non fa altro che portare all’estremo le conseguenze negative.
Ad esempio?
In parlamento ci sono 513 deputati. Di questi l’80% rappresenta gli interessi dell’agribusiness. È impensabile che riescano a produrre una legge che sia a favore dei piccoli agricoltori e del popolo in generale. Nel 2019, ad esempio, è partita la liberalizzazione degli agrotossici. Tra gennaio e ottobre sono state approvate più di 350 tipologie di sostanze chimiche che possono essere utilizzate in agricoltura. Il 45% di queste nel resto del mondo è vietato. Quindi il Brasile accetta che le multinazionali che si occupano, non solo di chimica, ma anche di produzione di sementi e di cibo possano utilizzare questi veleni. Il Brasile è il più grande consumatore al mondo di agrotossici, ne usa circa il 20% del totale. A livello statistico i brasiliani, in un anno, assumono circa 9 litri di sostanze velenose pro capite.
Se da un lato Bolsonaro si barrica dietro a una visione ultra nazionalista, dall’altro offre alle multinazionali le risorse del Brasile su un piatto d’argento? Come fa a stare in piedi il discorso del presidente?
Quello di Bolsonaro è un governo totalmente asservito agli Stati Uniti e alle multinazionali. Non c’è nessun nazionalismo, perché non tutela minimamente gli interessi del popolo brasiliano, specialmente dei contadini. Mette solo le ragioni dello sviluppo davanti a tutto e a tutti. Questa è la differenza rispetto al processo avviato dai precedenti governi rappresentativi prima del golpe. Negli ultimi 20 anni erano stati fatti grandi passi avanti in termini di politiche pubbliche a sostegno dei piccoli produttori e degli indigeni. Ora sono state tutte bloccate se non addirittura cancellate. Penso all’ultimo piano Safra (programma di credito per l’agricoltura): fino all’anno scorso venivano prodotti due piani, uno per l’agricoltura estensiva e l’altro per l’agricoltura familiare. Quest’anno ne è stato rilasciato solo uno, come se per lo stato esistesse solo l’agrobusiness. In più tutte le politiche pubbliche su cui il Movimento faceva affidamento sono completamente bloccate. Un’operazione che mira all’esclusione attraverso il mancato riconoscimento.
La sensazione è che vi stiano togliendo l’ossigeno. Ci sono attività che siete stati costretti a sacrificare?
No, per fortuna non stiamo mettendo nulla in secondo piano, anzi stiamo cercando di potenziare il nostro intervento laddove siamo già presenti, mantenendo in vita tutte le nostre attività nonostante questo governo non ci lasci nessuno spazio di negoziazione né comunicazione.
Se questa è la strategia di Bolsonaro, qual è la vostra?
La nostra è quella della resistenza attiva. La lotta per la terra in Brasile è un atto estremamente rivoluzionario e come tale ha tante sfaccettature. È qualcosa che non può essere del tutto contrastata o resa invisibile dallo stato. È un discorso purtroppo ancora estremamente attuale visto che si sta parlando di un paese dove l’1% dei proprietari terrieri possiede più del 50% dei terreni agricoli. Resistenza attiva significa anche ribadire che l’agricoltura familiare esiste, che non esiste solo l’agrobusiness, come dimostrano gli accampamenti di Sem Terra.
Nel 2018 le occupazioni del Movimento sono state 25, nel 2019 se ne contano solo 8. È per paura o perché vi stanno attaccando in maniera diretta? In Messico, sotto il governo Peña Nieto si è assistito a un processo di criminalizzazione dei movimenti sociali e dei difensori dei diritti umani. Sta accadendo così anche in Brasile?
Sì, stiamo assistendo anche noi a questo processo di criminalizzazione. Il Movimento si sta muovendo con molta attenzione perché abbiamo di fronte uno stato pesantemente armato, dichiaratamente contro le persone povere e supportato da forze internazionali esterne – mi riferisco in particolare agli Stati Uniti – anche per questo le occupazioni si sono ridotte, per proteggerci da questa minaccia. Al momento, comunque, ci sono 80mila famiglie in 1000 accampamenti, in tutto il Brasile. L’accampamento è lo step precedente all’occupazione. Quindi la lotta continua anche se in forme diverse. Durante questa congiuntura storica negativa dobbiamo lavorare per rafforzare quello che è stato fatto finora piuttosto che aprire nuovi fronti.
L’esperienza più che trentennale del Movimento è sicuramente un punto di forza. Tutta questa “visibilità” non rischia però di diventare anche il vostro punto debole?
Diventerà una fragilità se non riusciremo a fare tesoro dell’esperienza fin qui accumulata e a valorizzarla insieme ad altri movimenti sociali della sinistra. Penso alla collaborazione con Via Campesina (movimento internazionale che riunisce milioni di contadini che si battono per un’agricoltura equa e sostenibile, ndr). Sem Terra potrà pur essere un target per l’attuale governo brasiliano, ma lavorare in rete ci dà una sorta di “protezione internazionale”. Dall’altro lato abbiamo un grande potenziale, proprio grazie alle politiche inegualitarie di Bolsonaro, che in questo modo si sta tirando la zappa sui piedi. Oggi, infatti, in Brasile ci sono 55 milioni di persone che vivono al di sotto della soglia minima di povertà. Con le nuove manovre del governo ci sono sempre più ragazzi che rischiano di perdere l’accesso all’università pubblica, alla salute pubblica, migliaia di persone che stanno venendo espulse dai propri territori, in Amazzonia ma non solo. Nel momento stesso in cui la destra cerca di annichilirci, è lei stessa a creare le condizioni affinché le nostre battaglie siano sempre più visibili. Ed è per questo che stiamo cercando di collocare il Movimento come attore chiave, non solo per quanto riguarda la lotta alla terra e la riforma agraria, ma anche su altre questioni, come il diritto alla salute o all’istruzione, che non possono essere trascurate.
Vi siete già in qualche modo attivati?
Sì, sia con i movimenti sociali legati alle aree rurali che con quelli presenti in città. In Brasile negli ultimi anni si sono costituiti due fronti di lotta, nati dopo il “golpe”, il primo è il Frente Povo Sem Medo (FPSM), l’altro è il Frente Brasil Popular. Insieme portano avanti battaglie per lo più trasversali come l’educazione pubblica, la sovranità alimentare, “giustizia per Marielle”, “Lula libero”. Ecco, cercare di essere attivi su più fronti e fare rete. In questo momento stiamo puntando su questo e sarà questo che ci garantirà la sopravvivenza.