Sangue e arena a Nabatieh

di

6 Dicembre 2019

L’ashura e il culto della tradizione sciita in Libano

Dieci teste rasate. Dall’ultima fila di sedili sul minivan diretto da Beirut a Nabatieh il panorama antistante è una successione di crani appena passati tra le mani del barbiere. Un padre traccia con le dita segni sulla fronte del figlio.

Con ogni probabilità, nella cittadina del Libano meridionale quel bambino di una decina d’anni al massimo andrà incontro al suo battesimo di sangue. La partenza verso Sud ha qualcosa dello spirito d’avventura che le ridotte dimensioni del paese dei Cedri sono generalmente restie a concedere. Ragione della discesa in uno dei cuori pulsanti dello sciismo libanese è la celebrazione dell’Ashura.

Festività trasversale alla comunità musulmana, l’Ashura assume connotazioni opposte a seconda che si guardi al sunnismo o allo sciismo. Unico elemento comune la collocazione all’interno dell’anno musulmano, ossia al decimo giorno (a–sh-r è una radice semitica che indica il numero dieci) di muharram, primo mese del calendario islamico.

Tra i sunniti, l’Ashura ricorda l’apertura divina delle acque del Mar Rosso che permise la fuga dall’Egitto degli schiavi d’Israele guidati da Mosè o, secondo un’altra versione, l’approdo dell’arca di Noè dopo il diluvio universale.

La ricorrenza, in entrambi i casi, della fine di un periodo di sofferenza che i sunniti celebrano con una giornata di digiuno. Quest’ultima ritualità sembra derivare dalla scelta operata dal profeta Maometto di replicare la pratica seguita dalla comunità ebraica di Medina in occasione dello Yom Kippur.

Con l’affermazione del digiuno obbligatorio in concomitanza con il mese di ramadan, nel giorno dell’Ashura l’astensione dal cibo si è ridotta a iniziativa volontaria e in paesi come il Marocco la festività ha assunto caratteri quasi carnevaleschi ormai del tutto scissi dall’elemento religioso.

Agli antipodi, l’Ashura è giorno di lutto e contrizione tra gli sciiti. A essere ricordato è il martirio di Hussein. Figlio di Ali e nipote di Maometto, Hussein fu ucciso nel 680 d.C. durante la battaglia di Karbala (nell’odierno Iraq), che vide contrapposta la sua piccola armata all’esercito di Yazid I, califfo ommayade di Damasco. Ragione dello scontro il gran rifiuto di Hussein di dichiarare la propria lealtà di suddito a Yazid, considerato un usurpatore dello scettro dell’Islam da quelli che verranno poi indicati come sciiti, sostenitori di Ali e della sua progenie.

Attorno alla figura di Hussein e alla sua morte vertono i rituali dell’Ashura sciita. Le manifestazioni di cordoglio includono processioni funebri, discorsi in cui gli imam rievocano i fatti di Karbala, pellegrinaggi alla tomba di Hussein nella città irachena, rievocazioni della battaglia (note come tazyah). E infine il rito più discusso di tutti, ragione principale per cui migliaia di curiosi accorrono nella cittadina di Nabatieh: l’autoflagellazione (tatbir, in arabo).

Arrivando a Nabatieh alle dieci del mattino, le vie si presentano affollate di gente, molta della quale arrivata la sera precedente. Nucleo delle celebrazioni il rettangolo che include le vie circostanti lo stadio municipale e la locale hussainiya, sala di riunione architettonicamente prossima a una moschea ma avente la funzione specifica di luogo di raccoglimento durante il mese di muharram.

Proprio sul sagrato della hussainiya, gli anziani della comunità praticano con un rasoio un taglio sulla testa dei penitenti, superficiale ma sufficiente a innescare un copioso fiotto di sangue.

A differenza degli spettatori, generalmente vestiti in nero, i partecipanti alla processione, per lo più giovani uomini, indossano un tessuto bianco destinato a grondare di sangue di lì a poche ore. Dalla hussainya poi muove la marcia.

Lungo il circuito, percorso più e più volte, questi uomini si battono ripetutamente il capo al fine di non permettere la coagulazione della ferita e rendere ancora più copiosa l’emorragia che ne intride i capelli, il volto, giù fino ai piedi. I più accaniti si percuotono la testa di piatto con sciabole che le bancarelle ai lati della strada vendono a una decina di dollari. Il carattere militare è segnato da un incedere marziale, scandito dalla ripetizione dell’invocazione “Haydar! Haydar!” (termine arabo che significa “leone, impavido”, epiteto attribuito tradizionalmente ad Ali) cui corrisponde un nuovo colpo di spada o un ennesimo battito di mano sul capo a far sprizzare sangue fresco.

La pratica del tatbir è oggetto di controversia negli stessi ambienti sciiti e praticata da una risicata minoranza. Si sono espressi contro quest’atto di violenza sul corpo la guida suprema iraniana Ayatollah Khamenei e il segretario del partito sciita libanese Hezbollah, Hassan Nasrallah, il quale ha invitato i fedeli a donare il sangue piuttosto che spargerlo sull’asfalto.

Il tatbir è condannato da gran parte degli sciiti, che lo definiscono come una barbarie che discredita la comunità e la sua reputazione all’esterno. Il partito Amal, il maggior concorrente di Hezbollah sulla scena politica sciita nazionale, si è rivelato maggiormente tollerante, quasi in un tentativo di smarcarsi dagli avversari. In effetti, vicina ad Amal è gran parte della popolazione di Nabatieh e le immagini di carattere politico (invero poche per il paesaggio urbano libanese medio) sono quasi tutte riconducibili alla compagine guidata da Nabih Berri.

Mentre prosegue il corteo ritmato anche dallo sventolare di vessilli con rappresentazioni di Hussein e motti a questi inneggianti, lo stadio comunale si riempie gradualmente. Sugli spalti si accalca una folla vestita uniformemente di nero, qua e là spezzato da drappi verdi e pezzi di cartone utilizzati per proteggersi dal sole a picco.

Tutti hanno lo sguardo puntato allo spiazzo coperto di sabbia al centro del campo, in attesa dell’inizio della messa in scena degli eventi che condussero alla battaglia di Karbala. Prima dell’inizio dello spettacolo, altoparlanti diffondono litanie in commemorazione di Hussain e venditori ambulanti vendono limonata ghiacciata, in una commistione grottesca di celebrazione religiosa, mortificazione corporale e fiera paesana.

Intorno a mezzogiorno, sulle dune chiamate a riprodurre i paesaggi iracheni, ha inizio la ricostruzione dello scontro fatale. Cammelli, cavalli, sbandieratori e danzatori si alternano ad attori professionisti in una rappresentazione fedele dei giorni che, dalla partenza di Hussein da Medina, lo condussero alla morte e alla successiva decapitazione in Iraq.

In un turbinio di sabbia si svolgono le scene di battaglia, con gli altoparlanti ora a diffondere in arabo aulico le parole dei combattenti e commentarne le gesta. Fino alla dipartita del condottiero Hussein, terzo imam dello sciismo.

Nel frattempo, all’esterno di questo palcoscenico, continua incessante l’autofustigazione dei penitenti, ormai completamente ricoperti di sangue. Iniziano a cadere a terra le prime vittime di questo rito, stremati o in preda alle convulsioni, prontamente trasportati da medici e infermieri in una delle varie tende allestite a mo’ di ospedali da campo.

“Haydar! Haydar!”, continuano a gridare i più accesi tra i seguaci di Ali, ripresi con voracia morbosa dai telefonini di chi assiste dai marciapiedi ai lati della strada o dai balconi prospicienti.

Gradualmente, però, la foga rientra. Il volume dei cortei di fedeli sanguinanti si assottiglia sempre più, le grida si riducono di volume, si iniziano a smontare i banchetti che fino a poco prima avevano distribuito gratuitamente generi di conforto. Prima delle quattordici, mi incammino verso l’autostazione per riprendere il minivan verso Beirut. Di fronte a me, un bambino la cui fronte di decenne non è sfuggita al rituale brandisce una piccola sciabola: apparentemente è entrato nella parte dopo lo choc iniziale. Per un anno, le strade di Nabatieh non vedranno più scorrere sangue.