di Luca Capponi
13 Giugno 2018
A 130 anni dalla nascita del grande intellettuale portoghese e globale
Alle 15:20 di centotrenta anni fa nasceva, a Lisbona, Fernando António Nogueira Pessoa. Sarebbe morto solo 43 anni dopo, ucciso dal vizio della bottiglia e da una crisi epatica, semi sconosciuto in Portogallo e del tutto ignorato fuori. Era un genio, ma il mondo – che in quei 43 anni lo conobbe solo come un umile impiegato in una ditta di commercio – non se ne accorgerà che molti anni dopo.
Tutti noi abbiamo quello scrittore (i più fortunati ne hanno più di uno) che sospettiamo abbia spiato le nostre azioni e ascoltato i nostri pensieri, prima di mettersi a scrivere, tanto le sue sensazioni coincidono con le nostre. Pessoa è spesso quello scrittore.
Amore, morte, felicità, senso di mistero dell’essere al mondo, caducità dell’esistenza, nostalgia. Ogni emozione, ogni tassello dell’animo umano è stato toccato da Pessoa. E il tutto con una semplicità straordinaria, quasi elementare. «Quasi anonima sorridi e il sole indora i tuoi capelli. Perché per essere felici bisogna non saperlo?»: non c’è retorica, non c’è ermetismo. Solo una capacità fuori dal comune di trattare in maniera semplice i temi più alti e complessi. Che è poi la vera grandezza.
Tra i vari concetti universali che percorrono l’opera di Pessoa, ce n’è uno che si staglia, per ridondanza e profondità dell’analisi: è quello della nostalgia. Non una parola casuale, per un portoghese.
Nostalgia in portoghese si dice saudade ed è in realtà qualcosa di diverso dalla nostra nostalgia, qualcosa di più composito. Potremmo definirla la somma di nostalgia, malinconia e senso di incompiutezza. È una parola che torna sempre, in Pessoa e nei suoi eteronimi, gli scrittori altri da sé creati da Pessoa stesso ma diversi da lui, tutti con una loro personalità, una loro storia, una loro poetica.
Se oggetto della nostalgia è, solitamente, ciò che è stato, l’irreversibile, per usare la definizione del filosofo francese Jankélévitch, e cioè la consapevolezza che la vita non si ripete, che non è un luogo o una persona a renderci felici, ma il ricordo che conserviamo di essi, Pessoa porta la discussione a un livello più alto. La nostalgia non appartiene più solo al passato, non riguarda solo ciò che è stato e non è più. Ecco spuntare quindi altri tipi di nostalgia: quella per il presente, quella per ciò che non è mai stato e – addirittura – per ciò che sarebbe potuto essere: «la nostalgia del possibile».
Nella sua opera forse più importante, Il libro dell’inquietudine, una sorta di diario esistenziale, il protagonista/scrittore Bernardo Soares (colui che scrive il diario) entra dal barbiere pieno di una felicità incomprensibile e immotivata, semplicemente «col piacere che mi dà il fatto di poter entrare senza imbarazzo nei luoghi conosciuti».
Ma quando il barbiere gli racconta della morte del suo collega, un uomo anziano che Soares conosceva a malapena, è come una catastrofe. «Nostalgia! Ho nostalgia perfino di ciò che non è stato niente per me, per l’angoscia della fuga del tempo e la malattia del mistero della vita. Volti che vedevo abitualmente nelle mie strade abituali: se non li vedo più mi rattristo; eppure non mi sono stati niente, se non il simbolo di tutta la vita».
Non sarebbe corretto identificare queste parole con il pensiero filosofico del Pessoa uomo. Sono parole di Bernardo Soares, uno scrittore creato, sì, da Pessoa, ma pur sempre un personaggio. Sarebbe come identificare Amleto con Shakespeare.
Certo è, però, che inquietudine, male di vivere, senso di estraniamento nei confronti dell’esistente sono temi che tornano sempre in Pessoa e nei suoi eteronimi. E benché siano inglobati in un’unica parola, nostalgia, un termine che solitamente associamo al passato, hanno a che fare con l’esistente, con ciò che ci circonda ogni giorno. Eccola, la nostalgia del presente. La potremmo definire una non-accettazione della realtà. Perché il problema sta tutto lì: la realtà è troppo più grande di noi, l’uomo non può arrivare a comprenderla.
Perché esistiamo e perché un giorno non esisteremo più? E chi tenta, con le religioni o la filosofia, di conoscere l’inconoscibile, è un pazzo che ignora la propria natura: «La metafisica mi è sempre sembrata una forma comune di pazzia latente. Se conoscessimo la verità la vedremmo; tutto il resto è sistema e periferia. Ci basta, se riflettiamo, l’incomprensibilità dell’universo; volerlo capire è essere meno che uomini, perché essere uomo è sapere che non si capisce».
Se il problema è la realtà è chiaro che l’uomo può salvarsi solo negandola. Per essere felici «bisogna non saperlo». Come la celebre frase di Milton: «Chiedetevi se siete felici e cesserete di esserlo». È la consapevolezza l’origine di tutti i mali. Per questo l’unico antidoto per l’uomo è il sogno.
«Non sono niente. Non sarò mai niente. Non posso voler essere niente. A parte questo, ho dentro me tutti i sogni del mondo». Bastano queste poche righe, incipit di Tabaccheria, per capire i due concetti attorno a cui ruota tutto Pessoa: l’insofferenza nei confronti della realtà e il sogno come unica via di fuga. E poi il problema dell’identità («Non sono niente») che per Pessoa è il più pressante di tutti. Non a caso, si inventò gli eteronimi, come se, tramite la creazione di tante vite immaginarie, avesse cercato di capire meglio sé stesso.
Del resto, il Pessoa uomo, per quel poco che sappiamo della sua vita, ci appare come una figura tra il misterioso e l’inquietante.
Mistico, astrologo, vicino alla massoneria e a tutto ciò che avesse a che fare con l’occulto e il segreto. Di lui, probabilmente, scrisse meglio di tutti l’altro grande autore della letteratura portoghese, José Saramago: «Fernando Pessoa non riuscì mai a essere davvero sicuro di chi fosse, ma grazie al suo dubbio possiamo riuscire a sapere un po’ di più chi siamo noi».