2 Dicembre 2019
Son 45 giorni dall’inizio della ribellione cilena contro il neoliberismo
Da più di un mese il Cile è scosso da scioperi, manifestazioni e assemblee popolari, seguite ogni giorno da violenza e repressione. Il presidente, concessione dopo concessione e minaccia dopo minaccia, ha cercato inutilmente di riguadagnare legittimità e controllo, ma ogni sforzo si è rivelato inutile.
La revoca dello stato di emergenza
Dopo circa una settimana dall’inizio delle proteste, Piñera ha revocato lo stato di emergenza e il coprifuoco, invocando l’unità nazionale e fingendo emozione di fronte a #LaMarchaMasGrandeDeChile, a cui hanno preso parte oltre tre milioni di persone solo nella capitale del paese (1,2 milioni secondo le stime ufficiali).
Il 28 ottobre arrivano i cambi di gabinetto, alcuni ministri vengono destituiti, tra cui anche il tanto odiato Chadwick, Ministro degli Interni ed ex esponente di spicco del regime di Pinochet. Pochi giorni dopo la notizia che l’APEC e la COP25, due importanti meeting internazionali, non si svolgeranno nel paese.
Ma ben pochi si lasciano lusingare dai toni remissivi del governo. Le manovre vengono definite “auto-riforme”: misure cosmetiche per ingannare la cittadinanza e strategia comunicativa ipocrita per cercare di mantenere in vita un governo ripudiato dagli elettori. Il popolo è stanco delle briciole, i morti non si negoziano, la normalità invocata dal governo e dalla stampa è unilaterale. #AhoraEsCuando, #Consititucion2020 e #RenunciaPiñera sono gli hashtag lanciati dalle piazze.
Il clima di sfiducia totale verso l’operato del parlamento è aggravato dalla brutale repressione. Sparizioni, arresti illegali, torture, spari, violenze sessuali rimangono all’ordine del giorno, da segnalare anche incendi dolosi nei quartieri più poveri delle grandi città e pestaggi mirati a giornalisti e osservatori dei diritti umani. Negli ultimi giorni gira voce che vengano utilizzati gas tossici al posto dei normali lacrimogeni.
La società civile si organizza
Critical mass nei centri nevralgici del potere economico e fin sotto la residenza del presidente, pasti solidali tra vicini, gruppi per l’autodifesa (l’ormai famosa primera linea) e per il primo soccorso all’interno dei cortei, interventi artistici (famosissima la performance del Colectivo Lastesis “un violador en tu camino”, realizzata la prima volta a Valparaíso, che in pochi giorni è diventata un inno femminista mondiale).
Ma anche centinaia di cabildos, assemblee popolari nei quartieri e nei luoghi di lavoro e studio, vere e proprie palestre democratiche in cui far germogliare gli strumenti che serviranno da infrastruttura per l’assemblea costituente, che la volontà popolare vuole venga fatta su base territoriale e utilizzando le pratiche della democrazia diretta.
Sperimentare la solidarietà e il mutuo aiuto, tornare a guardare in faccia il prossimo, instaurare legami con i propri vicini, riuscire ad abbandonare stili di vita consumisti e competitivi.
Pratiche di dignità, consapevolezza e democrazia reale a cui sarà difficile disabituarsi e che resteranno vive nella memoria storica di diverse generazioni. Una grande conquista sociale che nessuno potrà sottrarre al movimento cileno. A simboleggiare tutto questo, Plaza Italia – cuore delle proteste – viene rinominata Plaza de la Dignidad.
Il 18 ottobre i cileni e le cilene urlavano: “Nos quitaron tanto que nos quitaron hasta el miedo”. Con il ritorno della speranza torna anche la paura, una manifestante dà voce a un sentimento diffuso: “Mi mayor miedo es que esto pare y todo siga igual”.
Il dibattito intorno alla costituzione
Le piazze non si svuotano, ma Piñera di dimettersi non ne vuole sapere. Il 10 novembre un nuovo tentativo per uscire da questa empasse senza dover mettere in discussione il ruolo di governo e istituzioni.
Un congresso, formato in seno ai gruppi parlamentari, si occuperà di scrivere una nuova costituzione, la quale verrà in seguito approvata o rifiutata da un plebiscito.
Il 15 novembre arriva una ratifica importante. Il cosiddetto Acuerdo por la Paz y la Nueva Constitución stabilisce che i plebisciti saranno due: uno in cui verrà chiesto alla cittadinanza se vuole o no la costituente e, se vincerà il sì, un secondo per deciderne le modalità operative. Praticamente tutta l’opposizione accetta il compromesso.
La nuova costituzione da miraggio sembra diventare realtà. La notizia viene data in piena notte. L’accordo però non viene festeggiato come una vittoria dai movimenti, che lo percepiscono come “un’esigenza amministrativa”, una moneta di scambio che permetterà al governo di rimanere in carica per altri due anni e di placare gli animi prima di discutere qualsiasi proposta reale di cambiamento. I militanti si sentono traditi dai leader della sinistra moderata, vanno a dormire tristi e preoccupati, temono la disfatta. Invece la mattina dopo le piazze risponderanno con fermezza, rifiutando ancora una volta di scendere a patti.
I punti dell’accordo che fanno discutere sono molti anche dal punto di vista tecnico, ma la questione è innanzitutto politica: la parola “assemblea” viene scientemente omessa dal testo e le forze sociali extraparlamentari non vengono coinvolte né figurano come interlocutrici. Questa è una scelta di campo chiara, che mira a negare le istanze di partecipazione e democrazia diretta richieste dai manifestanti organizzati nei cabildos.
Inoltre questo processo, di cui sono ancora in discussione alcuni dettagli, inizierà solamente a maggio del 2020. Nel frattempo non ci sarà nessuna risposta concreta alle rivendicazioni sociali: né sulle politiche sociali di welfare, né sulla destituzione del presidente, né sulle indagini per la verità e la giustizia relative ai crimini commessi delle forze dell’ordine.
Sempre il 16 novembre un evento drammatico incalza molti indecisi a non abbandonare le piazze: un manifestante muore in seguito a un edema polmonare. Se le cause del malanno sono ancora da verificare, è certo che i carabinieri hanno sparato con lacrimogeni e idranti sul personale medico di primo intervento, ritardando e rendendo vane le operazioni di rianimazione.
Le violazioni dei diritti umani
Il 19 viene presentata, da un gruppo di parlamentari dell’opposizione, l’accusa costituzionale contro Piñera, i suoi capisaldi sono le sistematiche violazioni dei diritti umani e il clima di impunità in cui operano militari e carabinieri. Tra le prove cruciali pesano gli oltre 240 casi di lesioni oculari subite dai manifestanti. Forse anche grazie alla visibilità internazionale accordata alla campagna #OjosRotos, questi proiettili (teoricamente di gomma, ma che perizie indipendenti rivelano contenere l’80% circa di componenti metalliche) sono stati vietati.
Dopo un mese di proteste El País parla di oltre 17mila arresti. Ufficialmente i morti sono 23, ma per ottenere dati veritieri bisognerà aspettare che vengano svolte indagini accurate perché tanti casi non rientrano in queste stime.
Come per esempio le persone bruciate nei roghi seguiti ai saccheggi dei primi giorni, che le autopsie dimostrano essere morte a causa di ferite da arma da fuoco. Secondo l’INDH i feriti sono quasi 3mila, tantissimi i casi di tortura e violenza sessuale. Alla vigilia della giornata mondiale contro la violenza di genere, circolano video di una manifestante accerchiata dai carabinieri e denudata in pubblico.
Se l’Alto Commissariato per i diritti umani dell’Onu ancora tace, Amnesty International presenta il 21 novembre i risultati delle sue indagini e dichiara senza mezzi termini che le violenze da parte delle forze dell’ordine hanno rappresentato una strategia politica per castigare i manifestanti e la popolazione. Il report evidenzia la responsabilità degli alti vertici delle forze di sicurezza e della politica, mandanti o complici di questa strategia.
Pochi giorni dopo si somma anche il resoconto di Human Rights Watch che, in un incontro istituzionale, suggerisce una riforma sostanziale delle forze di polizia. Il governo rifiuta invece di incontrare i rappresentanti di Amnesty e rilascia dichiarazioni che vanno dal negare la veridicità del documento, fino alla lapidaria affermazione che violare i diritti umani è l’unico modo per ristabilire l’ordine.
Alle parole seguono i fatti, il 25 Piñera presenta un Acuerdo por la Paz, la Democracia y contra la Violencia. Questo prevede misure di ordine pubblico come leggi anti-barricate e anti-passamontagna, stanziamento di ulteriori fondi per i carabinieri e più militari nelle strade. Particolarmente controversa la richiesta, non ancora approvata, che i militari siano autorizzati a svolgere attività di controllo e protezione delle infrastrutture strategiche su richiesta del presidente, anche senza la ratifica dello stato di emergenza. Inoltre, si propone che qualora i primi utilizzino le loro armi per legittima difesa non siano perseguibili penalmente.
Un gioco che vale la candela
Da una parte il congresso continua a reprimere il conflitto sociale, dall’altra i manifestanti non accetteranno il dialogo finché non ci saranno sul tavolo proposte concrete.
La cittadinanza si trova davanti a una scelta: partecipare attivamente alla ribellione o accettare la via d’uscita istituzionale promossa dalle elites, rivendicare totale autonomia rispetto alle forme tradizionali della politica o restituire legittimità a un sistema in crisi. Se è vero che buona parte dell’opinione pubblica è convinta che la nuova costituzione non possa nascere all’interno delle istituzioni, tanti altri temono un ulteriore inasprimento delle violenze e la destabilizzazione del paese.
Personalmente sposo la tesi per cui è legittimo rifiutare che l’attuale sistema elettorale venga imposto come base per la nuova costituzione. Chiamarsi fuori dal processo che porterà al plebiscito è da irresponsabili, ma osservarlo con occhio critico e non arretrare nella lotta è necessario. Una rivoluzione, così come una costituente, non possono essere racchiuse in una manovra, sono processi sociali a medio termine. Criminalizzare la protesta, dividere i manifestanti tra pacifici e violenti, stancarli, silenziarli nella speranza che la comunità internazionale se ne dimentichi sono tutte tecniche collaudate che rappresentano l’altra faccia della medaglia delle concessioni fatte dall’alto.
Per questo abbandonare le piazze e le forme di autorganizzazione popolare sarebbe un grave errore, che lascerebbe la società civile indifesa di fronte al rischio di nuovi attacchi da parte del governo e delle forze di sicurezza.
Rimanere ai posti di combattimento significa invece garantire la possibilità di continuare a strappare spazi di democrazia in un’esperienza costituente che potrebbe diventare d’esempio per tanti altri, in America Latina e nel mondo.
Con l’opinione pubblica fortemente orientata verso cambiamenti sistemici radicali, una rinnovata attenzione all’equità di genere e di classe, ai diritti delle popolazioni originarie e alla salvaguardia dell’ambiente, con la lotta contro il militarismo, il presidenzialismo e la concentrazione del potere politico – ancora prima che economico – “ahora sí que Chile es un modelo para Latinoamerica”. E forse non è vana la speranza che proprio in questo paese il neoliberismo morirà, così com’è nato.