di Susanna De Guio and Gianpaolo Contestabile
13 Dicembre 2019
Un’analisi del movimento e delle rivendicazioni delle proteste
“El Paro no para!” Lo sciopero non si ferma, questo è lo slogan con il quale centinaia di migliaia di persone stanno riempiendo le strade colombiane da più di quindici giorni.
Convocato da oltre 50 sigle sindacali lo scorso 21 novembre, al primo sciopero hanno aderito immediatamente organizzazioni studentesche, indigene, ambientaliste, femministe e LGBTQI, trasformando la mobilitazione in un movimento sociale trasversale, inedito nella storia recente colombiana, che è tornato a incrociare le braccia il 27 novembre e lo scorso 4 dicembre, in opposizione alle politiche neoliberali e repressive dell’attuale governo.
“Anche la Colombia si è svegliata” si sente ripetere tra i manifestanti, dopo le grandi mobilitazioni in Cile e in Ecuador, che negli ultimi due mesi hanno contribuito a cambiare radicalmente il quadro politico della regione.
E sull’esempio cileno si ritrovano nelle piazze gli stessi slogan e cartelli, risuonano il coro e i gesti della performance El violador eres tu che sta facendo il giro del mondo, mentre anche nei cortei colombiani si organizza la ‘prima linea’, con scudi e maschere antigas.
Un altro tratto comune delle mobilitazioni recenti di tutta l’America Latina è infatti la repressione da parte delle forze di sicurezza, la polizia, l’esercito, gli squadroni speciali che intervengono brutalmente con lacrimogeni, idranti e pallottole di gomma che spesso si rivelano letali. Durante la prima giornata di sciopero, il 21 novembre, si sono registrati 98 arresti, 373 feriti e 3 morti.
Già nei giorni precedenti, attivisti e avvocate per i diritti umani avevano denunciato perquisizioni e arresti preventivi, e illegali, ai danni dei leader dei movimenti sociali.
Le frontiere con il Venezuela sono rimaste chiuse per una settimana e i militari sono comparsi al fianco delle pattuglie per le strade della capitale, mentre ai sindaci delle principali città sono stati dati pieni poteri per dichiarare il coprifuoco, che è scattato a Cali la sera stessa dello sciopero, e a Bogotá il giorno dopo, quando i manifestanti stavano ancora riempiendo piazza Bolivar.
Su internet circolavano notizie di saccheggi e attacchi a case private, ma il tentativo di seminare il panico costruendo la retorica dei manifestanti violenti, e dei vandali venezuelani, non ha funzionato, la risposta dei colombiani e delle colombiane è stata scendere nuovamente in piazza a tempo indefinito, con cacerolazos, biciclettate, concerti.
Le proteste di queste settimane in Colombia sono pacifiche perché rifiutano la strumentalizzazione e le provocazioni orchestrate dal governo e, anzi, denunciano la violenza sistematica applicata dallo Stato.
Il caso più eclatante è stato l’omicidio di Dylan Cruz: studente diciottenne che il 23 novembre è stato colpito alla testa da una cartuccia bean bag sparata da un membro dell’ESMAD, il reparto anti-sommossa. Dylan è morto tre giorni dopo in ospedale. Il suo omicidio ha provocato profonda indignazione, i manifestanti hanno organizzato veglie notturne in suo ricordo e nuove mobilitazioni contro la violenza delle forze militari e di polizia.
E nel documento formulato in queste settimane dal Comitato dello Sciopero si reclama la garanzia del diritto a manifestare come premessa per qualsiasi istanza di dialogo con le istituzioni, la smilitarizzazione delle città e la fine della violenta repressione delle forze di sicurezza, e in particolare dell’ESMAD.
Il volto di Dylan è diventato simbolo della lotta del movimento studentesco che esige al governo il rispetto dei piani di investimento nel sistema educativo superiore colombiano. I fondi promessi per il migliorare e ampliare le istituzioni scolastiche sono stati elargiti sono in una minima parte, si parla di 78 miliardi di pesos investiti dei 300 accordati dopo i due mesi di proteste studentesche
dell’anno scorso.
Proprio gli studenti sono stati protagonisti nel preparare il terreno per lo sciopero nazionale del 21 novembre, anche se a far traboccare il vaso è stato il paquetazo: una serie di riforme che colpiscono i lavoratori, tra cui una riduzione del salario minimo per i più giovani e un ulteriore privatizzazione dei fondi pensionistici. Questa nuova spinta neoliberista è perfettamente in linea con i passati governi di Álvaro Uribe che, tra il 2002 e il 2010, non hanno fatto altro che accentuare la diseguaglianza economica e il livello della violenza in Colombia.
Un paese radicalmente segnato dalla firma dei Trattati di Libero Commercio con gli Stati Uniti e la politica della “sicurezza democratica” che ha contribuito a militarizzare il paese promettendo di combattere la guerriglia.
La continuità delle politiche liberali e conservatrici al potere ha prodotto come risultato una società profondamente diseguale: il 20% delle entrate nazionali e l’81% delle proprietà terriere è in mano all’1% della popolazione.
Inoltre, alti livelli di disoccupazione e salari miseri rendono difficile l’accesso all’educazione e alla salute. Alle deficienze dello stato sociale si è affiancato il costante saccheggio delle risorse del territorio, l’ingerenza dei progetti estrattivi nelle zone indigene, la corruzione istituzionalizzata e la normalizzazione della violenza, in un contesto politico massacrato da 50 anni di guerra civile.
La società colombiana è entrata in una prospettiva di pacificazione solo nel 2016, quando il governo di Juan Manuel Santos ha firmato la negoziazione con le FARC-EP per mettere fine a un conflitto armato che ha coinvolto 8 milioni di persone, lasciando più di 80mila desaparecidos e oltre 200mila morti.
Gli accordi di pace tuttavia promettevano alla società colombiana un processo di democratizzazione e riconciliazione che non è mai avvenuto; l’intervento mediatico, ideologico e discorsivo di un potente settore dell’estrema destra legato agli interessi dei paramilitari ha ostacolato in ogni modo il compimento concreto dei punti che stipulavano la fine della guerra in Colombia.
A guidare la “campagna per il No” all’accordo di pace è stato il partito Centro Democratico, costituito da Uribe negli anni del negoziato di pace all’Avana. Dopo il referendum del 3 ottobre 2017, che esprimeva infine il no alla pace in Colombia, la costruzione reale degli accordi stipulati tra Santos e le FARC si è convertita in un lento processo pieno di irregolarità in cui lo Stato non ha rispettato la maggioranza degli impegni presi.
È in questo contesto che si è svolta, lo scorso anno, la campagna elettorale di Duque, erede del modello politico di Uribe, fondata su un grande apparato mediatico e l’ampio uso di marketing politico e social network, in cui prometteva una revisione dell’accordo di pace e sbandierava lo spettro della crisi venezuelana e del nemico castro-chavista.
Vincitore alle elezioni dopo il ballottaggio contro Gustavo Petro – ex-guerrigliero e leader dell’opposizione progressista -, Ivan Duque viene considerato dalla maggioranza dell’opinione pubblica colombiana come un un “sub- presidente”, mero esecutore delle decisioni di Uribe, che si vedono rispecchiate non solo negli ostacoli posti al compimento degli accordi di pace, ma anche nell’inasprirsi della violenza contro i leader sociali e gli ex-combattenti. Si parla di circa 138 ex membri dei gruppi FARC-EP e 36 familiari assassinati durante il loro percorso di reintegro nella società civile e più di 600 leader sociali uccisi dalla sigla degli accordi di pace nel 2016.
A caratterizzare il governo di Duque, inoltre, ci sono le politiche di interventismo in Venezuela, gli scandali di corruzione e le violazioni dei diritti umani. Emblematico il caso dei “falsi positivi”, omicidi di civili mascherati da operazioni anti-terroristiche.
Il caso più eclatante è avvenuto lo scorso 29 agosto con il bombardamento di un accampamento di un gruppo dissidente delle FARC, in cui sono morte almeno 13 persone di cui 8 minorenni (alcuni testimoni locali parlano invece di 18 minori uccisi).
La gravità degli omicidi ha generato un enorme scandalo nelle settimane seguenti, e la profonda indignazione in tutto il paese ha portato alle dimissioni del Ministro della Difesa. Oggi una delle rivendicazioni centrali del Comitato dello Sciopero è che si rispettino gli accordi di pace e si metta fine alle violenze e ai massacri da parte del governo colombiano.
Tra le principali vittime delle politiche repressive dello Stato colombiano ci sono le comunità indigene. Dall’inizio del governo Duque sono stati assassinati 135 referenti indigeni. La questione del rispetto dei diritti dei popoli originari è diventata quindi una delle rivendicazioni principali dello sciopero.
L’immagine di una camionetta stracolma di bandiere rossoverdi e militanti bardati con bandane colorate sotto una pioggia torrenziale ha sancito l’arrivo a Bogotá della Guardia Indigena del CRIC lo scorso 4 dicembre.
Il Consiglio Regionale Indigeno della valle del Cauca (CRIC), nato nel 1971 come alleanza tra 7 comunità, è cresciuto negli anni arrivando a includere 115 cabildos (distretti comunitari) e 11 associazioni, e ad ampliare le sue rivendicazioni non solo alla questione dei terreni usurpati ma anche alla difesa dell’ambiente e dei territori in cui vivono. Proprio una delle misure contenute nel paquetazo riguarda la promozione del fracking, che già interessa diversi territori delle comunità indigene e minaccia di ampliarsi fino alla regione del Cauca.
A complicare ulteriormente la situazione ci sono le organizzazioni che gestiscono il traffico di droga, con una sempre maggiore presenza di rappresentanti del narcotraffico messicano.
Alcuni giornali hanno iniziato a parlare di messicanizzazione della società colombiana, per riferirsi al sempre maggior potere che i narcos messicani stanno conquistando in Colombia e delle campagne di terrore che stanno promuovendo attraverso annunci e comunicati in cui vantano crimini efferati e minacciano eventuali oppositori.
Come in Messico la guerra alla droga ha generato un numero spropositato di vittime, si parla di centinaia di migliaia di morti e desaparecidos, soprattutto nelle comunità rurali, e ha aperto nuovi spazi di investimento e sfruttamento delle risorse per le imprese, così in Colombia a fare le spese della guerra ai cosiddetti ‘cartelli’ e ai gruppi armati sono soprattutto le comunità indigene e gli attivisti ambientali (24 dei quali sono stati assassinati solo nel 2018).
Il tema dei diritti dei popoli originari, quindi, è centrale nelle mobilitazioni colombiane, non solo per opporsi alle misure di sfruttamento del territorio che danneggiano soprattutto le comunità indigene, ma anche nel denunciare un sistema di repressione e militarizzazione utile solo agli interessi dello Stato e delle imprese.
Il presidente Duque, messo all’angolo dalle mobilitazioni che non accennano a placarsi e dalle critiche, da destra, per la sua mancanza di risolutezza nel gestire gli scandali e le proteste, ha accettato le condizioni del Comité per lo Sciopero per aprire un tavolo di trattative.
Il presidente aveva proposto inizialmente come canale di dialogo la “conversazione nazionale”, uno strumento a cui sindacati e movimenti si sono opposti perché prevedeva incontri a lungo termine, fino a metà marzo del prossimo anno, e la cui metodologia ruoterebbe attorno alle politiche del governo.
Quel che invece chiede il Comité dello Sciopero, composto da diversi sindacati, organizzazioni sociali e parlamentari dell’opposizione riuniti nella Bancada por la Paz, è di raggiungere accordi urgenti attorno alle tematiche che emergono dalle mobilitazioni, di mettere sul tavolo la propria agenda e ottenere risposte efficaci. Duque ha rilanciato promettendo delle misure ambigue come decretare tre giorni all’anno senza IVA e ridurre le tasse a chi assume giovani lavoratori.
Nel frattempo, mentre le procedure per l’approvazione della contestata riforma fiscale e la modifica del salario minimo continuano, nelle strade lo sciopero prosegue indefinitamente, e si moltiplicano le forme di solidarietà alle proteste, come lo storico concerto di domenica 8 dicembre a Bogotá, #CantoxColombia, con 250 artisti sul palco e la partecipazione di decine di migliaia di persone.