12 Giugno 2018
L’odissea della nave Aquarius e la campagna elettorale permanente
Nel momento in cui scrivo sulla nave Aquarius ci sono 629 persone, tra cui 123 minori non accompagnati, 11 bambini e 7 donne incinte.
L’Aquarius, utilizzata da SOS Méditerranée e Medici Senza Frontiere, è rimasta l’unica nave delle Ong presente nel Mediterraneo, e ieri pomeriggio il neo Ministro dell’Interno Matteo Salvini, in collaborazione col ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, le ha vietato l’attracco ai porti italiani.
Questa decisione è la prima nel suo genere ed è una violazione in piena regola del diritto internazionale. Piú nello specifico, è una violazione agli articoli 2, 3 e 4 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, sottoscritta dall’Italia ed entrata in vigore nel 1955, e dell’articolo 33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati, efficace dal 1954.
Secondo Salvini e Toninelli, invece, questa decisione è un messaggio per l’Europa. Questa prima mossa del nuovo governo in materia di immigrazione servirebbe, seguendo la loro logica, per mettere in chiaro che l’Italia non può essere lasciata da sola a gestire gli sbarchi. Ad ulteriore prova di ciò, contemporaneamente alla chiusura dei porti italiani, Salvini ha scritto una lettera urgente al suo omologo maltese, sostenendo che il porto de La Valletta era il più sicuro per l’attracco di Aquarius. Ma il recupero della nave che, come tutte le Ong operanti nel Mediterraneo, è sotto il coordinamento delle Guardie Costiere, è stato coordinato dal centro operativo di Roma. Malta rimane quindi esterna a questo procedimento.
Ancora una volta, la retorica della difesa e della sicurezza prevale non solo sull’umanità, ma anche sul diritto internazionale, come se quest’ultimo fosse un insieme di regole facoltative malleabili per compiacere l’opinione pubblica a discapito di altri temi più solidi come il lavoro e la lotta a criminalità organizzata e corruzione.
L’accostamento continuo tra sicurezza e immigrazione é stato uno dei punti di forza della campagna elettorale della Lega, così come il discorso politico del suo leader é stato focalizzato sul concetto di difesa; difesa di un confine e di un’economia nazionale che andrebbe attuata bloccando le immigrazioni.
È proprio questo desiderio di ‘chiudere i confini’ o ‘far entrare solo la gente per bene’ ad avvicinare il ministro italiano al premier ungherese Viktor Orbán, che il primo considera il proprio modello e interlocutore ideale in Europa. La posizione di quest’ultimo sulle migrazioni è quella per cui le persone ‘arrivate illegalmente dovrebbero essere rastrellate e deportate.’
Già da prima di diventare Ministro Salvini aveva dichiarato la sua ammirazione per il politico ungherese. In un’intervista del 29 gennaio scorso su La7, ad esempio, aveva detto: ‘Il premier Orbán difende i confini, difende le banche, difende la moneta e blocca l’immigrazioni. Se devo scegliere un paese ben governato scelgo quello.’
Nonostante nel corso della stessa intervista Orbán venga definito come ‘interno a un moderatismo europeo’, é in realtà uno degli esempi di gestione più autoritaria dell’immigrazione in Europa e del mancato rispetto del diritto internazionale.
L’estate del 2015 ha segnato uno spartiacque nel suo approccio: dopo la cosiddetta ‘refugee crisis’, quando le foto delle stazioni di Budapest affollate di migranti hanno fatto il giro del mondo, Orbán ha fatto costruire un muro di 175 km al confine con Serbia e Croazia.
La Balkan route, cioè il tragitto seguito dai migranti entrati in Europa dalla Grecia per spostarsi verso altri paesi europei più a nord, é stata in seguito progressivamente chiusa da uno sbarramento a catena dei confini e dall’accordo UE-Turchia. Da quel momento l’unica via legale per entrare in Ungheria sono rimaste le due transit zone al confine sud, da cui poteva passare un totale di 30 persone al giorno.
Certo, i campi profughi esistevano all’interno dell’Ungheria, ma erano collocati in luoghi completamente isolati, mentre la stampa nazionale ne accennava cosí poco che era facile dimenticarsi della loro esistenza.
Il 2 ottobre 2016, Orbán poi ha proposto un referendum per chiedere agli ungheresi se accettare o meno il piano europeo di ripartizione di migranti e richiedenti asilo, spingendo apertamente per il rifiuto. Il risultato del voto ha sostenuto la sua posizione. Dopo aver conquistato il terzo mandato consecutivo alle elezioni dell’8 aprile, la linea del premier si è allontanata ancora di piú dal ‘moderatismo europeo’ con la differenza che adesso, avendo i due terzi del parlamento, ha il potere di modificare la costituzione.
Ma l’ultima e piú sconcertante proposta di legge in materia di immigrazione, in vigore dal 1 giugno, punisce chiunque, comprese le Ong, aiuti migranti irregolari. L’ ‘aiuto’, per cui si puó essere puniti con fino a un anno di carcere, comprende anche azioni come fornire cibo o informazioni legali basilari.
L’idea di un ‘paese ben governato’ sarebbe quindi quella di un paese in cui aiutare un migrante diventa un crimine. Questa legge e i toni usati da Orbán, lungi dall’essere moderati, non sono preoccupanti solamente perché autoritari e privi di umanità, ma lo sono anche perché parole come ‘rastrellamenti’ e ‘deportazioni’, la visione secondo cui l’UE dovrebbe deportare su un’isola gli immigrati irregolari e il divieto di aiutare chi é considerato irregolare richiamano una pagina buia del passato europeo.
Questa escalation cosí rapida nell’ostilitá verso l’immigrazione mette in luce come, nel giro di poco, non solo il diritto internazionale venga ignorato, ma che anche un atto di solidarietá possa facilmente diventare illegale. Ma questo dimostra anche come la migrazione sia un ‘banco di prova’ per introdurre misure sempre piú autoritarie, giustificate dalla presunta eccezionalitá degli eventi e delle persone che riguardano.
Ma se questo è ‘moderatismo’, cosa è l’estremo?
Un esercizio necessario per indebolire la retorica (poco velatamente) razzista usata per giustificare la volontà di bloccare le immigrazioni é verificare quanto resistenti siano le basi che la sostengono. In questo caso, i pilastri dell’accostamento tra lavoro, sicurezza e immigrazione possono sembrare solidi all’apparenza ma, all’interno, sono estremamente fragili. I dati del Sole 24 Ore dell’ottobre 2017 dimostrano come, lungi dal rubare il lavoro agli italiani, gli stranieri contribuiscano all’8.9% del Pil, versino 11,5 miliardi di contributi e non siano in competizione con gli italiani perché i due gruppi fanno lavori diversi. Per quanto riguarda la criminalità, l’analisi di Open Migration si sofferma su numeri assoluti e percentuali di detenuti stranieri e tipi di reato, smantellando lo stereotipo di una propensione degli stranieri a delinquere.
Un punto più spinoso è invece quello legato ad altre attività illegali come spaccio di droga, prostituzione o lavoro nero. I toni di una parte del dibattito pubblico su questi temi sono molto accesi quando si parla della percentuale di stranieri coinvolti, mentre si zittiscono sulla necessità da parte del governo di lottare contro la criminalità organizzata che gestisce proprio lo spaccio di droga, così come il caporalato nel settore dell’agricoltura; di cui i migranti irregolari sono le prede più facili.
‘Facciamo entrare solo le persone per bene’, come ‘aiutiamoli a casa loro’ sono degli slogan superficiali che non tengono conto delle irregolarità su cui lo sfruttamento dei immigrati irregolari (come regolari) si basa.
Come ha ricordato Giusi Nicolini, ex sindaco di Lampedusa, in un’intervista di qualche giorno fa, ‘aiutarli a casa loro’ è un processo che, se preso seriamente, deve passare attraverso misure serie, pianificate e purtroppo impopolari in una parte consistente dei politici italiani.
L’esempio più importante è frenare drasticamente la vendita di armi e di veicoli militari ad altri paesi, che contribuiscono a tenere vive quelle guerre da cui la gente scappa o, ancora, l’impegno per introdurre la possibilità di chi vuole fare richiesta d’asilo in un paese europeo di farla direttamente dal suo paese di provenienza. Queste politiche non hanno degli effetti visibili immediatamente, ma che anzi, si manifestano nel giro di qualche anno, ma sarebbero lungimiranti e, soprattutto, efficaci.
‘Un paese ben governato’ non è un paese in cui i migranti vengono bloccati in mezzo al mare. Un paese ben governato è un paese che rispetta il diritto internazionale, che commercia in modo etico e che si impegna per riformare il lavoro, lottare contro la criminalitá organizzata e la corruzione.